Il primo punto del Manifesto della razza recitava “Le razze umane esistono”: i suoi estensori avevano evidentemente la necessità di affermarlo; per il pubblico non si trattava quindi di una nozione consolidata. Ancora oggi, dopo secoli di dibattiti più o meno scientifici su come (più che su se) catalogare l’umanità, il senso comune di coloro che la vedono ordinatamente divisa in razze non riesce a concordare uno schema univoco: quante e quali sarebbero le razze umane? Sulla base di quali caratteri? Su quale sfumatura di carnagione si trova il confine tra “nero” e “bianco”? Le risposte variano in base al background culturale degli intervistati e alle loro visioni geopolitiche1. Osservazioni sulle differenze tra popolazioni umane si trovano nelle fonti più antiche e le prime sistematizzazioni dei viventi si devono almeno ad Aristotele, ma è alla fine del XVII secolo che appaiono i primi tentativi di definire razze umane per descrivere rigorosamente, se non spiegare, la diversità umana organicamente alla classificazione di tutti i viventi.
Nel suo Systema naturae del 1758, Linneo suddivide la specie umana (che colloca tra i Primati) in sei “varietà” prevalentemente sulla base del colore della pelle2; altrettante ne individua Buffon, ma suddivise diversamente. Pochi decenni dopo, Blumenbach individua invece cinque razze (inaugurando il nome “caucasici” per gli europei) in base alla morfologia del cranio, mentre Cuvier ne propone tre e Huxley quattro3; ma più sono le caratteristiche considerate e più si trovano differenze, così l’antropologia successiva moltiplica il numero di razze: se Denicker nel 1900 parla di ventinove razze, nel corso del secolo si arriverà a sistemi di classificazione che contano anche duecento razze4; a suddivisioni sempre più minute corrispondono descrizioni sempre più dettagliate, alle quali per contro è sempre più difficile ricondurre le persone fisiche, in un circolo vizioso parossistico che già dalla fine dell’800 inizia a suscitare dubbi nella comunità scientifica5.
L’approccio è tipologico (si definisce il tipo idealmente rappresentativo della razza e si raggruppano tutti gli individui che gli assomigliano) e facilmente si fa essenzialista, sconfinando nella psicologia e nella geopolitica: da subito alle varie razze vengono associati sistemi di caratteristiche psicologiche oltre che fisiche, eventualmente accompagnati da teorie sull’evoluzione umana che permetterebbero di distinguere tra razze più primitive e più evolute, nei quali le presunte qualità positive degli europei spiccano sempre su quelle negative dei popoli da essi colonizzati6.
Queste classificazioni procedevano insomma presupponendo l’esistenza di razze e tentando di catalogare l’umanità di conseguenza, ma si scontravano fatalmente con il fatto che la variabilità umana è continua: si tratti di caratteri che tanto interessano alle teorie razziste come il colore della pelle, o di altri meno sovraccaricati di significati come il taglio delle orecchie, tra le loro varie forme ci sono infinite gradazioni, senza soluzione di continuità; il loro variare nello spazio geografico è graduale (lungo un cline), non si presentano in gruppi discreti e naturalmente delimitati. In altre parole, per definire delle razze sulla base dei nostri caratteri fisici è necessario delimitarle arbitrariamente; inoltre, a seconda del carattere osservato (anche questo scelto arbitrariamente) si ottengono gruppi diversi, con distribuzioni geografiche diverse – uno schema di razze basato sul colore della pelle è diverso da uno basato sull’altezza media, a sua volta diverso da uno basato sulla forma del cranio: Frank Livingstone nel 1962 osserva che i diversi caratteri variano in maniera discordante, senza essere correlati l’uno con l’altro7.
Nel 1942 il grande biologo evoluzionista Ernst Mayr, nel suo Systematics and the Origin of Species, ha associato il concetto di razza (allora ancora sovrapposto alla sottospecie) a quello di confine, distinguendo tra specie le cui popolazioni sono nettamente separate da confini geografici, nettamente diverse da un lato all’altro del confine, e specie le cui caratteristiche variano gradualmente nel loro areale geografico: le prime presentano “razze”, le seconde no. Questa stretta associazione tra “razza” e dimensione geografica implica che in assenza di confini netti non si distinguono razze, ovvero che per parlare di “razze” è necessario individuare confini biologici tra popolazioni vicine. Guardando alla nostra specie, la questione non è distinguere individui tipici di diverse aree geografiche molto distanti l’una dall’altra, come si può sentir dire al bar (o in quegli smisurati bar che sono i social network), bensì distinguere nettamente tra di loro individui tipici di popolazioni geograficamente vicine, separate solo da un confine di qualche tipo; ma la nostra variabilità continua non si presta a questo tipo di distinzione netta.
