Giovedì, 03 Maggio 2018 07:00

La Traviata al Carlo Felice di Genova

Scritto da
Vota questo articolo
(5 Voti)

Ritorna anche questa stagione al Carlo Felice di Genova la regina di tutte le rappresentazioni liriche: La Traviata (repliche fino al 6 maggio). Frutto del genio di Giuseppe Verdi risale al 1853 (al Teatro La Fenice di Venezia) la sua prima rappresentazione. Il libretto, classico nel linguaggio ma rivoluzionario nella storia, è senza dubbio il lavoro più riuscito di Francesco Maria Piave che si ispirò per il soggetto alla Signora delle Camelie di Alexandre Dumas figlio. Negli eventi è però impossibile non scorgere un riferimento alla vita privata dello stesso Verdi, impegnato all’epoca in una relazione riservata e scandalosa con la soprano Giuseppina Strepponi che culminerà con le nozze e che accompagnerà il maestro di Busseto fino alla morte di lei nel 1897.

La rappresentazione si apre con il preludio eseguito, come lo scorso anno, a sipario aperto e con Germont padre e Violetta semplici mimi dell’ultima, drammatica, scena. Introdotto da questa innovazione di regia il pubblico è presto proiettato su un salotto parigino: quello di Violetta (Lana Kos, Soprano). Violetta è una cocotte (oggi diremmo una “escort”) che si dimostrerà però capace di dare quella lezione di moralità che ancora oggi celebriamo. Violetta, la “puttana” Violetta, in grado di sacrificarsi con una purezza d’animo sconosciuta alla folla che le sta intorno.


Nel suo salotto una folla festante e l’amica Flora (Marta Leung, Mezzosoprano) celebrano l’allegria vuota persi nell’alcol ma in mezzo alla moltitudine si distingue un ammiratore particolare, Alfredo Germont (Stefano Secco, Tenore), che spinto da Gastone (Didier Pieri, Tenore) dedica un brindisi alla padrona di casa (“Libiamo ne’ lieti calici…”). Violetta è contenta e festeggia anch’essa l’effimero: “Godiam, fugace e rapido, è il gaudio dell’amore; è un fior che nasce e muore, né più si può goder…”.
Uscita la massa verso nuove danze la protagonista rimane un attimo appartata colta da malore. Soltanto Alfredo si attarda con lei e finalmente si dichiara: “Ah se mia foste, custode io veglierei pe’ vostri soavi dì”.
Violetta è incredula, si burla di quell’amore inaspettato, lo crede forse un gioco ma Alfredo non demorde: “Un dì, felice, eterea, mi balenaste innante, e da quel dì tremante vissi d’ignoto amor. Di quell’amor ch’è palpito dell’universo intero, misterioso, altero, croce e delizia al cor”. Tanto sentimento spaventa la donna che abituata ad amori di una notte respinge Alfredo (“Solo amistade io v’offro: amar non so, né soffro un così eroico amor”).
Nel lungo duetto d’amore le resistenze della donna sono infine vinte: “Prendeste questo fior… per riportarlo…. quando sarà appassito”. Alfredo è al culmine della gioia (“Io son, io son felice!”) e lascia la casa attendendo il giorno seguente.
Violetta è scossa, combattuta: può realmente credere alla sincerità di quel sentimento? “È strano!... è strano!... in core scolpiti ho quegli accenti! Saria per me sventura un serio amore? Che risolvi, o turbata anima mia? Null’uomo ancora t’accendeva... O gioia ch’io non conobbi, essere amata amando!”. Per la prima volta in vita sua sente una gioia diversa, un amore ricambiato, un’anima pura: “Ah, fors’è lui che l’anima solinga ne’ tumulti godea sovente pingere de’ suoi colori occulti!...” (ottima qui la Kos).
La festa nell’altra sala però la spinge nuovamente verso gli amori passeggeri quasi che a lei sia oramai preclusa la via del sentimento sincero ““Follie!... follie!... delirio vano è questo!...”) e non rimanga altro che “gioir di vollutà…”. La voce interna (“misterioso, altero..”) ha avuto però la vittoria.

