Paradossalmente, è proprio questo aspetto a costituire, forse, un limite. Laddove i due album precedenti del 1967 avevano di fatto gettato le basi di tutta la musica alternativa, sradicando la psichedelia dalle sue radici blues e rock’n’roll per ampliarne in maniera indefinita le possibilità concettuali e applicative, influenzando tutta la musica a venire (dal punk dei Clash al noise dei Sonic Youth , dalla new wave dei Joy Division all’ambient di Brian Ino), questo terzo lavoro dei Velvet si “limita” a costituirsi come un appendice di rock intimistico, da camera e quasi borghese rispetto alle degenerazioni psycho-noise, alle improvvisazioni proto-punk, alle angoscianti descrizioni di alienazione urbana, ai racconti di malsana perversione, agli avanguardismi artistoidi e alle sinistre improvvisazioni degli esordi. Persino i temi trattati subiscono una mutazione radicale: paranoia, prostituzione, droga, degrado, sradicamento, solitudine, violenza, morbosità e perversione lasciano lo spazio al più classico dei temi amorosi. Tanto che l’album è quasi un concept album sul sentimento più classico della storia della musica, dall’innamoramento (la raffinata Candy Says e l’anthem proto-punk di What Goes on) passando per la schiavitù d’amore (la languida ballata di Pale Blue Eyes e il misticismo introverso quasi coheniano di Jesus), per la liberazione (la sanguigna Beginning to See the Light e l’urlo selvaggio di I’m Set Free) fino all’emergere della mancanza e del dolore (l’inquietudine fatta musica di The Murder Mistery e Afer Hours). Dieci tracce stupende che però pagano il forfeit di John Cale – allontanato da Reed - che toglie ai Velvet il contributo più creativo e avanguardistico e lasciando dunque campo aperto all’approccio al rock un po’ più convenzionale di Lou Reed, qua comunque all’apice della sua forma.
A 45 anni di distanza dalla pubblicazione dell’album, la Universal/Polidor ha ristampato una versione super deluxe celebrativa composta da ben sei dischi, un’opera monumentale al limite della megalomania, ma sicuramente importante almeno da un punto di vista filologico. Compaiono infatti praticamente tutte le canzoni registrate in studio o eseguite live della band in quel 1969. I primi tre dischi contengono altrettante versioni dell’originale: due mix (quello più canonico e molto simile all’originale di Val Valentin e il più diretto e spartano “Closet mix”) e una mono. Tuttavia acquisiscono molto più interesse per chi già conosce l’album a dovere, i restanti tre dischi. Il quarto è dedicato alle incisioni inedite del periodo, si tratta per lo più di canzoni comparse nei loro due dischi successivi ma anche di materiale rimasto fuori dalle pubblicazioni ufficiali. Ancora più interessante è ciò che è inserito nel quinto e nel sesto disco, dove trova spazio uno storico doppio live, del 26-27 Ottobre di quell’anno, registrato benissimo, al Club The Matrix di San Francisco. Rimasta quasi completamente inedito fino a ora, questa doppia performance contiene molti dei loro capolavori fra i quali spicca una versione torrenziale di quasi 40 minuti di Sister Ray, il loro capolavoro rumoristico e forse l’apice della psichedelica tutta. Non solo un documento prezioso ma anche un live di grande qualità.
Si tratta, in generale, di una ristampa per appassionati ma costituisce anche un ottimo pretesto per tornare a parlare di un gruppo seminale. Questo terzo omonimo album rappresenta del resto un tassello importante per capire la musica contemporanea ed il suo ascolto è consigliato come una perfetta introduzione all’opera dei Velvet. Immancabile presenza, insieme ai due capolavori del 1967, per qualsiasi collezionista rock che si rispetti.