sindacale, ci sembrava un giusto tributo che riportasse l’impegno sindacale di oggi alle origini di allora. Mi spiego meglio: Rizzotto, e gli altri come lui, non avevano nessuna pretesa di diventare eroi antimafia, si scontrarono con la mafia in quanto quest’ultima agì come braccio armato del feudo (e non solo), diventando il principale ostacolo per l’affermazione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici della Sicilia e dell’intero Mezzogiorno. Oggi, con le dovute proporzioni, è ancora cosi. L’Osservatorio, attraverso un metodo dinamico di ricerca sul campo, tutt’altro che scolastico, vuole far emergere l’infiltrazione delle organizzazioni mafiose che ancora ci sono (eccome se ci sono!) nelle filiere agricole e agroindustriali con notevoli ripercussioni sui lavoratori e sulle lavoratrici che la Flai Cgil rappresenta.
2. Uno dei temi maggiori di cui ti occupi è il caporalato. Questo fenomeno, che può essere considerato l’emblema della schiavitù oggi nel nostro Paese ha numeri da capogiro e si basa fondamentalmente sullo sfruttamento della mano d’opera di immigrati.
Il caporalato non riguarda solo le lavoratrici e i lavoratori stranieri, ma è innegabile che nei loro confronti assuma fisionomie criminogene e paramafiose. Secondo il primo rapporto Agromafie e Caporalato, curato proprio dall’Osservatorio, sono più di 400.000 i lavoratori stranieri al soldo dei caporali (parliamo solo dell’agricoltura!) con forme di sfruttamento lavorativo da considerare paraschiavistiche a tutti gli effetti, anche se in Italia questo concetto è stato interpretato dal legislatore nel peggiore dei modi possibili. Molte inchieste della Magistratura, grazie alle denunce di lavoratori e delle lavoratrici, hanno poi svelato l’intreccio che c’è tra la gestione di questo ignobile mercato delle braccia e le organizzazioni mafiose. Una cosa che si sa poco è che il caporalato è considerato un reato spia, cioè un reato che si porta dietro tutta una serie di fenomeni delittuosi, tra i quali: la gestione illecita della tratta dei migranti, frodi e truffe previdenziali e contributive, il riciclaggio e l’infiltrazione mafiosa nella produzione e nella commercializzazione dei prodotti agricoli, oltre che la gestione illecita della manodopera, le associazioni a delinquere e la riduzione in schiavitù di cui abbiamo già parlato.
3. Nel dettaglio, come funziona? Chi è il caporale e quali sono le condizioni dei lavoratori?
La situazione è eterogenea, non ovunque le condizioni sono uguali, però possiamo affermare senza temuta di smentita che nel nostro Paese c’è quella che abbiamo chiamato la “transumanza” dei braccianti agricoli stranieri. I lavoratori e le lavoratrici attraverso il passaparola, spesso voluto direttamente dai caporali, seguono il flusso delle stagionalità agricole spostandosi da nord a sud (e viceversa) inseguendo le raccolte intensive stagionali. Questo significa che l’alta disponibilità di manodopera a basso costo crea una competizione al ribasso, una sorta di guerra tra poveri. E’ quello che vogliono i caporali e i datori di lavoro che se ne avvalgono, ovvero fare leva sulla ribassabilità del costo del lavoro. Ciò è favorito dalle attuali leggi sull’immigrazione e dalla deregolamentazione del mercato del lavoro, che negli ultimi vent’anni, nel nome della flessibilità, ha favorito forme di sottoinquadramento salariale e lavoro nero. In sostanza il collocamento pubblico è stato sostituito da faccendieri che si occupano di vendere permessi di soggiorno, fittare alloggi e fare intermediazione illecita di manodopera. Nel dettaglio parliamo di un’intermediazione che sottrae circa la metà del compenso giornaliero che dovrebbe essere corrisposto al bracciante. Da contratto la giornata di un lavoratore della terra dovrebbe durare circa 6 ore e 40 minuti; lavorando in nero con i caporali la giornata dura circa 10/12 ore. Invece di percepire una paga di circa 50 euro giornaliera (una media di quello che prevedono i singoli contratti provinciali agricoli) ne prendono 25, altre volte invece la paga è a cottimo, cioè ad esempio in base a quanti cassoni di pomodoro si raccolgono. Un cassone di pomodori San Marzano (3 quintali) viene pagato circa 3 euro, uno di pomodorino pachino circa 5. A questo bisogna aggiungere i costi di trasporto che sono a carico dei lavoratori (circa 5 euro), l’acqua e un panino. Il caporale magari non ti obbliga a comprare queste cose da lui, ma le campagne di raccolta