Lunedì, 13 Ottobre 2014 00:00

Popular Problems: il ritorno di Leonard Cohen

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Nell’olimpo dei grandi poeti della musica popolare nordamericana insieme a Bob Dylan e Neil Young, Leonard Cohen ha rappresentato il lato più esistenzialista ed introspettivo della grande tradizione cantautorale. Laddove in Dylan il conflitto è fra un popolo di ultimi e reietti contro una società spietata ed emarginante e in Young fra la compagna, simbolo di pace e armonia, e l’urbanizzazione modernista espansionistica e crudele, in Cohen il conflitto è tutto interiore all’essere umano, ai suoi turbamenti religiosi e morali, alle sue contraddizioni e paure, alle sue pulsioni, ai suoi desideri, alle scelte sbagliate e ai rimorsi come ai ricordi felici e agli incontri inaspettati.

Il nuovo Popular Problems esprime al meglio la filosofia coheniana e vive delle immagini prodotte dalle sue parole, un microcosmo di dolori, gioie, speranze, delusioni. Tutti stati d’animo personali che in Cohen acquistano però sempre una  dimensione collettiva,  finendo per esprimere in fondo quelli che sono i problemi che condividiamo e ci accomunano con tutti gli altri. La grandezza di Cohen sta proprio nell’universalizzare in questioni metafisiche e morali, situazioni individuali

I classici temi coheniani restano dunque presenti qua, ma si nota anche l’esigenza sempre più marcata del cantautore canadese di rendere manifesta la sua concezione poetica. Se il precedente Old Ideas, che va visto come strettamente connesso con quest’’ultimo lavoro, affermava il bisogno di rimanere fedele a una musica sobria ed elegante, crepuscolare ed ascetica, che non si lasciasse suggestionare del mito dell’innovazione come unico indicatore della bellezza musicale, qua, su Popolar Problems, Cohen afferma proprio in apertura, sulle note di Slow, la sua predisposizione alla lentezza e quindi anche la sua inclinazione alla riflessività e al concepire la musica come divulgatrice di idee più che di ritmi, in un contesto (musicale ma non solo) in cui invece  la dimensione del “pensare” è sempre più schiacciata dall’esigenza, spesso maniacale, del “fare”.

I paragoni col precedente Old Ideas non finiscono qua. Entrambi manifestano la coerenza rispetto a uno stile dai tratti scarni ed essenziali ma dagli arrangiamenti mai banali.

La voce di Cohen ha sicuramente perso di incisività con l’età; la dolcezza ha lasciato spazio a vocalizzi rauchi e cavernosi spesso supportati da cori femminili. I fasti degli esordi sembrano irraggiungibili, prima di tutto da un punto di vista fisiologico, ma anche i contenuti hanno perso quell’ardore mistico che  contraddistinguevano il suo stile. Cohen sembra un signore anziano che, dall’alto della sua acquisita saggezza, ha felicemente risolto molte delle sue inquietudini e turbamenti (si ascolti Nevermind che recita: c’è una Verità che viva e una Verità che muore, ma non so quale, quindi non importa”) che hanno agitato i suoi tormentati dischi degli esordi. Non ci possiamo più aspettare immagini metaforiche della forza di Suzanne o di Sisters of mercy o di preghiere disperate dalla veemenza di Hallelujah, ma, nonostante qualche battuta a vuoto (troppo monocordi pezzi come A street e Born in Chains), c’è ancora molta intensità in queste otto nuove canzoni, mosse da una forza quasi ironica e meno tragica di un mondo che comunque continua a essere descritto in tutta la sua negatività (Almost like the blues, You got me singing). L’apice è raggiunto da due ballate lunatiche, Samson in New Orleans, raro caso in cui temi biblici si confondono e mescolano con una sottile e sarcastica critica allo “Zio Sam”, il tutto in un trionfo di archi malinconici, e la conclusiva You got me singing, congedo di disarmante dolcezza in un crescendo passionale.

Fedele a se stesso e al suo stile, Leonard Cohen, continua a produrre album di classe.

[Voto: 7/10]

Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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