Un finale parziale dunque, in cui il sonnambulismo melodico, l'incanto della pura astrazione, la vertigine del diluito e dello sfumato, sono al centro dell'ennesimo, estetizzante sogno. Con i Beach House, il dream pop ritrova la strada di casa, ricuce lo strappo fra la new wave dei Cocteau Twins e la shogaze degli Slowdive e My Bloody Valentine, aspirando a ritrovare quella centralità che sembrava aver perso a partire dalla seconda metà degli anni novanta.
Depression Cherry mostra un gruppo che può finalmente permettersi anche un po' di autoreferenzialità: il cantato languido e onirico di Victoria continua a ricercare l'atmosfera ma anche l'incanto melodico (i refrain di gran classe e di visionaria bellezza di "Sparks" o di "Beyond Love") mentre la chitarra di Alex non è mai stata tanto gentile, riducendo praticamente a zero le increspature ma creando comunque un diffuso anche se soffice tappeto di suoni filtrati ed eterei, aperti ed evocativi ("Levitation", "PPP", l'estenuante ascesa celestiale di "Days of Candy").
La solida impronta del marchio Beach House su Depression Cherry è sufficiente a farne un album di valore, anche se il suo carattere riepilogativo e ibrido lo rendono meno memorabile di lavori stupendi nella loro imperfezione e parzialità come Devotion o Teen Dream. Pur aggiungendo poco, il nuovo disco rafforza la candidatura dei Beach House ad alfieri del dream pop anche in questo decennio. Rappresenta inoltre un ottimo punto di partenza per chi volesse approcciarsi per la prima volta al duo di Baltimore.
7/10