sono luoghi isolati, dove reperire una bottiglia d’acqua non è per nulla semplice: si tratta di una sorta di ricatto indotto. Se non ti rifornisci da lui rischi di morire di sete: a 40 gradi, in piena estate, mentre si raccolgono pomodori, sfiderei chiunque a non cedere al ricatto. Infine i caporali sono sempre più “capi neri”, cioè persone sempre più spesso della stessa nazionalità dei lavoratori delle squadre che devono organizzare. Questo perché i produttori italiani, a differenza di qualche anno fa, non vogliono sporcarsi direttamente le mani: usando un termine moderno potremmo dire che “subappaltano” il reclutamento di manodopera a stranieri che sono da più anni in Italia e che si sanno muovere in questi ambienti. I caporali, soprattutto nei distretti agricoli dove c’è più richiesta di manodopera, organizzano anche veri e propri ghetti abitativi. Questi sono luoghi isolati, lontani dai centri abitati, dove è più facile esercitare il ricatto. Se non alloggi lì (in condizioni igienico sanitarie simili a quelle di una bidonville nonostante la profonda dignità umana che caratterizza questi luoghi) non avrai la possibilità di entrare in contatto con i caporali, e dunque non avrai la possibilità di lavorare. È lì che spesso, come ulteriore forma di ricatto, vengono sottratti i documenti ai lavoratori. In questi ghetti, e più in generale nei luoghi dove si sovrappongono condizioni di sfruttamento lavorativo ed esistenziale, sono in particolare le condizioni di donne e bambini a essere estremamente allarmanti. Le prime spesso sono costrette dai caporali a pagare in natura o ad entrare nel giro dello sfruttamento della prostituzione. I secondi sono anche loro inseriti nei circuiti lavorativi e di raccolta e non hanno accesso a nessuna forma di scolarizzazione se non quella offerta saltuariamente da alcune associazione di volontariato che in queste realtà provano a fare accoglienza e assistenza.
4. Chi sono le persone che finiscono in questo giro di sfruttamento? Da dove vengono? Sono esuli politici, immigrati in cerca di lavoro?
Alcune sono persone che scappano da contesti di guerra e sperano di costruirsi una nuova vita nel nostro continente; altri invece desiderano un futuro diverso dal contesto di provenienza e hanno contatti in Europa con alcuni conterranei che in passato hanno avuto la possibilità di lavorare e integrarsi. Ci sono poi coloro che sono in Italia di passaggio, con l’obiettivo di raggiungere quanto prima paesi più accoglienti come la Francia e la Germania. Altri ancora sono lavoratori stranieri impiegati nelle fabbriche e che a causa della crisi hanno perso il proprio lavoro e quindi cercano di produrre reddito attraverso
l’agricoltura. Alcuni hanno il permesso di soggiorno, altri no, altri ancora sono cittadini europei a tutti gli effetti (come nel caso delle lavoratrici e dei lavoratori polacchi, rumeni e bulgari). In generale sono tre le macroaree di provenienza: l’Africa Subsahariana, l’Europa orientale e i paesi asiatici come
l’India, il Pakistan e il Bangladesh. In tutto ciò la legge Bossi Fini e l’introduzione del reato di clandestinità sono i principali ostacoli all’emersione dei fenomeni di sfruttamento e irregolarità. Noi li abbiamo chiamati “Gli Invisibili” anche per questo.
5. Quale è il livello di consapevolezza della popolazione riguardo a questa forma di schiavitù?
Negli ultimi anni abbiamo fatto dei passi da gigante ma in generale il livello di consapevolezza è ancora troppo basso. Il caporalato è molto cambiato rispetto al passato, spesso quando se ne parla in molti (soprattutto i più anziani) rispondono: “ma il caporalato c’è sempre stato!”. Questo è vero, ma abbiamo registrato un livello di imbarbarimento che rasenta la schiavitù. In sostanza che esista il caporalato è risaputo, che abbia il volto dello sfruttamento mafioso e in alcuni casi della schiavitù è meno noto. Negli ultimi anni si è acceso un faro mediatico, politico e sindacale molto importante. Questo è avvenuto principalmente grazie al coraggio dei lavoratori e delle lavoratrici che, con il pieno sostegno di una parte del sindacato, hanno deciso di denunciare questa condizione di indecenza che non fa onore ad un paese civile. È soprattutto grazie a loro, e a chi come noi li supporta, che sono emerse storie, testimonianze e denunce. È ancora troppo poco però, dobbiamo avere l’ambizione di fare in modo che in tempi rapidi la parola caporalato sia cancellata dal nostro vocabolario.
