La prima conseguenza interna del ritiro delle truppe USA dalla Siria, annunciato da Trump, è stata la lettera di dimissioni del generale Mattis, che lascerà la direzione del Pentagono.

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Pillole dal Giappone #256 – Abe rimane alla guida dei liberal-democratici

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Il Muos è “condonato”: la rabbia delle collettività niscemese (e non solo) aumenta

La notizia è di quelle roboanti, per certi verse inaspettate, senonché contradditoria: Il MUOS, sistema satellitare NATO impiantato nella sughereta di Niscemi è di fatto “condonato”. Una notizia, scaturita dalla sentenza pronunciata dal tribunale monocratico di Caltagirone inequivocabile quanto inattese: “il fatto non sussiste”, frase che riassume lo scagionamento dal procedimento contro un dirigente della Regione Siciliana e tre imprenditori accusati di violazione della legge ambientale a Niscemi in provincia di Caltanissetta.

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Sabato, 24 Marzo 2018 00:00

Afrin ci interroga (1 di 3)

Afrin ci interroga (1 di 3)

Die Toten mahnen uns, i morti ci interrogano, recita la stele che a Berlino sovrasta la tomba di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht assassinati da soldati nazionalisti al servizio di un governo di destra socialdemocratica che aveva posto su di essi una taglia, “rei” di aver appoggiato un’insorgenza operaia.

Molto altro inoltre nel corso del Novecento e di questo primo scorcio di Duemila ci ha direttamente interrogato. In questo momento a interrogarci sono soprattutto i curdi, vittime storiche speciali della Turchia. Sono essi a sconvolgere le nostre coscienze, a contestarvi incertezze e opportunismi. Non solo i curdi, beninteso: ci interrogano e sconvolgono da gran tempo i palestinesi, abbandonati a un colonialismo israeliano che sta completando la conquista del loro territorio e della loro acqua, come ci sconvolgono i milioni di profughi mediorientali e di povera gente che fugge dall’Africa o dall’Afghanistan, o la persecuzione e massacri a danno di rohingya, mapuche e tante altre popolazioni in tutto il mondo.

Non è facile capire cosa fare di più adeguato, ma occorre inventarlo anche attraverso approssimazioni. Bisogna riuscire urgentemente a colpire, non solo a manifestare e a scrivere articoli. Ho letto l’appello al boicottaggio economico della Turchia, è una buona idea, si presta anche a iniziative popolari sul piano del turismo, dell’uso della compagnia di bandiera, dell’import di beni di consumo, di tessile, ecc. Bisogna denunciare pubblicamente i gruppi economici che investono (in altre parole, delocalizzano) in Turchia, commerciano con essa, ecc. Soprattutto occorre denunciare la vendita di armi a questo paese, cui prende parte anche l’Italia.

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Jugoslavia: guerra del passato, ipocrisie del presente

Il suicidio dell’ex generale croato Slobodan Praljak, condannato a 20 anni di reclusione dal tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità, ha riacceso i riflettori sulle guerre che dal 1991 al 2001 hanno insanguinato, dilaniato e distrutto la Repubblica di Jugoslavia sconvolgendo lo scenario politico balcanico. Risulta estremamente complicato districarsi nella matassa degli eventi che hanno completamente ridisegnato la cartina politica del sud- est europeo.

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Dura sconfitta per il Partito Liberal-Democratico ma progressisti ancora in affanno: è questo il dato che emerge dalle elezioni per il rinnovo dell'Assemblea Metropolitana di Tokyo tenutesi lo scorso 2 luglio. Conferma il proprio momento di grazia la Governatrice Yuriko Koike che ottiene 49 eletti con la propria lista Tomin “First” no Kai (traducibile in italiano con “Associazione edochiani prima”, con la parola “first” in inglese nel nome originale del raggruppamento) cui si sommano sei eletti ufficialmente indipendenti ma che entreranno nel medesimo gruppo consiliare.
Koike nella precedente assemblea - che è eletta, nel sistema ipermaggioritario nipponico, ad anni sfasati rispetto al Governatore - poteva contare su una manciata di consiglieri usciti dal PLD e sui 22 che erano espressione del Nuovo Komeito.

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Front National: una tempesta in arrivo sulla Francia?