La biologia contemporanea non ha nel proprio linguaggio la parola “razza”, se non in riferimento alle razze animali prodotto della selezione artificiale umana (che però ad esempio in inglese sono chiamate “breed”, non “race”); all’interno delle specie, unità tassonomiche di base, si individuano eventualmente delle sottospecie, con gli stessi criteri definiti da Mayr: le specie nelle quali si individuano almeno due sottospecie sono dette politipiche; le specie nelle quali non si individuano sottospecie sono dette monotipiche. Una certa confusione lessicale è forse dovuta a traduzioni inaccurate di testi antropologici anglosassoni, nei quali fino a qualche tempo fa la parola “race” era in uso con il significato di etnia. Quest’ultimo termine, che nel linguaggio comune compare talvolta come sinonimo politicamente corretto di “razza”, si riferisce ad una categoria delle scienze sociali dai contorni sfumati, non riconducibile a parametri biometrici: l’etnia è una comunità relativamente isolata culturalmente, più o meno corrispondente ad una popolazione o ad un’area geografica, i cui individui si identificano strettamente nell’appartenenza alla cultura condivisa (un esempio sono gli Inuit del nord del Canada); esistono varie etnie ma non necessariamente un individuo fa parte di un’etnia – l’umanità non può essere suddivisa in etnie.
La tassonomia, disciplina scientifica che cataloga le specie viventi organizzandole in gruppi e sottogruppi secondo le loro caratteristiche comuni e le loro differenze, nella sua sistematizzazione cerca di rappresentare la storia evolutiva delle specie ed i loro rapporti di parentela più o meno stretti. Individuare come sottospecie diverse popolazioni di una stessa specie, dunque, implica presumere che le differenze tra quelle popolazioni possano nel tempo diventare così marcate da renderle un giorno specie diverse; ciò presuppone ovviamente un certo isolamento tra le popolazioni, un confine netto di qualche tipo. Per parlare di sottospecie diverse non basta essere “un po’ diversi”: deve trattarsi di differenze nette e nettamente discriminabili, in popolazioni che non si mescolano tra loro (si parla di isolamento riproduttivo), al punto che un individuo, per le sue caratteristiche, possa essere collocato certamente in una sottospecie e certamente al di fuori delle altre – in altre parole, che ogni individuo sia imparentato più strettamente con gli altri della sua stessa sottospecie che con quelli di altre sottospecie.
Nella seconda metà del ‘900, l’avanzamento delle conoscenze e delle tecniche genetiche ha immancabilmente spostato nel nostro genoma (l’intero DNA presente nel nucleo di ciascuna cellula di un individuo) il dibattito sulle eventuali razze umane. Nel 1972, Richard Lewontin mette a punto un metodo statistico per confrontare le differenze tra individui all’interno di una stessa popolazione con le differenze tra individui di popolazioni diverse e lo applica al variare dei diciassette geni allora meglio conosciuti tra le popolazioni di sette “razze” definite con l’aiuto di antropologi; scopre così che l’85% di tutta la variabilità genetica umana si trova all’interno delle popolazioni, per un ulteriore 8% differiscono diverse popolazioni di una stessa “razza”, mentre la variabilità tra le “razze” stesse non rappresenta che il 7%. Nelle sue stesse parole, “Sulla base delle loro differenze genetiche, le razze e le popolazioni umane sono molto simili le une alle altre, mentre la parte di gran lunga maggiore della variabilità umana è rappresentata da differenze tra individui.”8
L’analisi è stata da altri replicata più volte nei decenni successivi, via via su regioni sempre più ampie del DNA, su geni diversi e assumendo suddivisioni diverse, sempre con risultati paragonabili (differenti per pochi punti percentuali) a quelli di Lewontin: all’interno delle popolazioni umane si trovava l’85% della variabilità genetica totale, mentre per meno del 10% differivano le “razze” comunque definite – secondo le classificazioni tradizionali, secondo il continente di appartenenza, secondo la lingua parlata9, 10, 11, 12. Per confronto, le differenze tra diverse popolazioni di lupo (Canis lupus, una specie con varie sottospecie) superano l’80% della sua intera variabilità genetica.