6. È possibile quantificare l’impatto dello sfruttamento della mano d’opera di immigrati nel settore agro alimentare? Quanto incide in termini di competitività e quali sono i consequenziali effetti negativi?
Secondo alcune stime il lavoro straniero in Italia produce circa il 13% del PIL, in agricoltura questa cifra deve essere almeno triplicata. Secondo i dati dell’INPS gli addetti in agricoltura sono circa un milione di cui il 10% di origine straniera, parliamo di cifre ufficiali. A queste dobbiamo aggiungere il lavoro
sommerso, nero o grigio che sia, che secondo l’Istat è pari a circa 300.000 lavoratori stranieri. Questi lavoratori producono un valore, sempre secondo le stime degli istituti di statistica, di circa il 43% dell’attuale economia di settore, quindi una quota assolutamente rilevante. Paradossalmente, però, se portano un beneficio ai produttori, che abbassano così il costo del lavoro, arrecano un danno alla nostra economia (oltre che a loro stessi), in termini di contributi previdenziali non pagati; un affare da circa mezzo miliardo di gettito fiscale in meno non versati nelle casse dello Stato. Detto questo, i produttori si giustificano dicendo che devono competere con il basso costo del lavoro dei paesi nord africani e della Spagna. Ciò però stride molto con il fatto che i nostri prodotti agricoli sono i più ricercati d’Europa. È un settore dove l’export continua a crescere nonostante la crisi.
7. Sono anni oramai che le inchieste giornalistiche rivelano come il fenomeno dello sfruttamento del lavoro immigrato e dell’infiltrazione mafiosa non riguardi solo il sud Italia.
Purtroppo no. È innegabile che al sud si concentrano i grandi numeri dello sfruttamento lavorativo e dell’infiltrazione mafiosa, che in alcuni contesti assume il suo volto più crudele. Abbiamo tutti ben presente le immagini di quello che è successo a Castelvolturno, a Rosarno, piuttosto che nel foggiano. Ma soprattutto negli ultimi anni, con l’alibi della crisi, nell’Italia settentrionale si stanno concentrando fenomeni di sfruttamento e illegalità senza precedenti. Proprio in queste settimane è esploso il caso di Saluzzo (Cuneo), ma prima ancora di Pavia, Mantova, Brescia, Alessandria, perfino in Emilia. Tutti casi dove si praticano il caporalato e lo sfruttamento con le caratteristiche che abbiamo precedentemente descritto. Questo succede perché, come abbiamo spiegato in precedenza, c’è il fenomeno della transumanza. Per fare un esempio: in estate i lavoratori vanno nei distretti agricoli dove si raccolgono pomodori e angurie (Puglia e Campania), in autunno nei distretti della vendemmia, in inverno vanno a raccogliere le arance (Sibari e Rosarno) e in primavera nelle diverse raccolte di stagione. Ogni anno si ricomincia daccapo. I lavoratori stagionali, soprattutto migranti, seguono la scia delle raccolte agricole. È un flusso senza soluzione di continuità che tocca tutti gli angoli del Paese, da Bolzano (quando si raccolgono le mele) a Cassibile in provincia di Siracusa (quando si raccolgono le patate). Secondo le mappe che abbiamo elaborato nel nostro rapporto sono circa 80 gli epicentri dello sfruttamento lavorativo e del caporalato in agricoltura, la metà dei quali proprio nel centro nord.
8. Grazie alla campagna “Stop caporalato” della CGIL il caporalato è diventato un reato penale. Il passaggio è stato senza alcun dubbio importante ma basta per sconfiggere il fenomeno?
