Il primo comune ad istituire un registro delle unioni civili fu quello di Empoli nel (lontano?) 1993. Ad un decennio di distanza, il 2013 si è chiuso con l'iniziativa del Consiglio Nazionale del Notariato, che dallo scorso 2 dicembre prevede la possibilità di stipulare "patti di convivenza" presso tutti gli studi notarili in Italia. Sorvolando sul fatto che una prestazione notarile non è proprio alla portata di tutte le tasche, il contratto disciplinerebbe una serie di aspetti patrimoniali della convivenza nelle famiglie di fatto: l'abitazione, la contribuzione alla vita domestica, il mantenimento in caso di bisogno del convivente, il contratto d'affitto, la proprietà dei beni, eventuali clausole testamentarie a favore del convivente, l'eventuale designazione del partner come amministratore di sostegno.
Si tratta, insomma, di un provvedimento molto incentrato sulla prevenzione di eventuali controversie patrimoniali: per molti aspetti, verrebbe quasi da pensare, più utile a chiarificare le cose qualora ci si lasciasse, piuttosto che a stare insieme. Manca, ad esempio, il diritto di accompagnamento in ospedale – citato invece da Renzi nel delineare la sua idea di legge sulle unioni civili.
Proprio le dichiarazioni di Renzi, in equilibrio tra propaganda e contrattazione politica su una serie di temi, hanno riaperto un debole battibecco sulle unioni civili, con chiusure da quelli che «prima la famiglia, anzi ci sono proprio altre urgenze» e aperture del calibro di «va bene purché sia al di sotto del livello del matrimonio». Si notano, così, due grandi vizi nel dibattito pubblico sulla questione.
Uno è la polarizzazione della discussione sulle coppie omosessuali, con tanto di deliri sul nodo dell'adozione – non toccato, peraltro, da nessuna delle proposte finora presentate: richiederebbe una radicale riforma del diritto di famiglia, ovvero traghetta la discussione direttamente in caciara. Benché in Europa il concetto di civil partnership, a prescindere dal matrimonio tra persone dello stesso, si mastichi da tempo, in Italia si notano solo grandi sforzi di immaginazione su cosa le coppie omosessuali siano, cosa vogliano, come si permettano; senza quasi mai prendere in considerazione il fatto che le unioni civili magari non interessano solo a loro, bensì a chiunque voglia certi diritti pur senza riconoscersi nel matrimonio.
Un esempio per tutti: l'uscita dal nucleo familiare di origine, in termini di determinazione del reddito e della situazione patrimoniale, è oggi possibile solo guadagnando discretamente e regolarmente, oltre che con una residenza stabile fuori dalle proprietà di famiglia (per la nostra generazione, non la luna, ma quasi), oppure attraverso il matrimonio.
Causa e conseguenza è il secondo vizio: considerare le unioni civili come un surrogato del matrimonio rivolto ai "meno fortunati" – nell'immaginario collettivo, l'unione civile è un pacchetto di diritti sottoinsieme del matrimonio, cui accedono, previa firma su un registro, le persone a cui non piacciono le grandi feste con i parenti. Servirebbe invece una rivoluzione di prospettiva e di principi ispiratori.
Il matrimonio è quell'istituzione per la quale, a seguito di un rito ammantato di sacralità (religiosa o civile), si riceve una serie di diritti, tra i quali spicca la possibilità di convivenza e quindi di fondare una famiglia; manca un istituto che, al contrario, riconosca a due persone, finché stanno insieme e poiché stanno insieme, che il loro stare insieme deve potersi tradurre in tutele legali e patrimoniali. Non che dall'unione civile si ricavi il diritto di stare insieme, quindi, ma che lo stare insieme possa trovare supporto in un insieme di diritti convenzionalmente chiamato "unione civile". Chiediamo troppo?
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