Lunedì, 17 Settembre 2018 00:00

La riforma europea del copyright su internet

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Rimandata dopo una prima votazione in luglio, lo scorso 12 settembre il Parlamento Europeo ha votato a maggioranza la proposta di Direttiva sul diritto d’autore nel mercato unico digitale; il testo approvato sarà oggetto di contrattazione con gli Stati membri fino al voto definitivo previsto in gennaio e successivamente, in caso di approvazione, la direttiva sarà recepita nelle normative nazionali dei singoli Stati. 

Il voto è risultato molto disperso attraverso i maggiori schieramenti, tipico segnale dell’assenza a monte di un dibattito radicato ad informare le posizioni dei gruppi; solo il Partito Popolare Europeo è stato compatto a favore, Socialisti&Democratici tendenzialmente contrari.

Il progetto di riforma, avviato nel 2016 e presentato dall’europarlamentare tedesco Axel Voss (CDU/PPE), ha raccolto l’entusiasmo (e il lobbying) di organizzazioni di autori e soprattutto di editori, che vi hanno visto uno strumento di protezione dei propri diritti esclusivi di diffusione e di profitto dalla crescente indocilità della fruizione dei contenuti su internet: l’obiettivo dichiarato è in effetti una più equa distribuzione tra piattaforme, editori ed autori dei profitti derivanti dalla pubblicazione di contenuti. La proposta è stata invece vista con preoccupazione e allarme, in particolare circa gli articoli 11 e 13 soprannominati rispettivamente tassa sui link e filtro sul caricamento, dalle realtà che si occupano di cultura e diritti nel mondo digitale; i mesi di campagna e mobilitazione hanno visto l’impegno di numerosi accademici ed esperti della rete (tra i quali spiccano nomi come Vint Cerf, Tim Berners-Lee, Jimmy Wales).

L’articolo 11 prevede che le piattaforme di condivisione stipulino con gli editori degli accordi di licenza per la diffusione di pubblicazioni giornalistiche o parte di esse (ad esempio le anteprime di articoli che appaiono sui social network o sui motori di ricerca), affinché ad editori ed autori sia corrisposta “una remunerazione equa e proporzionata” da parte della piattaforma che di fatto guadagna dalla diffusione dei loro contenuti. Farebbero eccezione i collegamenti ipertestuali (hyperlink) “accompagnati da singole parole”. Interessante notare come la pratica di hyperlinking, vista negativamente dalla comunità di internet poiché chi pubblica l’hyperlink si giova della visibilità del contenuto senza farsi carico del suo peso sul server, che rimane invece in capo a chi lo ha caricato originariamente (una questione che si pone molto chiaramente per contenuti come immagini), è stata più volte riconfermata come legale – un esempio dello scollamento tra legislatori e realtà della rete.

Provando a mettere a fuoco gli effetti materiali della legge nel contesto reale in cui sarebbe declinata, ammesso che i rapporti di forza siano tali per cui le piattaforme acquistino licenze da qualcuno, si può immaginare che ne acquistino da gruppi come l’Espresso, ma difficilmente da realtà come Il Becco. Aggiungendo che rimarrebbero intatti, poiché prerogativa specifica degli Stati membri, i sistemi di ripartizione del compenso tra autori ed editori, si nota come le nuove disposizioni proteggerebbero al più i profitti dei colossi editoriali, ma non quelli dei gruppi più piccoli – e dubbiamente quelli degli autori.

L’articolo 13 mira ad impedire a monte la condivisione abusiva di contenuti protetti da copyright da parte dei singoli utenti di piattaforme. Nella prima versione, il testo faceva riferimento all’utilizzo di “tecnologie adeguate e proporzionate per il riconoscimento dei contenuti” per filtrare i contenuti fin dal loro caricamento, mentre la versione finale, più cauta e generica, non prevede strumenti particolari e specifica che a dirimere eventuali controversie deve essere un addetto umano e non un software di intelligenza artificiale. Sembra comunque inevitabile una discriminazione tra le piattaforme in grado di mettere in campo sistemi del genere e quelle dai mezzi più contenuti: sono espressamente escluse piattaforme non a scopo di lucro e le “microimprese” (imprese economiche con meno di 10 dipendenti e un bilancio annuo non superiore a 2 milioni di euro, secondo la raccomandazione della Commissione Europea 2003/361/CE), mentre rimane un interregno nel quale la concorrenza non sarebbe ad armi pari.

Malgrado l’apparente miglioramento del testo, se la prima valutazione deve essere automatizzata, il pensiero non può che correre a tecnologie affini al Content ID già utilizzato da Youtube che, pur essendo l’avanguardia dello sviluppo di strumenti di identificazione automatica di contenuti, continuano a generare falsi positivi dai risvolti tragicomici: in uno degli ultimi casi, l’esecuzione di un pezzo di Bach da parte di un utente sarebbe risultata violazione del copyright detenuto dalla Sony su una propria incisione.

Un miglioramento concreto rispetto alla prima stesura è invece la previsione dell’eccezione per fornitori di servizi senza scopo di lucro come le enciclopedie in rete. Si riconosce anche il tentativo di fare salvi le recensioni, i meme e la generalità delle opere in parte basate sulla citazione o la parodia di contenuti coperti da copyright – l’eccezione a loro dedicata è formulata con cura, ma anche qui lo scenario di applicazione delle norme nella realtà fa dubitare che i sistemi di filtro automatico riescano a riconoscere questa raffinatezza.

Nella versione approvata della proposta di direttiva, anche a seguito degli emendamenti, ricorrono parole come “opportuno”, “adeguato”, “proporzionato” – margine dovuto alla flessibilità di declinazione nelle normative degli Stati membri, ma forse anche sintomo del sentore che le disposizioni legali e la realtà materiale cui andrebbero applicate sono ben difficilmente componibili; un così pesante dispositivo di restrizioni e definizioni non può che stare stretto al mondo digitale ed ai flussi culturali che viaggiano attraverso di esso. Malgrado il dibattito sia, non sempre in buona fede, presentato come uno scontro tra editori ed autori da una parte e piattaforme di condivisione e motori di ricerca dall’altra, ciascuna fazione decisa a mangiare sulla testa dell’altra, al centro ci sono gli utenti, che non solo da fruitori sono il vero motore di entrambe le fazioni, bensì sono anche produttori di un incessante e variegato fiorire di contenuti, rielaborazioni, cultura.

Questa è in effetti la natura della cultura stessa e dei suoi prodotti, indipendentemente dal mezzo di diffusione; perciò le aspettative pessimistiche sulla riforma del copyright nell’UE dovrebbero condurci ad una più ampia messa in discussione dell’impianto complessivo del copyright e dei suoi principi, che attualmente, dietro il vessillo di autori ed artisti, proteggono precipuamente i profitti dei colossi dell’editoria e della distribuzione. L’equo compenso non può essere visto come una banale questione di copyright avulsa dalla struttura del mercato e dal modello economico. Se le battaglie degli editori negli ultimi anni hanno tradito scarsità di lungimiranza, mentre i provvedimenti dei legislatori suggeriscono una fondamentale incomprensione del mondo digitale, a fare la differenza potrebbe essere la voce degli utenti.

Immagine CC liberamente ripresa da pixabay.com

Ultima modifica il Domenica, 16 Settembre 2018 16:48
Silvia D'Amato Avanzi

Studia scienze naturali all'Università di Pisa, dove ha militato nel sindacato studentesco e nel Partito della Rifondazione Comunista. Oltre che con la politica, sottrae tempo allo studio leggendo, scribacchiando, scarabocchiando, pasticciando, fotografando insetti, mangiando e bevendo.

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