Siamo al secondo atto e la scena cambia: Alfredo e Violetta già da “tre lune” vivono il loro sogno d’amore in una casa di campagna. Circondati da rose rosse sembra che nulla possa rompere il loro incanto (“Dal dì che disse: vivere io voglio a te fedel, dell’universo immemore io vivo quasi in ciel”).
Il vil denaro incrina però l’idillio ed è Annina (Paola Santucci, Soprano) a riportare coi piedi per terra Alfredo: Violetta vende tutto ciò che possiede per mantenere sé e l’amante. Alfredo è offeso: “O mio rimorso! O infamia! Io vissi in tale errore! Ma il turpe sonno a frangere il ver mi balenò. Per poco in seno acquetati, o grido dell’onore; m’avrai securo vindice; quest’onta laverò!” (spento, purtroppo, fino a quest’aria compresa Secco).
Il nido dove i due amanti hanno fino ad allora trascorso le ore liete non è però più ignoto a Giorgio Germont (Rodrigo Esteves, Baritono), padre di Alfredo. L’uomo affronta Violetta e rapidi si succedono i sentimenti. Germont inizialmente è certo che sia il figlio a mantenere la donna (“De’ suoi beni dono vuol farvi..”) ma Violetta mostra all’uomo le carte che dimostrano il suo intento di vendere ogni cosa per vivere il suo sogno insieme all’amato. Germont ne è commosso (“Ah, il passato, perché, perché v’accusa?”) ma è deciso a rompere quel legame (“D’Alfredo il padre la sorte, l’avvenire domanda or qui de’ suoi due figli”).
Il legame scandaloso di Alfredo, infatti, mette a rischio le nozze della sorella (“Pura siccome un angelo Iddio mi die’ una figlia; se Alfredo nega riedere in seno alla famiglia, l’amato e amante giova-ne, cui sposa andar dovea, or si ricusa al vincolo che lieti ne rendea... Deh, non mutate in triboli le rose dell’amor. Ai preghi miei resistere non voglia il vostro cor”. Ottimo qui Esteves nella parte forse più attesa dal pubblico per questo personaggio).
Violetta è disposta ad allontanarsi, con sacrificio, per breve tempo dall’amato così da placare lo scandalo ma non è questa la richiesta: i due debbono separarsi per sempre. La donna è sconvolta: “Non sapete quale affetto vivo, immenso m’arda in petto? Che né amici, né parenti io non conto tra i viventi? E che Alfredo m’ha giurato che in lui tutto io troverò? Non sapete che colpita d’atro morbo è la mia vita? Che già presso il fin ne vedo? Ch’io mi separi da Alfredo?, Ah, il supplizio è sì spietato, che morir preferirò”. Alfredo è per lei ogni cosa ed il separarsi da lui con la tisi che già ne mina i polmoni (quel “pallor” che già si era palesato per un istante nel primo atto) non potrà che condurla alla morte.
Germont però incalza (“Bella voi siete e giovane… Col tempo…”) ma anche questo argomento è subito troncato da Violetta. L’anziano padre, impegnato ormai a trovare ogni appiglio affinché cessi la passione tra i due amanti, mette allora in dubbio la solidità dell’amore di Alfredo (“Un dì, quando le veneri il tempo avrà fugate, fia presto il tedio a sorgere... Che sarà allor?... pensate”) e la mancata benedizione di Dio a questa unione.
Le ragioni di Giorgio Germont hanno vinto. Violetta, felice per un istante, prossima alla morte, si rassegna al ruolo di “angiol consolatore”: una parte, in fondo, anch’essa nuova per lei.
Affranta (“piangi o misera”), rimasta sola con la cameriera Annina scrive poche righe all’amato che sopraggiunge però nuovamente. Interrogata Violetta finge tranquillità, mente, non vuole tradire Germont addossando, come meriterebbe, a lui la colpa di una separazione che non ha il coraggio di annunciare di presenza e si congeda da lui con “Amami, Alfredo, quant’io t’amo…”.
Alfredo è ignaro del fatto che la partenza della donna sarà per sempre ma un commesso gli dà la lettera scritta poc’anzi (“Alfredo, al giungervi di questo foglio..”). Sconvolto abbraccia dunque il padre giunto nuovamente nella casa di campagna con la speranza di riportare il figlio nella natia Provenza (“il tuo vecchio genitor - tu non sai quanto soffrì... Te lontano, di squallor - il suo tetto si coprì... Ma se alfin ti trovo ancor, - se in me speme non fallì, se la voce dell’onor - in te appien non ammutì, Dio m’esaudì!”. Nuovi applausi qui per Esteves).
Alfredo però non cede alla richiesta e trovata una lettera dell’amica Flora che invitava Violetta a nuove feste corre verso Parigi deciso ad umiliare la sfortunata: l’amore si è tramutato in rabbia.
La scena si sposta dunque in casa di Flora: qui tutti sanno che Alfredo e Violetta “sono disgiunti” ma se ne curano poco immersi come sono tra le feste del carnevale. Mascherata - da zingare le donne (“Noi siamo zingarelle..”) e da “Mattadori” gli uomini - la folla (ottimo come sempre in questa scena il coro diretto dal maestro Sebastiani) gioisce non prestando attenzione a null’altro.
Alfredo irrompe nei festeggiamenti mostrando indifferenza per l’amata di un tempo e gioca alle carte sfidato dal Barone Douphol (Ricardo Crampton, Baritono) che crede essere la causa della fine della sua relazione. Rimasto solo con la donna Alfredo non cede all’invito di allontanarsi ma promette di sfidare a duello il Barone. Violetta, tenendo ancora segreto il fatto che la richiesta di lasciarlo sia venuta da Germont, finge allora di amare il Douphol.
L’ira di Alfredo è al culmine e convocati gli amici umilia la donna “Qui testimon vi chiamo che qui pagata io l’ho!”. Sopraggiunto alle ultime parole del figlio giunge nel salotto è anche Germont che difende l’infelice (“Di sprezzo degno se stesso rende chi pur nell’ira la donna offende”). Alfredo prova rimorso ma ancora nessuno (“tu non conosci che fino a prezzo del tuo disprezzo - provato io l’ho! Ma verrà giorno in che il saprai... Com’io t’amassi confesserai... Dio dai rimorsi ti salvi allora, io spenta ancora - pur t’amerò”) spiega all’uomo l’intrigo.

