“L’Italiana in Algeri” tra stereotipi liberatori e regie discutibili
La più recente opera cui il munifico biglietto di cui ho già parlato mi ha dato accesso, che incidentalmente marca anche la chiusura della stagione operistica pisana (sì, è stato breve ma intenso, ok, più breve che intenso, un giorno vivrete anche voi a Pisa e allora capirete) è L’italiana in Algeri (1813) di Gioachino Rossini.
Dopo più di mezzo secolo è tornato al Piermarini l'"Otello" di Gioacchino Rossini, che era stato del tutto soppiantato da quello ben più celebre di Giuseppe Verdi.
L'opera del 1816 è un vero gioiello del melodramma ottocentesco italiano, connubio felicissimo tra musica e teatro. Il libretto, in verità non eccezionale, è del marchese Berio di Salsa su una versione in prosa del Ducis.
Immaginate la settecentesca sala del Teatro alla Scala affollata dalla buona società milanese in abito scuro e cravattino nero, le soffuse luci gialle dei lampadari, la seria compostezza delle maschere, il chiacchiericcio e le conversazioni galanti tra un atto e l’altro e il rigoroso e solenne silenzio durante lo spettacolo.
Cancellate tutto. Perché alla “Cenerentola per bambini” a colmare la Scala sono spettatori giovanissimi, piccoli e rumorosi, vivaci, giocosi e perfettamente ingenui. Il progetto “Grandi opere per piccoli” è rivolto a un pubblico di ogni età, purché minorenne, e l’esperimento sembrerebbe del tutto riuscito.
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