In un anno baciato dalla fortuna per il cantautorato femminile (le prove di Laura Marling e Julia Holter su tutte), Anna Calvi, inglese a tutti gli effetti, anche se di padre italiano, non è mancata all’appello e ha proseguito impavida sui territori già battuti sul suo primo lavoro. Insomma, tutti quegli elementi che hanno fatto tanto parlare di sé sono qua rimarcati. Cambia infatti poco nell’impostazione generale: un rock da camera ed orchestrale, atmosfere decadenti e noir, pieno zeppo di barocchismi, contaminazioni, frequenti incursioni nell’elettronica, per un guazzabuglio un po’ kitsch sempre in bilico fra classicismo e avanguardia. Ciò non significa che questo One breath sia la copia carbone dell’esordio. Appare infatti più ricco e raffinato negli arrangiamenti, più vario e studiato nella struttura generale.
Originalmente ispirata al cantautorato aggressivo e punk di PJ Harvey e Patti Smith, ad oggi Anna Calvi sembra sempre più prestare attenzione a bilanciare varie pulsioni, ricercando armonia ed equilibrio fra le varie componenti stilistiche del suo stile raffinato. C’è un po’ di furbizia dietro questa operazione che sacrifica l’impulso estetico alla razionale e fredda ricerca del compromesso, ma il risultato è un disco che si regge su una vitalità che sembra scomparire solo sul finale, dove, presa da un eccesso di enfasi artistoide, la Calvi si fa prendere troppo la mano negli stanchi vocalizzi lamentosi di Bleed to me, in un crescendo enfatico che sembra non arrivare mai al culmine, e soprattutto su The bridge, un unico, lento “vuoto” sonoro senza capo ne coda. Entrambe rendono poca giustizia rispetto a ciò che è venuto prima. Il disco è infatti pieno di intuizioni interessanti, fra queste, i pezzi più classicheggianti, sebbene piuttosto prevedibili, sono decisamente attraenti e accattivanti. Spiccano Tristan (incedere spavaldo, virtuosismi vocali della Calvi, synth epicheggianti) e la title track One breath, ombroso ed elegante downtempo per percussioni e coda di archi. Le melodie più immediate sono però quelle di Carry me over, resa irresistibile da arrangiamenti d’alto profilo (percussioni, archi, xilofono: tutto di una delicatezza senza fine)e dalle doti canori eccelse della Calvi che scandisce ogni singola parola con la teatralità, il fascino e la passionalità delle grandi performers.
L’ultimo omaggio della Calvi al romanticismo arriva con Peace by peace. Spoglia,desolata, malinconica, è una composizione da camera che richiama lo stile inconfondibile di un’altra artista di origine italiana, la grande Lisa Germano. Il suo stile fragile è ben restituito nelle note dell’artista inglese che anche nel testo sembra ricalcare le ossessioni, i ricordi e i turbamenti che angosciano ma che anche ispirano l’arte della Germano.
Per ritrovare invece l’Anna Calvi che tutti si aspettavano occorre procedere a ritroso: nelle prime due tracce eccola apparire enfatica, decadente, aggressiva. Se Suddenly è una composizione (soul)punk dai ritmi serrati, Eliza è un power rock percussivo e gagliardo. Nulla però a che vedere con l’apice nichilista del disco: Love of my life è una vera orgia di elettronica industrial, ossessiva, affannata ed isterica secondo un’operazione ben precisa di destrutturazione dei canoni della musica cantautoriale che sta conducendo parallelamente anche un’altra giovane, brillante artista, l’austriaca Anja Plaschg (aka Soap&Skin).
Anna Calvi sta sempre più dimostrando di non essere solo talento vocale ma anche fonte di creatività artistica. Si muove ormai con disinvoltura fra più generi musicali, interpreta più ruoli e crea atmosfere sempre più complesse, si fa arricchire da un numero crescente di influenze e ha uno stile personale, cosa rara di questi tempi. Ancora molto giovane, può dare veramente molto in futuro alla musica. Una promessa che si sta mantenendo.
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