È stata inoltre messa alla prova la significatività di quel 10% circa di variazione tra gruppi umani, ipotizzandolo come indicatore della provenienza geografica degli individui: a parte una grande dispersione di risultati a seconda dei metodi utilizzati, anche nei migliori dei casi mancava una corrispondenza esatta tra geni e continenti d’origine; l’associazione non era sufficientemente netta da poterlo considerare un indicatore univoco e discriminante per definire delle sottospecie.13 Procedere all’inverso e cercare raggruppamenti discreti (eventuali “razze”) a partire dal solo DNA differente si scontra nuovamente con la variabilità discordante: a seconda delle regioni di DNA confrontate, si giunge a suddivisioni diverse, con più o meno gruppi, più o meno grandi, collocati diversamente per il mondo14. Considerando invece più geni insieme e dunque necessariamente imponendo a monte il numero di gruppi da individuare, i raggruppamenti non risultano netti – ma si fanno tanto più precisi quanto maggiore è il numero di gruppi previsti e di conseguenza minore il numero di individui al loro interno; portando queste analisi ai limiti ci si ritroverebbe con tanti gruppi quanti sono gli esseri umani 15.
Il fatto che molte popolazioni siano caratterizzate da una presenza in media particolarmente alta o particolarmente bassa di varianti genetiche di interesse medico ha portato ad ipotizzare che una sommaria suddivisione in “razze” potesse essere utile a declinare la pratica clinica secondo queste caratteristiche, per prevedere ad esempio la suscettibilità ad una patologia o la metabolizzazione di un farmaco in base alla “razza” di un individuo16, 17; ma trattandosi di caratteristiche medie in popolazioni con grande variabilità tra individui18, 19, questo approccio può portare a generalizzazioni pericolose per i soggetti, dei quali è indubbiamente meglio conoscere le caratteristiche individuali (che, con le tecniche odierne, è anche più pratico e veloce di risalirvi statisticamente dal colore della pelle). I geni non hanno del resto il ruolo deterministico della nostra identità che l’opinione pubblica sembra aspettarsi: la loro espressione anche solo nelle nostre caratteristiche fisiche è influenzata da condizioni materiali esterne, legate anche al contesto culturale.
La variabilità dei nostri geni sembra insomma avere le stesse caratteristiche con le quali, per secoli, la variabilità dei nostri caratteri fisici ha messo in crisi i tentativi di classificazione razziale; nelle parole del genetista Guido Barbujani (tra i firmatari del Manifesto degli Scienziati Antirazzisti presentato a San Rossore, Pisa, nel 2008), “Nel genoma non si trovano linee di confine”20. Riaffiora dunque l’arbitrarietà di fondo nella ricerca di classificazioni razziali, nella necessaria scelta a monte dei caratteri da considerare discriminanti o nel numero di gruppi in cui discriminare. È bene quindi ricordare che, per quanto asettici possano essere i dati raccolti, l’impostazione della loro raccolta, cioè l’ipotesi di partenza, riflette il sistema di pensiero, scientifico quanto politico, del ricercatore; e solo la riproducibilità e la pluralità delle ricerche possono stemperare questo effetto.
Testimonianze fossili21 e alberi genetici22, 23 raccontano che la nostra specie (Homo sapiens) ha un’unica origine comune, relativamente recente, in una popolazione di umani anatomicamente moderni evolutasi nell’Africa subsahariana e migrata circa 100'000 anni fa negli altri continenti, soppiantando gruppi umani arcaici (come H. neanderthalensis) precedentemente (tra 1,8 e 1,3 milioni di anni fa) migrati sempre dall’Africa24. Nella specie umana, lo scambio è stato la norma e l’isolamento l’eccezione: le popolazioni umane non sono (state) riproduttivamente né culturalmente isolate; all’effetto delle migrazioni si sono sommati quelli degli scambi tra le popolazioni, le selezioni da parte delle condizioni ambientali e di epidemie, i diversi stili di vita – e tutta questa storia è rappresentata nella nostra variabilità. Ragionare per “razze” non aiuta a comprendere la variabilità umana, anzi aggiunge confusione al suo studio, poiché siamo tutti parenti relativamente stretti e allo stesso tempo tutti diversi individualmente; a condizionare la nostra percezione delle differenze è il significato culturale con cui le carichiamo.
Il consenso attuale tanto delle scienze biologiche quanto delle scienze sociali (si veda la dichiarazione dell’American Anthropological Association del 1998) è che non abbia senso dividere l’umanità in razze25; è notizia di questi giorni la rimozione della parola “razza” dalla costituzione francese. Sarebbe però difficile dire candidamente che non esistono razze in faccia ad un cittadino statunitense afroamericano, che ha oltre il doppio di probabilità di essere ucciso dal fuoco della polizia rispetto ad uno bianco; la suddivisione in razze “esiste” eccome se un sistema di potere la sancisce, con essa condizionando la vita delle persone.
