Sabato, 22 Dicembre 2012 00:00

Mumford & Sons, Babel

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Immagine tratta da coverlaydown.com

In fondo Marcus Oliver Mumford e i suoi “figli” sono dei classicisti. Certo, non si fanno mai mancare uno spirito indie un po’ casinista e frammentario, quel modo di porsi e di intendere la musica in modo improvvisato, anche un po’ scazzato, non si fanno insomma mancare un bisogno di incompiutezza e libertà caotica che del resto dilaga oramai in gran parte della produzione folk, in particolare in quella a stelle e strisce. Eppure i Mumford & Sons non hanno mai rinnegato la tradizione: cresciuti con l’ossessione per Simon and Garfunkel, hanno sempre prestato grande attenzione all’orecchiabilità, alla pulizia del suono, alla nitidezza delle melodie.

Rispetto all’album d’esordio, Sigh no more, questa necessità si avverte ancora più forte. Lontani, ahimè, dalla brillantezza del suddetto lavoro di tre anni fa, questo Babel sfrutta comunque a dovere la verve di un collettivo di artisti affiatato e vivace, capace di interpretare con buona dinamicità un genere generalmente considerato intimo e posato. Il disco parte in effetti in quinta con l’adrenalinico e frenetico carillon di Babel, mentre Holland Road e soprattutto Whisper in the dark sono un continuo cambio di ritmo, un cocktail riuscito di James, Neutral milk hotel e Levellers.

La forza dei Mumford più che nei testi, sta nella grinta, o meglio, nello slancio epico del loro folk alternativo, nell’attenzione per una forma di magniloquenza che, senza raggiungere i livelli di rifinitura del maestro Sufjan Stevens, o di emotività degli Okkervil river, evita di scadere nel barocco o nel forzatamente alternativo. Si prenda un brano chiave come I will wait: ecco che il richiamo allo stile dei campioni di certo indie folk come i Fleet foxes appare lampante. Eppure, contrariamente alle atmosfere agresti del gruppo di Seattle, I Mumford and Sons fanno una professione di fede nei confronti dell’urbano, una dichiarazione d’amore nei confronti della tipica “dirty old town” britannica, con i suoi pub fumosi e caldi, spesso frequentati da una consistente minoranza irlandese che non si fa troppa fatica ad immaginare allietata dal folk affogato nella Guinness delle neanche- tanto-vagamente-celtiche ballate alla Pogues di Lovers’ eyes o Not with haste che i Mumford and Sons hanno sempre in serbo.

Album solido e variegato, consigliato agli amanti del folk in tutte le sue sfaccettature.

6,5

Ultima modifica il Sabato, 22 Dicembre 2012 13:51
Alessandro Zabban

Nato nel 1988 a Firenze, laureato in sociologia. Interessi legati in particolare alla filosofia sociale, alla politica e all'arte in tutte le sue forme.

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