Martedì, 18 Agosto 2015 00:00

La fine del sogno cosmopolita dell'Europa

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La fine del sogno cosmopolita dell'Europa

C'era una volta chi professava l'idea che l'Europa fosse lanciata verso la costruzione di una forma sovra-nazionale di cosmopolitismo democratico. Si adduceva a sostegno di questa tesi che il progetto di integrazione europea fosse fondato sulla libera scelta di adesione dei suoi membri e tramite modalità che, per loro natura, implicavano forme di rispetto dell'alterità e riconoscimento reciproco delle differenze. Ulrich Beck ed Edgar Grande, nel loro "L'Europa Cosmopolita" (2006) partono dalla rivisitazione del concetto politico di impero, con l'intento di applicarlo nella spiegazione delle dinamiche contemporanee dell'Unione Europea. Rispetto agli Stati Nazionali le cui logiche l'Unione vuole superare, l'impero è una categoria politica che si addice maggiormente all'Europa in quanto si caratterizza, fra le altre cose, per la diversità socio-culturale, per un ordine della sovranità asimmetrico (centro/periferia, paesi membri con diversi status) e per disporre di confini flessibili e aperti, dato che a muovere l'impero è la logica della espansione illimitata. Diversamente però dalle forme imperiali tradizionali, "questo impero europeo non è legato (come gli imperi del XIX secolo) all'innalzamento dei confini e alla conquista, ma alla caduta dei confini nazionali, alla libera volontà, al consenso", cioè a un'espansione democratica e basata sulla libera volontà di adesione di chi ne vuol far parte.

Beck e Grande non sono certo stati gli unici a vedere nell'Europa l'unica realistica possibilità di realizzare un modello politico che facesse proprie le teorie del superamento del paradigma della mera tolleranza, per abbracciare completamente quello del riconoscimento delle differenze, in un'ottica interculturale. Questa speranza era alimentata del resto dal processo stesso di integrazione europea che nel suo espandersi democraticamente tendeva a includere anche coloro che prima erano considerati i nemici e i diversi (l'apertura ad est): "quanto più il noi europeo è diffuso tanto meno chiari diventano gli altri culturali", sentenziano Beck e Grande. Si apre la strada per pensare all'Europa come la prima configurazione politica, il primo impero della storia umana, che non veda l'altro, l'estraneo come un nemico e un avversario, nella logica di una inclusione potenzialmente universale del diverso.
I due autori restano perfettamente consapevoli che l'Europa cosmopolita resta una prospettiva politica di medio-lungo termine (di recente lo stesso Beck ha scritto il ben meno ottimistico "L'Europa a guida tedesca") e che è dunque ancora allo stato embrionale. Ma resta un punto che merita di essere analizzato attentamente: possiamo veramente definire l'Europa l'unica realistica possibilità per veder realizzato in futuro un modello politico auspicato fin dall'epoca dell' Illuminismo ma mai realizzato? È possibile ritrovare nell'Europa quelle caratteristiche di apertura verso l'alterità e del rifiuto di intendere l'identità in termini oppositivi come un "noi" contrapposto a un "loro", che stanno alla base di ogni progetto cosmopolitico? Ci sono veramente nell'Europa, grazie alla sue peculiare forma neo-imperiale e postimperiale allo stesso tempo, quegli elementi che ci possano far pensare a uno sviluppo cosmopolitico del Vecchio Continente?
Gli imperi del passato, da quello romano fino al Terzo Reich, passando per quelli coloniali dell'Ottocento, sono tutti caratterizzati dalla costruzione politica ed ideologica del nemico e del diverso, come strumento per riaffermare la propria identità e i proprio modello di civiltà, contrapposto alle barbarie di chi vive al di là dei confini imperiali. Occorre chiedersi se esiste nella retorica europea una concezione del barbaro o se effettivamente l'Europa, in seguito all'emergere della "modernità riflessiva" abbia smesso di definire tutto ciò che è al di fuori di sé come caotico e disordinato.

