Del resto lui stesso aveva lasciato svariati indizi di un sua possibile impegno serio in questa direzione: innanzi tutto la cura certosina con la quale assemblava le colonne sonore dei suoi film (ha composto pezzi di Twin Picks insieme a Badalamenti ed è protagonista di certe composizioni de L’impero della mente – Inland empire), in secondo luogo le sporadiche ma fruttuose collaborazioni con artisti del calibro di Sparklehouse e infine i due pezzi electro pop realizzati per una etichetta indipendente britannica del dicembre 2010.
Oggi, con la pubblicazione della sua seconda fatica The big dream (2013), che ha indubbiamente dato forma e resa più chiara la sua proposta musicale, sembra giunto il momento di tirare, provvisoriamente, le somme: come valutare il Lynch musicista? Procediamo con ordine.
Prima di tutto bisogna notare che, così come il suo cinema, anche la sua proposta musicale è volta a uscire dagli schemi narrativi e contenutistici classici. Lynch pesca nell’underground, in particolare quello britannico degli anni ’90, per rivisitare la tradizione americana. Il risultato è infatti un blues perverso completamente destrutturato e riproposto a dei ritmi bassissimi (si parla di downtempo), eredi della tradizione trip-hop di Bristol che con Massive Attack, Portishead e Tricky aveva reso l’alienazione urbana post industriale tramite una nuova forma di elettronica ipnotica e oscura.
C’è ovviamente anche dell’altro. Impossibile non notare, soprattutto nel primo album, marcate influenze new wave: il cantato glaciale e ossessivo ricordano tanto la paranoia dei Public Image quanto i ritmi robotici dei Throbbling Gristle (gli alfieri dell’industrial britannico). Il quadro che ne emerge è agghiacciante e straniante quanto molte delle sue pellicole, un tentativo di dare un suono che possa restituire una immagine perversa, allegorica e piuttosto allucinata della società americana. Oltre questi elementi, comunque non certo residuali, si fa fatica a trovarne altri connessi con la sua produzione cinematografica. Anche se ovviamente non l’unico, il tema ricorrente è quella della fine di un legame di coppia, reso in maniera minimalista e monotona, ripetendo all’infinito poche parole che si perdono nel vuoto dei bassi ombrosi e dei pigri beat sintetici. Ben più complesse sono le sue pellicole. Se come si diceva la ricerca dell’originalità è, così come nei suoi film, presente anche nella musica, che non si affida certo a strutture stereotipate, tuttavia le sfumature che questa originalità assume sono estremamente diverse: nel cinema, Lynch ha proposto un suo modello personale, naturalmente influenzato da certe scuole stilistiche (surrealismo in primis), ma comunque lontano dai modelli più consolidati, dando vita a uno stile inconfondibile e personale; in musica, ha invece fatto come molti altri compositori un po’ eccentrici tendono a fare: pescare dall’underground varie influenze, mescolarle con la tradizione, e costruire una variazione sul tema del già sentito.
Impossibile rimproverare il “neofita” Lynch di questo modo di procedere per piccoli spostamenti, mescolando tutto e il contrario di tutto, tendenza postmoderna che è del resto specifica e caratterizzante degli ultimi anni, tuttavia con ciò si vuole mettere in evidenza come David Lynch sia da considerare prima di tutto un grande cineasta e in secondo luogo un discreto musicista ché alla fine, se è vero che alla lunga i suoi dischi risultano forse eccessivamente monotoni, presentano comunque dei momenti di assoluta brillantezza, soprattutto quando si esce dal suddetto schema blues oscuro/trip hop/industrial (la dance robotica di Good day today, la ballata desertica un po’ Calexico un po’ Morricone di The night bell with lightning, il rock psichedelico di Sun can’t be seen no more). Per i fan del grande regista americano, il consiglio è di provare anche la sua musica: a piccole dosi e senza troppe pretese, se non quella di ascoltare qualcosa di piuttosto spiazzante.
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