L’esempio non è casuale: tutto l’ordinamento degli Stati Uniti d’America, pur avendo abolito la segregazione, è informato da un’arbitraria classificazione in razze (un po’ sulla base della presunta provenienza o discendenza dai fondatori, un po’ su base linguistica, un po’ per il colore della pelle) riflessa in una società ancora divisa (e nella cultura di cui importiamo acriticamente parte dell’immaginario, come i polizieschi di dubbio gusto da cui mutuiamo la familiarità con espressioni di identificazione razziale come “caucasico”); tanto che gli attivisti delle minoranze rivendicano la propria alterità razziale come provocazione per denunciare il sistematico razzismo e per dare risalto alla propria identità oppressa. Come strategia politica è scivolosa, poiché alimenta la stessa logica del razzismo; ma non è intenzione di chi scrive imporre il proprio punto di vista su quello di chi vive quotidianamente la discriminazione sulla propria pelle.
La condizione sociale determina pesantemente la vita e le caratteristiche dei membri una comunità; se quella comunità è isolata in nome di presunte differenze razziali e questo informa la sua condizione sociale, il gioco è tristemente fatto: ecco che il razzismo inventa una razza e sancisce le condizioni materiali per e con cui discriminarla. Il paradigma della definizione di Mayr, per la quale la differenziazione in razze dipendeva dalla presenza di confini netti, si è così rovesciato: le presunte razze sono diventate l’alibi per legittimare l’istituzione di nuovi confini e nuove divisioni.
Nello squalificare d’un colpo la natura e la cultura di quanti considerati appartenenti ad altre razze, il razzismo permette al razzista di qualificare in opposizione la propria razza, definire la propria identità sulla base della differenza; la negazione delle alterità razziali si traduce così in una crisi identitaria, poiché l’assimilazione del dissimile richiede di includere nella propria identità tutto ciò che era stato escluso per delimitarla. Ciò significa che il superamento dell’alterità razziale non può essere dato per scontato e deve anzi essere problematizzato, poiché difficilmente sarà pacifico, ma non certo che la sua opportunità possa essere messa in dubbio. Non è anzi un caso che, in società segnate dalla segregazione razziale come quella statunitense o quella sudafricana26 (per citare esempi recenti), la sua abolizione sia seguita a movimenti radicali dei gruppi oppressi, non senza scontri diretti con i gruppi oppressori: l’abbattimento di strutture razziste, storicamente, è stata un processo violento.
Nel Manifesto della Razza, quell’”esistono” aveva l’accezione di “esistere in natura”, darsi come evidenza biologica – per un pensiero sostanzialmente positivista, l’esistere fondamentale che informa tutte le altre categorie, finanche morali. Pur avendo dismesso la complessità e la profondità del positivismo, oggi ne sembrano rimaste pericolose vestigia: il superficiale assunto che un dato scientifico possa sostituire una presa di posizione morale. La biologia, tuttavia, non si presta a fornire dati utili a suddividere l’umanità in razze, né a presumere gerarchie tra le varie popolazioni. Chi vuole sostenere un sistema razziale o convinzioni razziste, alimentando il permanere del concetto di “razza” nella cultura, ne ha perciò tutta la responsabilità morale e politica. Il razzismo non è la presa d’atto dell’esistenza di razze umane, bensì l’invenzione e il continuo rinnovamento di questa discriminazione; non è il razzismo ad esistere come conseguenza dell’esistenza di razze. Al contrario, le razze esistono solo se esiste il razzismo.
Non sembra inopportuno chiudere con un consiglio di lettura, valido sia come primo passo per approfondire sia come manuale di orientamento di base: il più volte citato L’invenzione delle razze di Barbujani, che con stile leggero e avvincente ripercorre la storia delle classificazioni razziali e aiuta a comprendere la diversità umana, avvicinando al lettore la letteratura scientifica.
1 A.M. Penner, A. Saperstein (2008), How social status shapes race. PNAS
2, 3, 4, 5 G. Barbujani, L’invenzione delle razze. Capire la biodiversità umana, Bompiani, 2006
7 F. Livingstone (1962), On the non-existence of human races. Current Anthropology
8 R.C. Lewontin (1972), The appointment of human diversity. Evolutionary biology, citato in G. Barbujani, op. cit., p.83
16 E.G. Phimister (2003), Medicine and the racial divide. New England Journal of Medicine
19 D.J. Weatherall, J.B. Clegg (2001), The Thalassemia Syndromes, Blackwell Science
20 G. Barbujani, op. cit., p. 132
21 D. Waddle (1994), Matrix correlation tests support single origin for modern humans. Nature
22 R.L. Cann, M. Stoneking, A.C. Wilson (1987), Mitochondrial DNA and human evolution. Nature
24 per un modello aggiornato della diffusione della nostra specie sul pianeta: https://phys.org/news/2017-12-story-dispersal-modern-humans-eurasia.html
Immagine ripresa liberamente da cicap.org