Ciò può sembrare paradossale se guardiamo alla situazione dell’economia mondiale, segnata ancora dagli effetti della crisi finanziaria e caratterizzata da misure sempre più non convenzionali di quantitative easing che mettono l’intero sistema finanziario sul baratro di una più dirompente crisi epocale. Sul versante individuale, le tinte del quadro non sono meno fosche: nonostante il peggioramento delle condizioni di lavoro e sociali, lo smantellamento dei diritti, la perdita di potere d’acquisto, la flessibilizzazione e la precarietà con le loro conseguenze anche psicologiche che il neoliberismo sta costruendo su scala globale e che si manifestano nelle crescenti disuguaglianze che alimenta, la capacità del sistema di generare consenso o quantomeno diffusa indifferenza è massima.
Sfruttamento, ingiustizia sociale, iniquità e illibertà caratterizzano il nostro mondo in maniera sempre più netta eppure, non solo non si intravedono soluzioni politiche e filosofiche alternative ma anzi sembra che le forme di opposizione alle logiche economiche neoliberiste siano piuttosto blande, in particolare nell’Europa occidentale.
Cosa rende allora il capitalismo così resiliente e così capace di creare consenso?
1- Il suo essere totalità, ovvero il fatto che si caratterizzi come l’unico sistema economico diffuso su scala globale, impone sugli individui delle logiche e delle concezioni (la competitività, il profitto, certi ritmi di vita) che la persona, non avendo alternative a cui rivolgersi, concepirà come naturali e scontate.
2- Il suo essere malleabile, ovvero capace di modificarsi al cambiare delle condizioni storico-culturali: il capitalismo dell’etica protestante, col suo metodismo e tradizionalismo, la sua etica protestante è lo stesso che oggi promuove pratiche di consumo e che esalta la soddisfazione dei desideri più effimeri.
Il trionfo del capitale dunque non è tanto nelle sue logiche economiche, nella creazione della ricchezza o nel “miglior modo di allocare le risorse scarse”, quanto nella sua forza ideologica.
Il contesto storico in cui un’organizzazione come Il Becco agisce non è dunque dei più vantaggiosi. Mai come oggi le idee egualitarie di una sinistra di classe sono in uno stato di abbandono, sono considerate anacronistiche e non attuabili né attualizzabili. A dominare è invece una fase di grande affermazione delle idee più classiste e verticali del capitalismo nella sua fase neoliberista. Questa situazione, se rende difficile alla gran parte dell’editoria impegnata di trovare spazi e visibilità in società, implica anche l’utilità di costruire progetti che si rifanno a concezioni e idee alternative al modello entro cui sono inseriti. Insomma, Il Becco, proprio perché si trova in un ambiente ostile è utile!
Se sul versante della totalità un progetto relativamente recente come Il Becco, realisticamente, non può ancora avere la presunzione di agire con sistematicità poiché non spetta a questa realtà il compito di sviluppare concezioni e teorie alternative al capitalismo che rompano con l’assolutizzazione del pensiero di mercato, sul versante della malleabilità del capitale occorre perseguire uno sforzo di messa in discussione dei principi ideologici su cui si regge l’economia di mercato.
Se Il Becco è uno spazio di elaborazione politica, ritengo che l’attività di elaborazione più alta che possa essere fatta in questa fase storica di estrema egemonia culturale del capitalismo, sia quella della decostruzione. Del mettere il luce, del disvelare, tramite un processo argomentato e un’analisi approfondita, come concetti, idee, pratiche che vengono date per scontate siano in realtà il frutto di meccanismi e di logiche oppressive e che riproducono le concezioni, verticali, classiste, di profitto, di individualismo e di inautenticità della vita capitalista.
La strada virtuosa seguita da Il Becco in questo senso ha toccato tutti gli ambiti d’interesse della rivista, come la politica internazionale (a titolo di esempio, tutti quegli articoli sul Medio Oriente che hanno criticato gli stereotipi occidentali sullo scontro di civiltà, sulla natura delle crisi in corso nella Regione, oppure relative alla propaganda in atto sulle vicende che caratterizzano zone alla periferia d’Europa come Ucraina e Russia), quella nazionale (dove al di là delle retoriche sulla modernizzazione e semplificazione del Paese, si è cercato di mettere in evidenza il deficit democratico, di impoverimento culturale che contraddistingue anche il nostro Paese e la sua scomparsa di forme di rappresentanza intermedie) e nell’ambito culturale (dove si è cercato di dare spessore sia a quella parte del mondo artistico più insofferente nei confronti della realtà economica e sociale entro cui è inserito, sia a quelle elaborazioni storiche, filosofiche e scientifiche che hanno provato a leggere certi fenomeni e concetti fuori da una concezione di mercato).
Il lavoro di decostruzione è un percorso lungo e impervio ma piccoli segnali che la strada che abbiamo intrapreso è quella giusta, giungono dal discreto seguito e visibilità che macro discussioni tematiche come quella sulle socialdemocrazie o sulla nuova narrazione del capitalismo hanno avuto. È la prova che un’analisi sistematica in grado di proporre punti di vista differenti rispetto a quelli imposti dall’establishment, è un percorso virtuoso che Il Becco, consapevole della propria utilità all’interno di un sistema ostile, ha il dovere di continuare a intraprendere.