Rispetto all’album d’esordio, Sigh no more, questa necessità si avverte ancora più forte. Lontani, ahimè, dalla brillantezza del suddetto lavoro di tre anni fa, questo Babel sfrutta comunque a dovere la verve di un collettivo di artisti affiatato e vivace, capace di interpretare con buona dinamicità un genere generalmente considerato intimo e posato. Il disco parte in effetti in quinta con l’adrenalinico e frenetico carillon di Babel, mentre Holland Road e soprattutto Whisper in the dark sono un continuo cambio di ritmo, un cocktail riuscito di James, Neutral milk hotel e Levellers.
La forza dei Mumford più che nei testi, sta nella grinta, o meglio, nello slancio epico del loro folk alternativo, nell’attenzione per una forma di magniloquenza che, senza raggiungere i livelli di rifinitura del maestro Sufjan Stevens, o di emotività degli Okkervil river, evita di scadere nel barocco o nel forzatamente alternativo. Si prenda un brano chiave come I will wait: ecco che il richiamo allo stile dei campioni di certo indie folk come i Fleet foxes appare lampante. Eppure, contrariamente alle atmosfere agresti del gruppo di Seattle, I Mumford and Sons fanno una professione di fede nei confronti dell’urbano, una dichiarazione d’amore nei confronti della tipica “dirty old town” britannica, con i suoi pub fumosi e caldi, spesso frequentati da una consistente minoranza irlandese che non si fa troppa fatica ad immaginare allietata dal folk affogato nella Guinness delle neanche- tanto-vagamente-celtiche ballate alla Pogues di Lovers’ eyes o Not with haste che i Mumford and Sons hanno sempre in serbo.
Album solido e variegato, consigliato agli amanti del folk in tutte le sue sfaccettature.
6,5