Un aneddoto, una risata, un verso, un ricordo di quella volta che. Le volte con Carlo non sono mancate. Ti capitava di incontrarlo a teatro d’inverno (Rifredi la sua prima casa) o ai festival d’estate, a Bientina dal Kaemmerle (ultimo sodale) e a giro per le aie di Utopia del Buongusto, a Radicondoli e alle Feste dell’Unità, a giocare a carte al circolo Arci di Vergaio, a mangiare dai Fratelli Briganti in piazza Giorgini o a giro per Firenze, lui che stava in pieno centro, in via dell’Inferno, giusto dietro via Tornabuoni (“un barbone con la casa” diceva di sé) e “Monni all’inferno” si chiamerà una delle sue ultime, felicissime uscite.
C’aveva il telefono fisso il Monni, niente cellulare e niente tivù, figuriamoci la macchina e la carta di credito, e lo trovavi in casa fino alle sette e mezzo, sennò dovevi chiamare l’amico Ettore, che il telefonino ce l’aveva, o andarlo a pescare la mattina, pioggia vento caldo freddo era lo stesso, camicia aperta e sandali ai piedi, alle Cascine a fare jogging (non esageriamo!), una camminata salutista fra il serio e il faceto, un modo naturale per schiarirsi i pensieri (“se tira il tramontano è l’ideale”) e l’occasione per incontrare gli amici o i giornalisti per l’intervista.
Il Monni, che da ragazzo allevava i maiali, che era nato a Campi Bisenzio (poi nobilitata Champs sur le Bisance) e che all’inizio dei 70 era partito per Roma col Sannini (Donato) e col Benigni (Roberto) in cerca di fortuna, il magnifico Bozzone che corteggia Alida Valli, la mamma del Cioni (“ho portato due o tre paste con rispetto parlando”), in quel capolavoro senza tempo e in anticipo sui tempi che è “Berlinguer ti voglio bene” di Giuseppe Bertolucci, il Monni che nel Salone dei 500 di Palazzo Vecchio diretto da Orazio Costa era stato fra i protagonisti di “Firenze capitale europea della cultura 1987” (“La beffa del grasso legnaiuolo”) era su tutto un poeta, anarchico per istinto e poderoso per sensibilità. E aveva trovato in Dino Campana, il poeta “matto” di Marradi, uno specchio di tragedia e un riflesso di affinità.
"Lo sento simile a me – ci confidò una volta - lo amo, mi identifico in lui, anch’io ho vissuto amori infelici, che sono i più belli, mi sono salvato perché ho un carattere più forte e ho avuto la fortuna di incontrarne due o tre di Sibille, io”. Così la “Notte Campana” e le sue “vele” diventavano un grido di libertà, il maestrale che pulisce il mare, la cambio io la vita che non ce la fa a cambiare me.
Perché il Monni, attore e poeta, imprevedibile e lunare, narratore di stirpe contadina e cantore d’ottave rime licenziose, unico e inimitabile, fuori sincrono e fuori corso, fuori registro e fuori di testa, struggente e maestoso, faccia ruspante, vociona, risata contagiosa, ha sempre seguito l’istinto, la non logica del successo. C’è da scommettere che anche li là continuerà a giocare con le sue parole e la sua vita “al contrario”.