Venerdì, 09 Febbraio 2018 00:00

Tuco in Love – la subdola rivoluzione di un’opera western

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Tuco in Love – la subdola rivoluzione di un’opera western

Grazie al gradito dono di un abbonamento all’opera da parte di un’anziana amica di famiglia ho avuto la possibilità di andare a vedere una serie di opere di cui per essere del tutto onesto non mi sarei scomodato a pagare il biglietto. La prima è stata l’Iris di Mascagni – e la mia idea che non valga i soldi del biglietto ne esce immutata. Domenica scorsa è stato il turno della Fanciulla del West di Puccini – un autore che per qualche motivo ho sistematicamente sottovalutato, e per quanto la resa sia stata tutto men che perfetta, l’opera è senza dubbio una di quelle che val la pena di vedere, tanto per il suo innegabile valore musicale, quanto per degli interessanti aspetti nella caratterizzazione dei personaggi.

Dal punto di vista musicale, nella produzione di Giacomo Puccini La Fanciulla del West deve essere considerata come un’opera matura, in cui il gusto per la sperimentazione musicale tipico di Puccini è sostenuto da un’estrema perizia nell’armonia e nell’orchestrazione. Nell’interazione tra drammaturgia e musica, l’opera lirica soffre della difficoltà di rappresentare personaggi comprimari – con una loro personalità ma un ruolo secondario nella vicenda – ripiegando in genere su figure di co-protagonisti, o su un coro statico e non partecipe. Puccini tenta di risolvere questo problema costruendo un’opera corale, in cui la vicenda dei protagonisti si inserisce in un ambiente umano caratterizzato – un accampamento di minatori nella California della corsa all’oro.

Questo non è nuovo per Puccini, che ha sviluppato un primo tentativo nella Bohème. Mentre nella Bohème, tuttavia, la coralità è composta da personaggi singoli, con la loro personalità e le loro parti solistiche, l’insieme dei minatori, caratterizzati a livello di personalità e di voce, ma capaci di muoversi soltanto nel contesto dell’accampamento, inesistenti altrimenti, riesce a risolvere questo problema, creando una coralità partecipe ma non protagonista.

Parallelamente a questa sperimentazione drammaturgica Puccini tenta di sviluppare una sperimentazione musicale, che ricostruisce una buona mezz’ora di interazioni dei minatori al saloon, senza che uno solo dei protagonisti sia ancora entrato in scena. L’idea non è per niente malvagia, ed è già stata applicata da Boito nel Mefistofele, a sua volta esplicitamente ispirandosi alle scene corali in Wagner; ma viene un po’ il sospetto che sia proprio la lingua italiana a non essere appropriata per questo tipo di sperimentazioni, che, affascinanti e drammaturgicamente funzionali in tedesco, risultano sempre confuse e deludenti in italiano. Infatti, a fianco di momenti di assoluta brillantezza (come la scena del cantastorie, "Che faranno i vecchi miei", in cui gradualmente i minatori si uniscono nel cantare la propria nostalgia per casa, interi tratti sono drammaturgicamente inconsistenti e confusi.

A fianco di aspetti più sperimentali, come l’uso strategico del parlato e degli effetti di suono, emerge la proverbiale pignoleria filologica di Puccini, che cerca sempre di introdurre elementi tipici della musica dei luoghi in cui l’opera è ambientata. Anche come conseguenza dell’uso di temi popolari statunitensi, la musica della Fanciulla del West ricorda in molti casi la colonna sonora dei vecchi film western – ma va ricordato che probabilmente, sono anche le colonne sonore dei film western ad aver attinto a piene mani da questa opera, chiudendo il circuito. Ovviamente tutta una serie di scene sono state scritte per stimolare la lacrimuccia facile dello spettatore – è uno dei giochi sadici in cui Puccini, da vari punti di vista un essere umano esecrabile, amava indulgere; la raffinatezza di Puccini sta nel tenere il pathos su quello scivolosissimo crinale che separa il toccante dal melenso. Ambedue i punti commoventi dell’opera – il coro dei minatori lontani da casa e l’aria finale di Johnson/Ramerrez, "ch’ella mi creda libero e lontano" – riescono perfettamente nell’operazione; l’aria in particolare, rappresenta ciò che “e lucean le stelle” della Tosca avrebbe potuto essere e non è stato – trasmettendo il rammarico e la disperazione del bandito prossimo all’impiccagione, ma senza la fastidiosa autocommiserazione di Cavaradossi.