No, non basta. Negli ultimi anni abbiamo ottenuto importanti conquiste sul piano legislativo. Non solo l’introduzione dell’articolo 603bis nel codice penale (il reato di caporalato appunto) ma anche la ratifica della direttiva europea n.52, che permette una premialità per i lavoratori che denunciano sfruttamento lavorativo e maggiori sanzioni per i datori di lavoro che se ne avvalgono. Ma a volte sono normative che non si parlano e questi rende complesso l’azione
degli organismi inquirenti. Un altro limite è rappresentato dal fatto che il caporalato è difficile da individuare se non ci sono delle denunce da parte dei lavoratori che però al contempo una volta fatta denuncia avranno grandissime difficoltà a trovare un altro lavoro. Bisognerebbe assicurare un percorso di emersione alla legalità ove chiunque abbia il coraggio di denunciare venga inserito in percorsi di reinserimento lavorativo. In generale fenomeni di questo tipo non si possono combattere solo con l’azione giudiziaria. Il problema vero non sono solo i caporali, ma il sistema d’impresa che li utilizza traendone vantaggio. Per fare ciò bisognerebbe invertire alcune tendenze, come ad esempio quelle relative all’accesso ai finanziamenti e agli incentivi pubblici. Le nostre proposte in questo momento sono due: la prima è rappresentata dalla campagna “Sgombriamo il campo” che prevede di reintrodurre il collocamento pubblico in agricoltura sul modello delle liste di prenotazione che abbiamo sperimentato in questi anni, che si sono dimostrate un deterrente nei confronti dell’illegalità. Avere liste e trasparenti di selezione della manodopera e incentivare gli imprenditori ad attingere da queste liste è necessario per certificare trasparenza e legalità. La seconda proposta è condizionare l’accesso ai finanziamenti pubblici (in particolare quelli europei) al rispetto delle norme contrattuale e delle previsioni normative: in questo modo si premierebbe davvero chi rispetta la legalità a discapito di chi falsa la concorrenza utilizzando manodopera in nero e mediata dai caporali.
9. Un ulteriore aiuto nello sconfiggere il fenomeno può arrivare dalla creazione di consapevolezza tra lavoratori del settore, immigrati e non. Quali associazioni potrebbero affiancarsi al sindacato in questo? La FLAI-CGIL come opera in questo senso? Immaginiamo che oltre alla questione strettamente relativa alla condizioni di lavoro e alla regolarizzazione dei braccianti, ci siano tutte quelle sociali, ad esempio come trovare posti in cui far vivere in condizioni decenti questi lavoratori.
Assolutamente sì. Nel pieno rispetto delle differenze ognuno deve dare il proprio contributo: il sindacato per quanto riguarda le condizioni di lavoro e le associazioni in merito all’accoglienza e l’assistenza. Quando giriamo per le campagne del nostro paese troviamo tante realtà di questo tipo: incontriamo i camper di Emergency che offrono assistenza sanitaria, collaboriamo con Libera sull’ipotesi di riutilizzare socialmente i beni agricoli confiscati, interagiamo (con alterne fortune) con diversi soggetti che operano nei territori, in particolare dove le condizioni abitative sono precarie e fatiscenti. In questi contesti anche un litro d’acqua può fare la differenza. In generale sono convinto che contro la prepotenza dei caporali e dei datori di lavoro che se ne avvalgono serva unire le forze, mettere in campo una forte rete (istituzionale, associativa, sindacale) capace di fare fronte comune nel rispetto delle diversità e delle singole specificità. Abbiamo, inoltre, avviato anche una stagione di collaborazione con i sindacati che operano nei paesi di provenienza dei lavoratori stagionali stranieri. L’obiettivo è l’apertura di sportelli di orientamento all’emigrazione in quei paesi, per rendere consapevoli i lavoratori e le lavoratrici delle insidie e delle false promesse che potranno trovare sulla propria strada e per informarli su quelli che sono i meccanismi di ingresso legali e quali sono i loro diritti qui in Italia. Purtroppo molti pensano di trovare condizioni molto diverse, sicuramente migliori. Attualmente abbiamo collaborazioni di questo tipo con la Tunisia, con il Burkina Faso e con il Senegal, stiamo poi avviando operazioni simili anche con i sindacati dell’Europa orientale. Devo dire che quando i lavoratori stranieri prendono coscienza dei loro diritti poi fanno di tutto affinché questi vengano rispettati, il che ci fa ben sperare che una presa di coscienza diffusa e collettiva possa essere il primo passo per sconfiggere caporali e malfattori e affermare in pieno i diritti dei lavoratori e la dignità del lavoro troppo spesso calpestata.
Immagine tratta da: www.radioblackout.org