Il barbaro, così come altre connotazioni semantiche e valoriali affini quali quelle di eretico, miscredente, selvaggio, sono per il filosofo della storia francese Reinhart Koselleck figure ricorrenti non solo della retorica politica o ideologica ma anche del modo di percepire la realtà da parte di molte collettività storiche. Le barbarie sono state evocate soprattutto nel contesto di grandi unità politiche caratterizzate dalla forte eterogeneità, come appunto gli imperi. Per spiegare il motivo della forza con cui è stato condotto il discorso sui barbari nel modo di rappresentare la realtà da parte di queste grandi unità politiche, è necessario ricordare che la preoccupazione più pressante per un impero sia quello di trovare e creare elementi di legittimazione della sua esistenza. Argomenta in maniera molto lineare e convincente Herfried Münkler che «gli ordini politici di grandi dimensioni [...] sono sottoposti alla crescente pressione di giustificarsi. Invece gli ordini politici più ristretti, come quelli delle città o degli Stati di piccole e medie dimensioni […] beneficiano del fatto di essere considerati naturali e quindi ovvi». Al contrario, negli ordini di grandi dimensioni la pretesa di predominio del centro è sempre messa in discussione dalla periferia. Nell’impero le differenze etniche, religiose, culturali sono così ampie che porterebbero ben presto alla sua disgregazione se non fosse in grado di compensare la mancanza di libertà che la periferia lamenta con la promessa di altri tipi di vantaggi. Questi vantaggi sono ciò che legittima l’esistenza di un impero: pace, prosperità e sicurezza costituiscono il fulcro della missione imperiale, tanto più apprezzati dai sudditi quanto più sono immaginati dei barbari in grado di minacciarne la realizzazione.
La visione del barbaro è dunque uno strumento ideologico che è sempre stato funzionale al mantenimento della stabilità interna a un organizzazione politica.

Oggi però le condizioni storico - culturali sono completamente mutate: quest'epoca, segnata dagli abbattimento di ogni barriera economica e politica, dall'internazionalizzazione del capitale e dal proliferare di mezzi di comunicazione e trasporto su scala globale, sembrerebbe rendere sempre più difficile ipotizzare la possibilità di definire un confine chiaro e preciso che divida un "Noi" civile da un "loro" barbaro.
Come ci ricorda Bauman infatti:

«l'era dello spazio cominciò con la muraglia cinese e il vallo di Adriano negli antichi imperi, continuò con i fossati, i ponti levatoi e le torri delle città medievali, e culminò nelle linee Maginot e Sigfrido degli stati moderni, per poi concludersi con il patto atlantico e il muro di Berlino al tempo dei blocchi militari sovranazionali. Durante tutta quell'epoca, il territorio è stato la più preziosa delle risorse, il premio più ambito di qualsiasi lotta per il potere, il segno di distinzione tra vincitori e vinti […] Ma soprattutto, in tutta quell'epoca il territorio è stato la principale garanzia di sicurezza […] La terra era un riparo e un nascondiglio: un luogo in cui si poteva scappare e dentro il quale ci si poteva barricare, «entrare in clandestinità» e sentirsi al sicuro. Le autorità costituite dalle quali si desiderava fuggire e nascondersi si fermavano ai suoi confini […]Gli eventi dell'11 settembre hanno reso perfettamente chiaro che nessuno, per quanto distante, distaccato e dotato di mezzi, può più isolarsi dal resto del mondo […] I luoghi non proteggono più, per quanto massicciamente armati e fortificati possano essere».

I confini del mondo occidentale non sono mai stati così facilmente valicabili: simbolicamente l’11 settembre del 2001 rappresenta il momento in cui era diventato chiaro a tutti che era (ed è) possibile colpire ovunque, anche il cuore del cuore del mondo, uno dei posti più sorvegliati della Terra. Gli eventi che dall'undici settembre conducono fino alle recenti preoccupazioni per i foreign fighters dell'ISIS, rappresentano una novità assoluta nel panorama mondiale dell'ultimo decennio e mezzo di storia, ovvero che la minaccia è ovunque, che non è più rappresentabile in cartine geografiche che indichi dove i terroristi, gli estranei, i barbari siano stanziati.

