Primo esportatore nel mondo di caffè e di zucchero di canna, il Brasile è anche il maggiore produttore di minerali, quali il ferro e l'alluminio. Nonostante una cavalcante crescita industriale ed in virtù di un'economia che con un PIL di 2.250 miliardi di dollari si attesta al sesto posto fra le economie mondiali, gran parte della popolazione vive nella miseria. Un brasiliano su dieci è denutrito ed uno su quattro non ha accesso ai servizi igienici. Statistiche alla mano, il 10% più ricco della popolazione gode di una ricchezza 75 volte maggiore rispetto a quella del 10% più povero. Tutto ciò ha contribuito al proliferare di un “colonialismo di rapina” per mano delle multinazionali, coadiuvate dalle politiche di un governo statale compiacente.
La Vale, operante nel settore minerario, è una di queste. Sorta come piccola impresa nel 1911, oggi è un colosso che gode di un fatturato di 59 miliardi di dollari. Correva l'anno 1967 quando venne scoperta quella che sarebbe diventata la sua principale risorsa di ferro: un enorme giacimento nella Serra dos Carajás, zona montagnosa nello stato del Pará, situata in piena foresta amazzonica. Essendo il prodotto destinato ai mercati esteri e bisognando escogitare il modo per farlo giungere ad un porto d'imbarco, si optò per la costruzione di una ferrovia lunga ben mille chilometri. Gli sforzi economici della sola Vale, infatti, non sarebbero bastati se non avesse chiesto sostegno ad un governo subito dimostratosi conciliante e ben disposto. Nel novembre del 1980 vide la luce il decreto “Programa Gran Carajás”, atto ad assicurare fondi per la costruzione della ferrovia ed esenzioni fiscali per le imprese che si sarebbero installate lungo il suo tragitto. Il settore d'intervento del decreto relativo alla siderurgia rappresenta un'occasione d'oro per la Vale, che diventa automaticamente fornitrice di materia prima, di combustibile ed azienda di trasporto. Il tratto nel quale si è avuto il maggiore sviluppo è quello compreso fra le città di Marabá e Açailândia, esteso nemmeno 150 chilometri, affollato da una quindicina di stabilimenti per la produzione della ghisa. Nella sola città di Açailândia sono presenti quattro imprese siderurgiche e svariati altiforni, nessuno dei quali munito delle necessarie attrezzature per ridurre l'impatto ambientale delle polveri di carbone. Queste ultime vanno così inevitabilmente a depositarsi ovunque, accrescendo il già vorticoso propagarsi delle malattie: dalle allergie ai tumori, passando per asma e bronchiti.
Danni dovuti alle siderurgiche, ma non solo. La ferrovia viene percorsa quotidianamente dalle centinaia di vagoni che dalle miniere del Carajás trasportano il ferro al porto di São Luís. Si tratta di binari del tutto insicuri, sprovvisti anche delle semplici reti che impedirebbero a bambini ed animali di avvicinarsi. L'inesistenza di un sovrappasso, che consentirebbe l'attraversamento in sicurezza, aumenta il rischio di finire travolti dal convoglio; convoglio che, date le proporzioni, necessita di ben due chilometri per terminare la fase di frenata.
Sono 60 i milioni di dollari che giorno per giorno vengono estratti da quelle che, per dirla con Eduardo Galeano, sono le vene aperte dell'America Latina. Al contrario, le famiglie dei lavoratori vivono con meno di 300 dollari al mese, in baraccopoli di fortuna che non offrono loro né istruzione né assistenza sanitaria. La multinazionale, infatti, destina ai salari soltanto il 4,5% dell'intero fatturato ed un esiguo 0,8% va agli investimenti a favore delle comunità locali.
Ferro, tanto, troppo. Ferro da mettere a fuoco. L'autore ha le idee chiare riguardo al compito che la fotografia deve assolvere al giorno d'oggi, una fotografia che fa dell'aggettivo “sociale” la sua quintessenza. Quello di Giulio Di Meo è uno stile scevro dalla ricerca spasmodica del sensazionalismo fine a sé stesso, anticamera di un voyeurismo dalle tinte radical-chic. In questo dimostra di aver metabolizzato appieno la lezione di Werner Bischof, storico fotoreporter dell'agenzia Magnum Photos, che agli albori degli anni '50 auspicava già l'avvento di un fotogiornalismo umanistico (Cartier-Bresson disse della sua opera: “In Bischof anche la miseria più profonda risplende di luce.”). Lo stesso Di Meo ammette: “Negli anni siamo riusciti a strumentalizzare anche la miseria, contribuendo alla nascita e al proliferare di stereotipi. Si voleva scandalizzare, denunciare, provocare, nella speranza di scatenare lo sdegno della cosiddetta società civile. Invece abbiamo ottenuto il sonno delle coscienze, assopite nell'indifferenza collettiva e nell'egoismo individuale. C'è bisogno di una fotografia desiderosa di farsi carico delle lotte, della rabbia, delle ingiustizie che ci circondano, capace di indignare parlando con amore, passione, speranza”. Il progetto fotografico che ha portato alla pubblicazione di “Pig Iron” nasce grazie alla collaborazione tra il fotografo e la rete Justiça nos Trilhos (Sui Binari della Giustizia) e parte del ricavato sarà destinato alla realizzazione di attività dal carattere ricreativo, con il coinvolgimento delle comunità locali brasiliane. Infine, riportiamo le parole che Dario Bossi (missionario comboniano, nonché curatore dei testi insieme a Francesco Gesualdi) utilizza per concludere l'introduzione al volume: “Questi volti vi catturino e vi rendano loro ostaggi, vi conquistino, così come hanno fatto con noi, che non possiamo più appartenere solo a noi stessi.”