La rilevanza attribuita alla campagna elettorale per le imminenti elezioni presidenziali in Francia è dovuta alla portata potenzialmente distruttiva che queste potrebbero avere. La scesa in campo della leader del Front National Marine Le Pen, gli alti e bassi nelle primarie francesi e gli scandali che hanno travolto il cavallo da battaglia della destra tradizionale Fillon: se a questo aggiungiamo il fatto che lo scontro sociale nel paese va acuendosi (quello legato alla presenza di migranti ma anche le manifestazioni contro la Loi Travail) e che l'unica risposta data è quella del prolungamento della legislazione di emergenza, è facile presagire il peggio.

Il populismo francese non costituisce di certo, nell'Unione Europea che celebra i sessant'anni dalla sua nascita, un caso a se stante: movimenti di destra che gridano ad un ritorno all'interno dei confini nazionali, lasciando fuori chi è diverso, sono presenti oramai in molti paesi. Ma la minaccia rappresentata da Le Pen, che due giorni fa è tornata alle origini antisemite tanto care al padre affermando che in caso di vittoria negherà agli ebrei francesi la doppia cittadinanza israeliana, è percepita come particolarmente pressante. E a ragione.

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Intervista a cura di Chiara Del Corona ed Elena De Zan

Rohina Bawer è una giovane donna nata a Kabul, in Afghanistan che oggi si batte, grazie a un progetto di lavoro con COSPE e HAWKA (Humanitaria Assistance for children and women of Afghanistan), per la difesa degli attivisti e dei diritti umani. Nel suo lavoro con le due associazioni, si occupa prevalentemente di comunicazione e di coordinamento dei vari focal point che lavorano nel progetto nelle diverse province afghane.

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Non sono passate che poche settimane dalla pubblicazione dei dati che certificano l'incremento in Italia della povertà assoluta (leggi qui) e il governo, senza pensarci su troppo, riesce a imbarcare il Paese in una nuova guerra, nonostante a marzo le piazze italiane abbiano chiaramente espresso la contrarietà a qualsiasi coinvolgimento militare dell'Italia.

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Lunedì, 04 Gennaio 2016 00:00

Il Vecchio Continente impotente

È passato quasi un mese da quando il caccia F16 che ha abbattuto il Sukhoi Su-24 russo nella zona liminale tra lo spazio aereo turco e quello siriano ha soffocato sul nascere ogni ipotesi di grande coalizione contro il Califfato. In quella sottile striscia di cielo ad andare in frantumi è stata tutta la retorica confezionata nelle settimane precedenti dalla leadership occidentale, e dai suoi portavoce a reti unificate, sulla civiltà da opporre al barbaro alle porte. Il delirio alla fin fine rassicurante sullo scontro di civiltà è stato bruscamente ricondotto sul terreno del nudo scontro di potenza, all’interno del quale ognuno gioca la propria partita a prescindere da presunti interessi comuni a tutto “il mondo libero”, ed ognuno combatte un’assurda guerra senza che della guerra sia enunciato uno dei presupposti fondamentali, ossia il nome del nemico.
In questo quadro, una volta preso atto della scellerata spregiudicatezza delle élites di Ankara, dell’evidente impossibilità per la Francia di risolvere unilateralmente una centenaria questione di carattere globale (fatta salva l’immediata e scontata reazione dimostrativa), e della coerente ma per molti indigesta strategia russa di identificazione tra lotta al Califfato e stabilità del regime baathista in Siria, l’interrogativo più grande sul tappeto rimane l’atteggiamento degli Stati Uniti, in bilico tra la propensione ad una svolta da più parti invocata come necessaria, e lasciata intravedere nel momento dell’appeasement con Teheran, e l’ancoraggio ad uno status quo geopolitico di lunghissimo periodo.

