Il grande pubblico ha conosciuto Eco in primo luogo come scrittore di romanzi. I romanzi di Eco, tuttavia, non sono romanzi normali; ci si potrebbe persino spingere a dire che, almeno secondo le regole di buona scrittura generalmente accettate, sono piuttosto mal scritti. Gli argomenti sono assolutamente al di fuori degli interessi e delle competenze mainstream: “Il nome della rosa” parla di eresie medievali, “Baudolino” è un romanzo picaresco ambientato in un Medioevo onirico e metaforico. Il linguaggio è complicato e sovente criptico: sono convinto che “Il pendolo di Foucault” possa essere compreso appieno solo da un piemontese di buona cultura – io che sono piemontese solo a metà sono ben lontano da una completa comprensione. Eco non si perita neppure di infastidire il lettore in maniera estremamente trasparente: “Il cimitero di Praga” è un affascinante esempio di un libro volutamente (e singolarmente) brutto, “La misteriosa fiamma della regina Loana” ha qualcosa di troppo privato per sentirsi a proprio agio nel leggerlo. Eppure tutti i romanzi di Eco, nessuno escluso, hanno avuto un enorme successo – un successo che, secondo le statistiche e le previsioni sulla cultura dell’italiano medio, non avrebbero mai dovuto avere. Eco nei suoi romanzi non va incontro ai gusti e ai desideri del lettore, ma al contrario, lo aggredisce senza esclusione di colpi, lessicalmente, sintatticamente, esteticamente, gli sbatte in faccia una storia che non ha avuto l’occasione di studiare e in alcuni casi profondità psicologiche che ha paura di scandagliare. Il lettore, invece di mandarlo a spigare, accetta la sfida, e si diverte nel farsi malmenare. Eco stesso, d’altra parte, ha sottolineato che i suoi romanzi di maggior successo sono stati proprio quelli che, nello sfoggiare una cultura che il lettore non poteva avere, lo stimolavano intellettualmente e lo spingevano a mettersi in discussione e a superarsi.
Questo carattere di sfida intellettuale non è rimasto confinato ai romanzi, ma ha pervaso anche altri aspetti della figura pubblica di Umberto Eco. Il riconoscimento di una dignità letteraria e artistica ad ampie parti della cultura popolare (si pensi agli studi, ironici nella forma ma certamente non nella sostanza, sui Peanuts, Dylan Dog e i film di James Bond) rappresenta un unicum nella cultura italiana, generalmente arroccata sulla produzione letteraria e artistica di quaranta o cinquanta anni prima, o al massimo incline a riconoscere un qualche valore alle avanguardie, ma a patto che siano dichiaratamente e fieramente incomprensibili. Questa apertura mentale non rappresenta una singola eccentricità del personaggio, ma si collega ad un discorso più ampio, di matrice eminentemente comunista, di recupero e valorizzazione della cultura popolare, che parte dal dialetto (elemento centrale in “Baudolino”, ma soprattutto ne “Il pendolo di Foucault”) per giungere agli elementi che caratterizzano la cultura popolare contemporanea. A sua volta questa valorizzazione della cultura popolare è legata a doppio filo con la teorizzazione di una società in cui anche chi non fa parte dell’industria culturale o dell’accademia non sia relegato nella parte del mediocre culturale, ma abbia la possibilità di sviluppare i propri interessi anche al di là della propria professionalità. In quest’ottica Eco si è scagliato, spesso con ironica durezza, contro un sistema che da un lato relega la cultura ad ambiti molto ristretti della società, e dall’altro coltiva la mediocrità culturale della massa; è in quest’ottica che va letta, ad esempio, la critica ai social network che avrebbero “dato diritto di parola a legioni di imbecilli”. E poiché Eco, come molte persone singolarmente intelligenti e acculturate, era anche in grado di essere decisamente maligno, sapeva benissimo che le reazioni stizzite sui social network sarebbero state la più eclatante conferma di questa sua asserzione.
Di fronte ad una èlite culturale sostanzialmente soddisfatta dalla propria situazione minoritaria, di fronte a quasi cinquant’anni di scollamento della cultura ufficiale dalla cultura popolare, e di conseguente sistematica borghesizzazione della cultura di sinistra, un personaggio come Umberto Eco non poteva che essere scomodo. Scomodo per chi sostiene che l’Italia è un paese culturalmente morto, perché fino all’ultimo istante si è rifiutato di scendere dalle barricate ed ha continuato a contaminare culture; scomodo per chi sostiene che la cultura non sia interesse del popolo, dato che ogni suo romanzo dimostrava che così non era. Di quanto sia scomodo e snervante per uno scrittore rendersi conto che i romanzi di Umberto Eco, pur rifuggendo da qualsiasi regola e in molti casi anche dalla logica più elementare, continuino ad avere un enorme e meritatissimo successo, abbiamo già parlato.
Resta da chiederci, quindi, che cosa ci rimanga di Umberto Eco, al netto di sette romanzi che senza soluzione di continuità vanno dal sublime al pessimo, ma nessuno dei quali risulta negligibile; di un numero enorme di saggi che spaziano su una varietà incredibile di argomenti; di una quantità incalcolabile di citazioni da vecchio piemontese acido (molte delle quali spurie) da usare nelle conversazioni brillanti. La risposta è che ci resta un’impostazione culturale assolutamente attuale, minoritaria ma a mio vedere cruciale per risolvere tanto la questione culturale, quanto la questione sociale, che Eco, da marxista assolutamente eterodosso ma appassionato, riconosce come intrinsecamente collegate.