Si apre il terzo atto: la folla non c’è più. Violetta è sola, in terra, ormai “La tisi non le accorda che poche ore” confessa in disparte ad Annina il dottor Grenvil (Manrico Signorini, Basso). Fuori è carnevale, ma le maschere sono oramai inquietanti: neri pipistrelli pronti a cogliere gli ultimi rantoli della donna.
Violetta sa che la fine è prossima (“Addio, del passato bei sogni ridenti, le rose del volto già sono pallenti…”) e ripone l’unica speranza nella possibilità della Salvezza eterna: “Ah, della traviata sorridi al desìo; a lei, deh, perdona; tu accoglila, o Dio”.
Il destino ha però in serbo un ultimo sussulto per la donna. Alfredo, venuto a conoscenza delle macchinazioni del padre, torna tra le braccia di Violetta sognando una oramai impossibile vita insieme (“Parigi, o cara, noi lasceremo..”. Di qualità quest’ultimo duetto). Violetta si illude, per un attimo, che la propria salute possa rifiorire ma si accascia nuovamente pallida e sfinita. Alfredo corre a chiamare il dottore.
Siamo all’ultima scena, anche Germont è al capezzale della donna per l’ultimo saluto (“Grenvil, vedete? tra le braccia io spiro di quanti ho cari al mondo...”). La traviata si congeda dal suo Alfredo: “Se una pudica vergine degli anni suoi nel fiore a te donasse il core... Sposa ti sia... lo vo’” gli sussurra dando un’ultima dimostrazione della sua purezza d’animo. Violetta si ridesta per un’ultima volta (“È strano!...”) ma è soltanto un’energia finale che la rianima prima della morte.
La traviata ha cessato di vivere e pur da terra si erge una spanna sopra tutti. Credendo ancora di essere lei la rea non ha cuore di accusare nessuno prima di spegnersi: né Alfredo che vilmente l’ha offesa né Germont che pur spinto da amore paterno non ha giustificazione per tanto dolore.

Spostandoci dal libretto alla rappresentazione di ieri sera rimane il giudizio positivo dato lo scorso anno circa la regia di Gallione. I puristi contesteranno la scelta di cui si è detto sul preludio ma è una piccola innovazione che conferisce un po’ di movimento all’avvio dell’opera: d’altronde credo che nessuno dei presenti sia rimasto sorpreso nell’apprendere che, sì, alla fine dell’opera la protagonista muore!
Anche per quanto concerne la scenografia (firmata da Guido Fiorato curatore anche dei costumi), anch’essa identica a quella della scorsa stagione, la valutazione è favorevole. Di particolare pregio è l’elemento scenico dello specchio rotto al terzo atto: specchio materiale ma anche specchio aperto sulla dimensione metafisica dell’opera e della vita (e metafora della vita è anche l’albero bianco che campeggia, spoglio, prima eretto e poi infine coricato su un fianco come protagonista anch’esso del sorgere e del morire della traviata). Sacrificabili appaiono, in tutta sincerità, gli spazi lasciati alla danza: in particolar modo durante il primo atto non se ne ravvede l’esigenza artistica.
Tra le voci non brillante la prova di Stefano Secco: spento il timbro e troppo veloce nell’esecuzione nel primo atto, recupera dalla sesta scena del secondo ma non abbastanza da lasciare contento il pubblico.
Ottima Lana Kos in tutte le parti più complesse e nelle quali la platea è più attenta (“Io sono franca, ingenua…” – “Ah forse è lui..” – “Amami Alfredo..”): una voce calda e generosa che, unita ad un garbato movimento scenico, ha aiutato - con le coloriture richieste al personaggio - a recuperare le manchevolezze del protagonista maschile. Apprezzata la prova di Rodrigo Esteves: senza sbavature tanto nella voce quanto nel movimento (andando nei dettagli il lungo cappotto sottolinea l’austerità ed insieme l’imbarazzo del combattuto Germont).
Sfruttati con la consueta professionalità gli spazi del coro meritevole del lungo applauso. In chiusura una menzione pienamente positiva merita la direzione dell’australiano Smith: probabilmente la migliore dell’anno. Nel complesso, dunque, una buona Traviata quella andata in scena in questa quasi chiusura di stagione. Un’opera non facile da rappresentare perché tra le più conosciute da un pubblico educato al confronto con altre voci, altre regie, altri nomi e, come ovvio, più esigente.

Nella foto Lana Kos (Violetta). Foto Marcello Orselli - Teatro Carlo Felice

Ultima modifica il Giovedì, 03 Maggio 2018 20:59
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

Devi effettuare il login per inviare commenti

Free Joomla! template by L.THEME

Questo sito NON utilizza alcun cookie di profilazione. Sono invece utilizzati cookie di terze parti.