Arabia Saudita e Turchia, in questo senso, rappresentano gli snodi essenziali delle contraddizioni occidentali. Paradossalmente, la potenza egemone risulta incapace di affrancarsi da una sorta di “patronage alla rovescia” esercitato dagli alleati minori, forti della loro debolezza e della loro sbandierata insostituibilità. La necessità di puntellare il regime del terrore saudita e gli scogli che esso frappone alla legittimazione dell’Iran come attore di primo piano della regione; l’appoggio incondizionato ad Erdogan, espresso ancora a caldo nell’ora della patente dimostrazione della sua irresponsabilità; la volontà di escludere un qualsiasi ruolo russo nel Mediterraneo, che Mosca inevitabilmente si ritaglierebbe se inserita nella coalizione anti-Califfato: tutto ciò è alla fine giunto in rotta di collisione con la proclamata volontà di lottare uniti contro l’avanzata dell’ISIS. Nonostante la retorica imperante e la solidarietà di maniera, non è detto che sia sufficiente la tragica morte di duecento persone in territorio francese, nessuna delle quali peraltro di nazionalità americana (un dettaglio che ha un suo peso), a convincere il Presidente Obama e la complessa macchina dell’Amministrazione USA a stravolgere un’inerzia geopolitica operante da più di mezzo secolo: lo ha dimostrato il recente incontro tra Obama ed Hollande, ricco di parole quanto vacuo nel profilare soluzioni concrete. Ed infatti, mentre John Kerry continua a perorare la causa di una presunta “opposizione moderata” al regime di Assad, realmente esistente, forse, soltanto in qualche sottoscala di Langley, cominciano a prender campo piani a tavolino di destrutturazione dello Stato siriano e di quello iracheno lungo linee etniche e confessionali, senza che i popoli direttamente interessati siano minimamente interpellati.

Già a seconda guerra mondiale ancora in corso il Presidente Franklin D. Roosevelt, cosciente del ruolo giocato dall’approvvigionamento petrolifero nelle guerre moderne, aveva affermato che “la difesa dell’Arabia Saudita è vitale per la difesa degli Stati Uniti”, ed alla fine del conflitto la dinastia regnante a Riad aveva concesso al Pentagono l’utilizzo della base di Damman “per dimostrare che la sicurezza dell’Arabia Saudita dovrebbe costituire un impegno vitale per entrambi i paesi”. Dagli anni Settanta in poi il legame era destinato ad intensificarsi, nel momento in cui i petrodollari accumulati a Riad in seguito allo shock petrolifero cominciarono ad esercitare una decisiva funzione di stabilizzazione della bilancia commerciale statunitense. Arabia Saudita ed emirati del Golfo sono ancor oggi i terzi finanziatori esterni del debito di Washington, dopo Cina e Giappone, grazie soprattutto all’assorbimento di ingente tecnologia militare americana. Provvidenziale per gli USA è poi il ruolo dei sauditi all’interno dell’OPEC, a garanzia dell’attuale ribasso (del resto contenuto, per non penalizzare le estrazioni in Alaska o Texas) del prezzo del greggio. Una centralità geopolitica, quella di Riad, se possibile amplificata – ancora a partire dalla fine degli anni Settanta – dalla cacciata dello Scià da Teheran e conseguente diserzione persiana dal fronte egemonizzato dagli USA.

Altrettanto paralizzante il pluridecennale abbraccio sul fronte turco, risalente allo scoppio della guerra fredda. Dal ’47 in avanti gli Stati Uniti hanno sempre fornito appoggio incondizionato a qualsiasi regime al potere ad Ankara, purché garante dell’esclusione della presenza sovietica nel Mediterraneo: i missili russi installati a Cuba e rivolti contro le coste della Florida furono non a caso giustificati dalla leadership sovietica come una risposta a quelli americani presenti in Turchia; e la crisi nucleare fu superata soprattutto grazie al simultaneo smantellamento di entrambi i sistemi missilistici. La volontà di estromettere l’URSS dal Mediterraneo aveva già condotto gli Stati Uniti ad incrociare minacciosamente con proprie portaerei le acque di Damasco nel 1958, e prima ancora (1953) ad appoggiare i piani inglesi di destabilizzazione contro il governo iraniano di Mossadeq.

Emerge, nel caos che si è cercato di descrivere, l’impotenza del Vecchio Continente, un fattore che è quasi diventato una nota a margine fissa quando si tratta di disegnare scenari geopolitici. Oggi più di ieri la radice dell’afasia pare risiedere nella mancata presa d’atto della divergenza tra gli interessi americani e quelli degli europei, che da anni ormai combattono guerre per procura, salvo poi ritrovarsi a subirne le conseguenze più spiacevoli. Nell’impossibilità di costruire una grande coalizione che, oltre a sconfiggere il Califfato, si impegni per una soluzione complessiva, pacifica e multipolare, della questione mediorientale, l’avventurismo turco e la politica patentemente filo-terrorista di Riad, imbaldanziti dall’impunità assicurata loro fino a questo momento dagli Stati Uniti, rischiano di far saltare il tabù dello scontro diretto tra le superpotenze. Al di là della retorica occidentalista, l’Europa non può davvero permetterselo.

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