Il guaio grosso quest'anno è stato il crollo dell'argine costruito nel 2009: da un punto di vista tecnico, dalle immagini che si possono facilmente trovare in rete, è evidente che la struttura ha una sezione non sufficientemente larga e, soprattutto, manca di adeguate fondazioni ed è povera di ferri d'acciaio, che dovrebbero costituire la sua armatura.
Una precisazione: si grida allo scandalo per l'argine costruito in polistirolo, ma non è proprio così. Infatti, non potendo costruire un'opera di tale lunghezza come un'unico blocco monolitico, questo materiale viene comunemente usato nei giunti tecnici fra diverse frazioni di argine, per assorbire le dilatazioni del materiale. Quindi, insomma, l'argine sicuramente non era fatto ad opera d'arte, ma sarebbe bene mantenere i piedi per terra ed evitare scoop sensazionalistici – quelli lasciamoli ai rotocalchi che pubblicano foto di ministre intente a mangiarsi il cono gelato.
Se però le esondazioni del Carrione (e non solo) sono così frequenti, il problema non può essere limitato all'argine. Certo, le ormai famose "bombe d'acqua" possono esserne una parte, ma sarebbe troppo facile scaricare tutte le colpe su di esse. Il problema sta a monte, nel vero senso della parola.
La provincia di Massa Carrara è quella lingua di terra in cui il paesaggio d'Italia cambia e la Toscana campagnola si trasforma in Liguria, coi suoi monti a picco sul mare. Le montagne che racchiudono la costa, le Alpi Apuane, sono un tripudio di biodiversità che ricopre un'altra enorme ricchezza dal punto di vista economico: il marmo.
Mi limito ad accennare all'enorme quantità di marmo cavato a Carrara annualmente, col risultato che le Apuane sono sottoposte ad uno scempio ambientale senza precedenti. Quello che mi interessa è far notare come quest'industria non provochi danni solo al paesaggio e all'ecosistema montano, ma anche a valle.
Secondo le norme vigenti, nel processo di escavazione del marmo si può produrre al massimo il 75% di scaglie, mentre il restante 25% dev'essere il prodotto di pregio. Le scaglie vengono a loro volta riutilizzate: quelle denominate "bianche" nell'industria farmaceutica, le "nere" in quella edile. Fino al 1998 la normativa permetteva il deposito dei detriti ed il risultato è stato il loro accumularsi nei ravaneti, che riducono la sezione dei fiumi.
Oggi ci sono regole precise per lo smaltimento dei materiali di scarto, che probabilmente ed evidentemente non vengono rispettate. La terra, in particolare, trasforma l'acqua in fanghiglia e ne fa aumentare la massa. E di terra nei torrenti del territorio carrarese ce n'è parecchia.
I suoi effetti, uniti a quelli dei ravaneti ed ai volumi d'acqua che si riversano sul territorio durante fenomeni piovosi particolarmente intensi, fanno sì che gli alvei non siano in grado di sopportare tali portate di materiale, che quindi fuoriesce.
In poche parole, il classico caso di leggi e regolamenti che esistono, ma non vengono fatti rispettare mediante i dovuti controlli.
A tutto questo si somma ciò che è avvenuto nel passato a valle, dove si sono eseguite numerose e pericolose tombature di fossi. Il reticolo di canali che permetteva il fluire dell'acqua è stato letteralmente coperto dal cemento, su cui sono stati realizzati interventi edilizi, strade ed attività industriali - magari proprio le segherie in cui finiscono i blocchi di marmo e che ora lamentano ingenti danni a causa delle alluvioni.
Dunque, le responsabilità private si sono fuse con quelle delle amministrazioni disattente, permissive ed incapaci di gestire in maniera adeguata la risorsa marmo ed il territorio. Un matrimonio di cui ambiente e cittadine/i pagano le conseguenze ogni anno di più.
Fanno quasi pena le affermazioni del Ministro dell'ambiente, che ci assicura che non ci saranno più condoni e che si comincerà a fare davvero qualcosa contro il dissesto idrogeologico. Perchè, mentre lui ci racconta queste belle cose dallo schermo della tv, il governo di cui fa parte approva il decreto Sblocca Italia, in cui da un lato si stanziano fondi per riaprire cantieri di riassetto del territorio, dall'altro si varano misure di deregolamentazione edilizia ed urbanistica, aprendo in effetti alla cementificazione più di quanto non sia già stato fatto.
Quello che serve non è sbloccare cantieri a destra e a manca, ma pensare ad un piano strategico di riassetto del territorio immediato e di mantenimento a lungo termine. Fatti seriamente, con controlli serrati, stombature dei fossi, politiche dure contro l'abusivismo, regolamenti urbanistici che guardino al riutilizzo delle aree e del patrimonio esistenti invece che all'espansione a colpi di ruspa e cemento.
Gli operai impiegati nell'industria marmifera (dall'escavazione alle segherie) si schierano con i padroni e contro generici "ambientalisti" che pensano alla possibilità di dismettere tutte le cave in un futuro (nemmeno troppo) lontano. Si sa mai che, con una strategia di cura territoriale efficace, si possa anche creare occupazione o ri-occupazione proprio di questi lavoratori e porre fine, almeno su questo fronte, alla lotta fra tutela del lavoro e tutela del territorio, aspetti troppo importanti per la vita di cittadine e cittadini per poter essere messi l'uno davanti all'altro, soprattutto quando c'è la possibilità di risolverli contemporaneamente.
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