La paura non è più dunque quella, tipica degli imperi dell'antichità, che il chaos riesca a penetrare e a diffondersi nel cosmos ordinato, perché neppure qui regna più l’ordine, perché il caos vi è già entrato da un pezzo, anzi è proprio da qui che spesso il caos scaturisce. Dalla minaccia di un disastro atomico, dalla fragilità dei mercati finanziari, dai flussi di immigrati che bussano alle porte dei nostri confini meridionali e orientali, coloro che noi definiamo "barbari" sono ovunque e il mondo assume l’aspetto di una grande terra di frontiera in cui le divisioni e i confini si moltiplicano a dismisura e dove la percezione del rischio fa parte della vita quotidiana.
Si potrebbe dire che ovunque i confini simbolici si stanno disancorando da quelli fisici, moltiplicandosi ovunque e diminuendo allo stesso tempo la loro capacità di dividere e di configurare l’altro come esterno.
Gli imperi moderni, occidentali, quello americano e quello europeo, non sono più come quello descritto da Buzzati: i loro Tartari non sono gli abitanti di terre desertiche collocate al di fuori di un confine sorvegliato, sono piuttosto entità di cui non si può più dire se siano interne o esterne e il cui riconoscimento è spesso complesso.
Tutto ciò potrebbe farci propendere per la concezione cosmopolitica di Beck e Grande, nell'idea che sia al giorno d'oggi impossibile identificare in maniera inequivocabile un confine preciso, una linea di demarcazione che consenta di riproporre la categoria politica del cittadino contrapposta al barbaro. Ma è così vero che la demarcazione di una differenza ontologica fra chi vive al di là e al di qua di un confine sia una categoria superata dalle trasformazioni socio-economiche e dai progressi di autocritica e autoriflessione insiti nella tarda modernità?
Se è vero che il confine è sempre più indebolito e varabile, mai come oggi esso è anche soggetto a tentativi più o meno riusciti di reificarlo se non addirittura di sacralizzarlo: mai come oggi la nostra ricerca di sicurezza ci porta verso la paura e il rifiuto dell'alterità e del barbaro, cioè dello straniero che appartiene al di là della barriera che circoscrive la civiltà distinguendola dal caos. Più i confini si moltiplicano e indeboliscono, più si tenta disperatamente di controllarli, di marcarli, persino di fortificarli (basti pensare al muro che in questi giorni Orban sta erigendo in Ungheria).

Che i confini, per quanto variabili e sempre più svuotati geograficamente ma carichi simbolicamente, siano ancora al centro di un processo di costruzione sociale delle barbarie, è evidente nella narrazione del nemico della cultura statunitense. Gli USA infatti dopo la caduta del muro di Berlino e la sconfitta del comunismo, hanno trovato nel terrorismo la loro nuova definizione delle barbarie: è proprio su un’incessante guerra al terrorismo che gli Stati Uniti hanno definito la loro nemesi, il loro nuovo impero del male. Rafforzando a dismisura le misure di sicurezza, utilizzando metodi a loro volta definibili da chi li subisce come barbari (basti pensare a Guantanamo e alle pratiche di tortura), e con una retorica che ha tentato di ridare una base territoriale e definita al terrorismo, identificandolo cioè con alcuni Paesi dell’area mediorientale, i barbari si sono rilevati utili, se non altro, a legittimare gli Stati Uniti nella loro missione di civilizzare il mondo. Presentandosi come gli unici veri antagonisti al fondamentalismo di radice islamica, si pongono anche come i più credibili difensori della civilizzazione occidentale.

Effettivamente, rispetto alla narrazione politica americana, l'Europa si è caratterizzata per aver adottato un rapporto diverso nei confronti del terrorismo. Beck e Grande possono aver anche qualche ragione quando affermano, che l'Europa è rimasta parzialmente estranea agli aspetti più radicali di questa retorica. Un tale processo di estrema assolutizzazione del nemico non si è verificato in Europa, dove la preoccupazione e la paura terroristica, pur diffuse in società, non sono mai state elevate in maniera sistematica a uno scontro di civiltà, come invece è avvenuto negli Stati Uniti. In quest'ottica, seguendo il filo tracciato da Beck e Grande, avremmo il quadro di un’Europa dove molte sono le minacce socialmente percepite e riprodotte ma a cui non corrispondono figure di barbari portatrici di queste minacce.