La trama dell’opera condivide con quelle delle altre opere pucciniane una complessiva scarsa credibilità, unita a buchi di trama di proporzioni sgomentevoli; se fino a un certo punto ho interpretato questo elemento come segno di imperizia, adesso ho il sospetto che, semplicemente, Puccini e i librettisti Civinini e Zangarini, abbiano intenzione di mettere al centro dell’opera la caratterizzazione dei personaggi, insieme a un subdolo, raffinato gioco di distruzione degli stereotipi operistici. In questo contesto, una trama raffinata e complessa rischia di distogliere l’attenzione dalla psicologia dei personaggi, e risulterebbe quindi controproducente. Ad ogni modo La Fanciulla del West è un western, e nemmeno uno di quelli buoni, uno di quelli grezzi, con personaggi apparentemente tagliati con l’accetta, divisi tra buoni e cattivi, con i pellerossa che parlano all’infinito. Come conseguenza, a prima vista l’opera sembra un malconcepito crossover tra La locandiera di Goldoni e Bonanza, costruita sulla falsariga di una Tosca meno retorica e meno titanista; il trio soprano-tenore-baritono sembra identico a quello di Tosca, con il cinico e sgradevole Jack Rance nei panni di uno Scarpia ristretto da un candeggio sbagliato in lavatrice, il bandito redento Johnson/Ramerrez come un Mario Cavaradossi un po’ meno lamentoso e più convincente, e Minnie una Tosca un attimo meno uterina. Una lettura del genere sembrerebbe lineare; ma è sbagliata. Mentre nella Tosca il tenore Cavaradossi è vittima di un raffinato quanto crudele gioco di potere che ha come poli Tosca e Scarpia, qui Minnie è raffigurata come il punto centrale del suo piccolo mondo, un mondo sempre più soffocante, in cui l’ingresso di Johnson/Ramerrez rappresenta un’apertura salvifica verso una prospettiva alternativa. Questo nonostante Johnson/Ramerrez non sia il classico cavaliere su un cavallo bianco, ma piuttosto una versione vagamente ripulita di Tuco, il Brutto di Il Buono, il Brutto e il Cattivo. Anche Jack Rance, che di solito è presentato come il classico malvagio da operetta, non è un manipolatore, né un sociopatico (ambedue cose che Scarpia, decisamente, è); non è altro che un poveraccio cui i genitori non hanno mai voluto bene, e che tutto sommato non ha trovato altro modo di avere un ruolo riconosciuto che fare lo sceriffo in un accampamento di minatori nel selvaggio West. I personaggi sono persone normali in maniera pressoché disarmante, completamente privi di qualsiasi pulsione superomista, completamente concentrati sulle loro immediate necessità.

