Ormai in molti, “esperti” e non, hanno da tempo sposato la teoria secondo cui il gruppo più longevo del Grunge di Seattle, oltre ad avere musicalmente poco altro da aggiungere alla propria seppur gloriosa carriera, abbia perso non solo la rabbia contestatrice dei primi anni, ma anche lo sguardo critico forse più rassegnato e maturo dei lavori successivi. Premettendo la mia assoluta parzialità, ritengo si tratti di un giudizio stereotipato e spesso superficiale. Perché? Perché poi però quasi tutti sono più o meno costretti ad ammettere che altre nuove pubblicazioni di pari qualità sono più uniche che rare, che la voce di Vedder non può essere messa in discussione, che da anni sono la migliore live band del mondo, che la loro capacità di esplorare tutti i registri del rock classicamente inteso forse non ha eguali, che riescono come pochi a seguire e dare voce alle inquietudini di una generazione che sta invecchiando e mutando insieme a loro, che in ogni loro disco c'è almeno un pezzo che, da solo, per qualcun altro varrebbe una carriera intera.
E allora diventa lecito chiedersi se tutti questi “ma” e “però” alla fine non siano sufficienti a confutare la tesi iniziale... Domanda retorica per la sottoscritta, ovviamente...
Perché noi fan “storici” dei Pearl Jam siamo romantici: se ci chiedono quale sia la nostra canzone preferita non sappiamo rispondere; bramiamo l'annuncio di ogni tour e se vengono in Italia per cinque date, il nostro giro mistico ne prevede almeno tre (con eventuali escursioni in qualche capitale europea per alleviare l'astinenza); sogniamo tutti un pellegrinaggio a Seattle. E siamo anche un po' snob, perché in piena moda grunge (quando anche le mie compagne di liceo più posate e disinteressate alla musica sfoggiavano camicioni di flanella e anfibi, e quando su tv sorrisi e canzoni trovavi il testo di “Alive”) i Pearl Jam hanno fatto scelte nette, commercialmente controproducenti, almeno nell'immediato: e noi che abbiamo continuato a seguirli nonostante ci abbiano privato per anni (quelli d'oro dei canali televisivi musicali) della soddisfazione di un video, nonostante la loro battaglia (persa) contro la ticketmaster li abbia a volte tenuti lontani dai palchi troppo più del tollerabile, nonostante (menomale) non siano diventati gli U2 di Seattle, ci sentiamo di appartenere ad una sorta di setta. C'è da dire che da un certo punto in poi hanno ripagato la nostra fedeltà con gli interessi, con concerti memorabili, molti dei quali sono diventati cd o dvd che conserviamo come cimeli, alcuni con l'orgoglio di poter dire “oh, quella che senti urlare «forever!!!!»a Pistoia sono io” (e sono io davvero...). E quando Vedder, con la sua fisicità non certo imponente, sale sul palco e alza lo sguardo diventa un gigante e nessuno (donne e uomini di ogni orientamento sessuale) può negare che nel suo sguardo ci sia qualcosa di magnetico che veramente in pochi hanno: riesce a creare col suo pubblico più affezionato una tale empatia, da farti pensare che la scaletta sia stata studiata apposta per te. E come sempre dal vivo i Pearl Jam si cimentano in numerose cover (molte delle quali col tempo sono diventate dei classici del loro repertorio), con l'umiltà di chi sta rendendo un omaggio e senza la spocchia di chi vuole dimostrare di essere meglio dell'originale, nonostante il talento interpretativo di Eddie ti faccia sempre sospettare che in realtà siano canzoni scritte da lui (dote che condivide con pochi altri, oltre al suo amico Ben Harper).
Ecco spiegato perché se qualcuno ci tocca i Pearl Jam noi mordiamo, come se ci offendessero un fratello o il migliore amico.
A questo punto, cosa vi aspettate che dica di Lightning Bolt...
Esteticamente notevole e significativa la grafica, da non sottovalutare per i ragazzi degli anni '90 che ancora attendono con impazienza il giorno dell'uscita per andare in un negozio, comprare il cd, scartarlo ed infilarlo all'istante nel lettore dell'auto, per poi dopo, a casa, con calma, cominciare a scoprire i testi, le immagini, i ringraziamenti (in questo caso a “uncle Neil”... Young, I suppose), i dettagli: un rito evidentemente sconosciuto alle generazioni successive.