Eppure i barbari esistono anche per l’Europa: sono i profughi, i clandestini e più in generale i migranti, ma non tutti. Nel 2005 il Consiglio Europeo ha composto una lista dei paesi i cui cittadini non devono richiedere un permesso (Visa) per entrare nell’Unione: si tratta grossomodo dei paesi sviluppati, quelli da cui l’arrivo di migranti o altri viaggiatori non è visto come un problema ma semmai come un’occasione. Vi sono poi i 135 Stati della lista nera, quelli i cui cittadini sono considerati una minaccia. La definizione dei barbari è dunque anche molto precisa: i gruppi umani considerati barbari sono selezionati secondo un vecchio principio a base statale e nazionale.
Si potrà dire che mancano gli slogan propagandistici a effetto della "guerra al terrorismo" o de "l'esportazione della democrazia", poco consoni a delle oligarchie tecnocratiche incapaci di creare narrazioni politiche di ampio respiro. Ma ciò riesce benissimo a quella parte della società civile europea, a quei gruppi politici e di opinione che fanno della paura dello straniero e del migrante una modalità per ottenere consenso.
Ma non dobbiamo confondere i due piani: la creazione del migrante come barbaro non appartiene solo a movimenti antieuropeisti che si muovono in linea di rottura con Bruxelles, ma è continuamente riprodotta dalla istituzioni europee stesse che non fondano la loro definizione su parametri di odio e paura ma su parametri tecnici, su cinici calcoli di utilità: assistere i migranti è costoso, il diritto d'asilo è costoso, accoglierli è disfunzionale. Anche nei palazzi delle elite tecnocratiche, e non solo nei quartieri generali della Lega e del Front National, barbaro è il migrante in quanto tale, in quanto il suo tentativo di superare il sacro confine comporta fatalisticamente il caos, il moltiplicarsi di problemi economici e sociali: come lo straniero per l'antica Grecia o il terrorista per gli Stati Uniti, è pericoloso ontologicamente.
Nella dimensione europea che additava a vanto l'aver rotto con le vecchie barriere nazionali, riappare così il limes, il confine come categoria simbolica di fondo: ancora una volta l'Europa che si fonda sull'integrazione e l'apertura, lo fa solo dove è politicamente e conveniente farlo, mentre per il resto del mondo un muro di odio e paura è eretto: è sopratutto il Mediterraneo la nuova frontiera che divide l'Europa dai barbari, le cui orde (cioè i flussi) minaccerebbero di seminare il caos e la distruzione nel Vecchio Continente.

Mentre dilagano i movimenti nazionalisti a base xenofoba, le agende politiche europee pullulano di misure per la lotta all’immigrazione clandestina, considerata una minaccia per la stabilità europea. Il principio imperiale di espansione perpetua si scontra con la realtà di fatto di un tentativo di costruzione di una “Fortezza Europa” che ne preservi la cultura, le tradizioni, l’organizzazione sociale: un tentativo che appare disperato non solo perché i barbari vivono già all’interno delle sue porte ma anche perché si scontra con la crescente debolezza e incapacità a tenere fuori gli intrusi da parte dei confini europei, che l’Europa vorrebbe più forti, ma che, come si è visto, lo sono sempre meno.
Se anche la politica europea mainstream rifiuta il populismo e il pericolo che si cela dietro atteggiamenti apertamente xenofobi e razzisti in nome del principio di solidarietà e pace fra popoli, evitando di promuovere l’odio e lo scontro fra culture ed etnie diverse, tuttavia non può che non definire i suoi barbari, e di definirli come una minaccia.
Appare allora chiaro che il sogno europeo come di un sistema politico post-nazionale volto alla promozione globale dei valori democratici e del cosmopolitismo, non sia altro che un'illusione. Abbiamo visto come ogni tentativo di nuove inclusioni e integrazioni, si contrappone a un'altra tendenza: quella di rinchiudersi entro la relativa prosperità e stabilità di un sistema che può includere nuovi mercati ma non può accogliere nuove persone.
Si è spesso definito l’Europa come un "impero post-imperiale" che, volto a promuovere la pace, l’uguaglianza e il rispetto dei diritti umani nel mondo, disincentivi a parlare in termini di barbari. La demonizzazione del nemico, il vedere solo gli aspetti negativi dell’altro sarebbe, in quest’ottica, un modo vetusto di concepire la realtà, basato su rappresentazioni semplicistiche che la maggiore capacità riflessiva dell’uomo moderno dovrebbe ripudiare. Ma paradossalmente, man mano che la sua visione viene bollata come anacronistica nell’immaginario dello spazio politico europeo, la figura del barbaro si rafforza. Emerge con tutta la sua forza, la contraddittorietà fra un’Europa dei propositi, quella cosmopolita, orientata a una visione globale, e l’Europa dei fatti sempre più rinchiusa a riccio su se stessa, impaurita da ciò che c’è fuori e impegnata in maniera esclusiva e quasi maniacale a pensare a mantenere la pace (sembra ci sta riuscendo), la prosperità e la coesione interne (su questi due punti è invece in crescente difficoltà).
Sulle tragiche vicende dei campi profughi, dei naufragi, di coloro che muoiono soffocati dentro una valigia, si deve mettere la parola fine al sogno cosmopolitico dell'Europa: che l'integrazione sia solo funzionale agli interessi economici e di potere è sotto gli occhi di tutti. Ma L'aspetto più amaro di tutto ciò è che forse da queste immagini di respingimenti e di erezioni di barriere, nel vedere i barbari respinti e la normalità ripristinata, molti di "noi" si sentiranno più europei.

Ultima modifica il Lunedì, 17 Agosto 2015 15:43
Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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