Piuttosto curiosamente, La Fanciulla del West è un’opera quasi completamente maschile; a parte il personaggio secondario della serva indiana Wowkle, Minnie è l’unico personaggio femminile – ma ne è anche l’indiscussa protagonista. La caratterizzazione di Minnie è sostanzialmente quella che abbiamo imparato ad associare al classico strong-female-character, ormai diventato esso stesso uno stereotipo postmoderno di donna bellissima, intrepida, intelligentissima, decisa e con le tette grosse; ma a differenza dello stereotipo, Minnie mostra un’inaspettata complessità che la rende un personaggio decisamente credibile: mentre è perfettamente in grado di risolvere le situazioni più difficili con l’appropriata combinazione di forza di carattere, integrità morale e colt a sei colpi cariche, al tempo stesso ha dei crolli di autostima al limite dell’autolesionismo, giungendo a convincersi nell’incredulità generale di non valere dopotutto granché. Al limite dell’esilarante, ma anche molto realistica e a suo modo toccante, è ad esempio la scena dell’appuntamento di Minnie e Johnson/Ramerrez, in cui lei, come prevedibile per una persona innamorata, lo sopravvaluta in maniera evidente e gli dice di essere troppo ingenua e incolta per lui, mentre quel poveraccio, che è un bandito messicano in incognito, cade da tutte le nuvole, è estremamente in imbarazzo, ma ovviamente non può dirle di essere Ramerrez e quindi la risolve facendo un sacco il vago. A differenza della classica storia d’amore stereotipata da opera lirica, peraltro, la relazione tra Johnson/Ramerrez e Minnie è estremamente paritaria e decisamente sana – è molto evidente come il desiderio sia reciproco, è Minnie stessa ad invitare a cena il messicano a casa sua, senza falsi pudori di sorta, e alla fine lo salva dall’impiccagione con la solita colt in pugno. Infine, nonostante sia un personaggio positivo, Minnie non è ineccepibile né dal punto di vista morale, né soprattutto da quello legale. Nel proporre a Jack Rance di giocarsi a poker la vita di Johnson/Ramerrez, esplicitamente si allinea all’ambiente che la circonda: “Chi siete voi, Jack Rance? Un biscazziere./ E Johnson? Un bandito./ Io? Padrona di bettola e di bisca/ vivo sul whisky e l’oro,/ Tutti del pari!/ Tutti banditi e bari!”; dopodiché non esita a barare, dimentica di qualsiasi scrupolo morale pure di salvare la vita al bandito di cui è innamorata. Persino l’atto di liberare Johnson/Ramerrez dalla forca è un atto di assoluto arbitrio, contrario a qualsiasi legge, e non giustificato da null’altro che dall’amore – quello di Minnie per il bandito, quello dei minatori per Minnie. A sua volta, il rispetto della legge da parte di Jack Rance è assolutamente strumentale. In un mondo immorale, quindi, l’illegalità può essere morale.

Per quanto un po’ zoppicante dal punto di vista ritmico – il che danneggia soprattutto le scene corali, che devono essere precise al sedicesimo per essere d’effetto – e con un’orchestra sovradimensionata rispetto alle effettive potenzialità delle voci, soprattutto, di nuovo, nelle parti corali, la versione vista al Teatro Verdi di Pisa con la direzione di James Meena e la regia di Ivan Stefanutti ha trasmesso con innegabile espressività quanto messo in partitura da Puccini. Più che buone anche se non tecnicamente impeccabili le interpretazioni dei tre ruoli principali, per nulla semplici. Enrico Marrucci nella parte di Jack Rance ha mostrato un buon timbro e una voce omogenea e sviluppata, anche se con acuti un po’ gridati e fuori controllo. Estremamente espressivo Mikhail Sheshaberidze nella parte di Johnson/Ramerrez, nonostante la difficoltà della parte, un tenore spinto che chiede nella parte bassa e centrale della sua estensione un colore quasi baritonale, che la rende non alla portata di tutti; Sheshaberidze, che può contare anche su una figura imponente che per la caratterizzazione di Johnson/Ramerrez non stona affatto, ha a sua volta una voce non facile da controllare, grande e massiccia, di colore piuttosto scuro e con acuti squillanti ma non semplici, ma è rimarchevole come sia in grado di cantare piani e pianissimi estremamente controllati e di grande effetto, a differenza di tanti tenori di scuola italiana, detentori di voci con acuti più facili, per i quali è apparentemente impossibile cantare senza gridare. Convincente a livello drammatico anche se vocalmente disomogenea la Minnie di Kristin Sampson, alle prese con una parte estremamente complessa; estremamente efficace ed espressiva nelle parti ironiche, un po’ sottotono in punti più propriamente drammatici.

Infine, una menzione d’onore va al Sonora di Giovanni Guagliardo per il bel timbro e l’espressività dimostrati.


 Immagine di copertina Caruso's caricature of the rehearsals for the world premiere of La fanciulla del West, ripresa liberamente da commons.wikimedia.org 

Ultima modifica il Venerdì, 09 Febbraio 2018 00:06
Joachim Langeneck

Joachim Langeneck, dottorando in biologia presso l'Università di Pisa, nasce a Torino il 29/11/1989. La sua ricerca si concentra principalmente sullo studio di processi evolutivi negli invertebrati marini, con sporadiche incursioni nell'ambito dell'etica della scienza, in particolare a livello divulgativo.

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