Lo scarto stilistico e qualitativo rispetto al nero pece dell’Ep Cassette (2014) è evidente e sorprendente. In meno di anno, l’ennesimo gruppo indie che gioca a emulare Killing Joke e Joy Division si è trasformato in una fucina di idee e suggestioni, un soggetto collettivo non più eterodiretto e calligrafico ma creativo e vitale. Stupisce la naturalezza con la quale il gruppo canadese riesce a coniugare i classici del post punk con il revival new wave degli anni zero (Interpol ed Editors su tutti) pur restando saldamente ancorato all’esperienza della scena indie canadese (la cui ricchezza è stata documentata sinteticamente su queste stesse pagine – vedi qua e qua). Stupisce soprattutto l’apparente spontaneità di una contaminazione che –tutt’altro che forzata – apre nuove strade a certa darkwave, troppo spesso imprigionata in una a-discorsiva ripresa degli stilemi classici o snaturata entro qualche tentativo revivalistico che ne ha spesso smussato gli angoli più spigolosi, spingendola verso i terreni a scarso coefficiente artistico del rock da arena.
Invece l’esperienza Viet Cong non cade mai nel banale. Squarci melodici obliqui ed eccentrici di scuola canadese (come Spencer Krug e Arcade Fire insegnano) si stendono su un tappeto nervoso di suggestioni marziali e ossessive (Bunker Buster e soprattutto Silhouette) mentre grigiori industriali forgiano lamiere metalliche spigolose ma duttili (Newspaper Spoon e Pointless Experience) che oltre ai maestri Einsturzende Neubauten e Killing Joke, guardano all’orrorifico rumorismo industrial dei Pop 1280.
Diversi sono, poi, i gruppi che hanno tentato di estendere e dilatare il post punk oltre i limiti fisici e convenzionali di un genere sempre piuttosto allergico alle lunghe e articolate composizioni sonore, ma pochi ne hanno ricavato qualcosa di buono. I Viet Cong appartengono a quest’ultima categoria: si ascolti l’elettronica cupa e martellante di March of Progress o gli 11 minuti al cardiopalma di Death, entrambe rappresentano un cavo teso fra la melodia epicheggiante e spersonalizzata di Sea Within a Sea degli Horrors e il furore gotico e ancestrale di Earthmover degli Have a Nice Life, ma vivono di una forza trascinante persino superiore.
Il disco incarna i topoi letterari e filosofici del genere: il decadentismo, la fantascienza più cupa, ossessiva e disturbata (Dick, Ballard), la modernizzazione come meccanizzazione e spersonalizzazione, come perdita del senso e dello scopo dell’esistenza. When all is said and done/you’ll be around until you are gone recita Continental Shelf, vero capolavoro concettuale oltre che brillante dialogo fra Bauhaus e Smiths e composizione nella quale, alla pari della meravigliosa Silhouette, tutte le suggestioni e le influenze stilistiche trovano la loro quadratura e dove la contaminazione diventa superamento.
L’omonimo album di esordio dei Viet Cong non inventa nulla ma rivitalizza un intero movimento. Si tratta di uno dei dischi post punk più rilevanti degli ultimi dieci anni. Per una volta le influenze non si riducono a patchwork ma cooperano virtuosamente ad immaginare qualcosa di originale e diverso. Servirà del tempo per capire quale impatto avrà sulla musica alternativa. Intanto non possiamo che salutare con soddisfazione questa meravigliosa sorpresa.
[Voto: 8/10]
In fondo alla pagina trovate il video, buon ascolto!