Un caso, vecchio ma eclatante, fu l’ordinanza anti-prostituzione del 01.06.2012, il cui effetto principale fu rendere edotta la popolazione dell’esistenza e del significato del termine “meretricio”. Al di là dell’utilità dell’ordinanza in questione, credo sia opportuno sottolineare che la prostituzione in sé rappresenta un problema etico personale; il problema etico di interesse pubblico è lo sfruttamento della prostituzione, che rappresenta un reato penale. Nell’ordinanza di cui sopra si ha un accenno allo sfruttamento della prostituzione nella parte introduttiva all’ordinanza, nell’ordinanza in sé non viene neppur citato. Si punisce, invece, chi si prostituisce – ciò che della prostituzione su strada si vede, ma che non ne rappresenta certo l’ossatura. Il tutto non – o non principalmente – in nome della legalità, o del rispetto dei diritti umani (la salute di chi si prostituisce, e il suo controllo sulla propria vita) ma in quanto la prostituzione rappresenta un’offesa al “decoro” e alla “civile convivenza”. Un passo dell’ordinanza in questione è emblematico dello spirito dell’iniziativa: “È fatto altresì divieto assumere atteggiamenti, modalità comportamentali, indossare abbigliamenti che manifestino inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di meretricio e tali da offendere la pubblica decenza e il decoro della città.”. Nell’assenza di criteri univoci per stabilire quale tipo di abbigliamento “manifesti inequivocabilmente l’intenzione di adescare o esercitare l’attività di meretricio” i pubblici ufficiali hanno dovuto utilizzare criteri pregiudiziali e personali, ancora più aleatori di quelli posti dall’ordinanza, basati in definitiva su una sensibilità personale che prescinde dalla professionalità, e con un altissimo rischio di giustificare stereotipi sessisti sulla base dell’ordinanza in questione.
Una storia con possibili risvolti tragici, dunque, che si replica nella sua versione farsesca in questi giorni, con l’applicazione dimostrativa dell’ordinanza del 04/11/2014 relativa alla sicurezza e al decoro nella zona della stazione, popolarmente nota come “anti-bivacco”. Nel corso dei controlli sollecitati dall’ordinanza in questione le forze dell’ordine si sono imbattute in un minimarket che vendeva alcolici da asporto senza la licenza di somministrazione ed hanno giustamente proceduto al sequestro del corpo del reato – due apribottiglie. Dal punto di vista legale non v’è nulla da eccepire; colpisce, però, presentare come un’azione contro il degrado e l’illegalità quella che nel migliore dei casi si può definire come il risultato di un controllo di routine.
Il collegamento tra il possesso di apribottiglie e il degrado in zona stazione è abbastanza chiaro: con l’apribottiglie si aprono le bottiglie di birra, la birra contiene alcol, chi beve alcol si ubriaca e partecipa al degrado. Se si tolgono gli apribottiglie, quindi, si dovrebbe essere riusciti a minare alla base la produzione di questo degrado che crea tanta angoscia agli onesti pisani. La labilità del processo logico mi sembra abbastanza chiara, e come prima, ci potremmo chiedere quanto sia legittimo sequestrare un cavatappi in nome della lotta al degrado, giacché potrei averlo addosso per sbronzarmi sotto i portici di Piazza Vittorio Emanuele, oppure per andare a cena da un amico che non ce l’ha (mi è capitato). Poiché io parlo un buon italiano e vado a giro con un rispettabile cappotto blu scuro, a pari tasso di alcolemia probabilmente chi mi fermasse sarebbe disposto ad accettare la seconda versione con maggiore probabilità che per uno slavo malvestito. Di nuovo, in nome del decoro e della sicurezza si legittima il pregiudizio e la discriminazione.
La situazione “degradata” in zona stazione è un problema oggettivo, come oggettivo è il problema dello sfruttamento della prostituzione lungo le strade del Pisano. Sono, ambedue, problemi che nascono da un precedente degrado sociale ed economico delle persone coinvolte; intervenire sulle manifestazioni esteriori di questo, senza intervenire sulle sue cause, ed anzi, continuando a negare servizi e a promuovere politiche xenofobe e discriminatorie, equivale a nascondere la polvere spazzata sotto il tappeto: non importa quante volte lo fai e quanta forza e determinazione ci metti, continuerà a tornare fuori.
Le ordinanze del sindaco di Pisa, sotto la loro apparenza farsesca e le risate un po’ amare che provocano, non solo non rappresentano niente di risolutivo dal punto di vista della sicurezza e del decoro, ma contribuiscono ad esasperare una situazione di tensione sociale, legittimando la discriminazione e stabilendo l’esistenza di cittadini di prima e seconda categoria, in definitiva portando a ridurre ulteriormente decoro e sicurezza nella città.