Purtroppo io sono una lenta, a cui servono molti ascolti (ma che diamine, mica posso scrivere di un disco dopo sei mesi dall'uscita!), però io lo trovo un bel disco, energico, che si fa ascoltare senza fatica alcuna: ci propone dei Pearl Jam che sono sempre loro, forse un po' meno duri ma non banali, che come al solito riescono ad esplorare le molteplici facce del rock (e in questo, senza ambire a quella perfezione, Lightgning Bolt ricorda No Code). Attraversare oltre vent'anni di carriera e restare fedeli a sé stessi, senza diventare la propria caricatura, è una scommessa che poche rock band riescono a vincere, e loro, da sempre molto asciutti e poco costruiti, in questo non hanno rivali, sia musicalmente che dal punto di vista dell'immagine: che fortuna non vedere ancheggiare Eddie come l'ormai geriatrico Mick Jagger!
Si spazia dall'immancabile punk al blues, al country, al folk, alla psichedelia. Si richiamano a turno tutti i lavori precedenti dei Pearl Jam e la perfetta colonna sonora di Into The Wild. Riecheggiano tutti i mostri sacri cari ai nostri, a partire da un certo Pete Thownshend (passionista dell'ukulele), che tra i tanti padri artistici di Vedder è senza dubbio quello fondamentale.
Il disco si apre con Getaway: atmosfera da Vitalogy e finale alla Rearviewmirror che sembra dirti “eccoci, ti abbiamo fatto aspettare 5 anni ma siamo sempre noi, quelli che ti emozionano al primo ascolto”.
Sirens, ballata diversa da quelle storiche, più morbida e composita (suvvia però, chi per descriverla ha usato parolacce come “bon jovi” si dovrebbe un pochino vergognare) incanta per il testo che sembra leggerti l'anima e per la voce di Eddie: Vedder con gli anni ha talmente affinato le sue capacità interpretative, che riesce a trasmetterti il senso di quello che sta cantando anche se non capisci una parola (ringrazio Gabriele per il suggerimento). Con quella voce, che andrebbe inserita nella lista del patrimonio mondiale dell'Unesco, potrebbe cantare anche la lista della spesa e farla sembrare un capolavoro.
Altro pezzo immediato, che ha scalato subito la mia personale classifica, è Infallible, dall'inusuale ritmica iniziale (un po' funky, un po' stoner).
Il produttore Brendan O'Brien come sempre è una garanzia, il valore aggiunto: colui che riesce a far suonare il tutto esattamente come dovrebbe.
Chitarre in gran spolvero, perfettamente complementari, e un Mike McCready che mi pare in stato di grazia: eclettico come forse non mai, impreziosisce ogni pezzo (adoro gli accenni Tex-Mex di Pendulum, brano di indubbio pathos, che alle mie orecchie si rivelerà meglio alla distanza).
Matt Cameron si dimostra ormai parte integrante della band, aggiungendo quel tocco “da batterista”, sempre più distinguibile, alla composizione e all'arrangiamento.
Un cenno ai testi, tutti targati Vedder: magistrali come al solito. Chi dice che la rabbia e la critica sociale lo hanno abbandonato prende un discreto abbaglio; quando si interroga sul senso della vita e racconta di sentimenti, vorresti solo anche tu essere in grado di farlo come lui. Invito chiunque abbia una minima conoscenza dell'Inglese a verificare quanto le lyrics di Eddie (quelle giovanili e quelle mature), oltre ad essere rilevanti nei contenuti, siano di rara bellezza da un punto di vista puramente letterario: per dire che c'è altro oltre a Bob Dylan...
Ecco, ce l'ho fatta... Finalmente libera dall'ansia dell'inadeguatezza al compito che mi era stato concesso, mi metto a sognare di rivedere quanto prima i Pearl Jam dal vivo, in Italia, possibilmente non in uno stadio (a San Siro fateci andare pure i negramaro, noi preferiamo Pistoia o l'Arena di Verona).