La lettura dell’intellettuale italiano medio corrisponde sostanzialmente ad una vignetta satirica di Maicol&Mirco: “L’uomo nasce di destra. Se studia diventa di sinistra”. Questa narrazione è a sua volta assolutamente congruente con l’antropologia cavalcata dalla destra – il continuo ribadire di star parlando per conto della “pancia” del paese, la pretesa di una maggior corrispondenza alla semplice realtà, in contrapposizione con le cervellotiche ricostruzioni e giustificazioni della sinistra. Affermare che le persone di destra sono di destra perché sono ignoranti, perché non leggono, perché non hanno cultura è assolutamente deleterio, ed è falso. Le persone di destra hanno una cultura: una cultura di destra.
Questo è evidente, a meno di non voler considerare soltanto una parte minima (e scarsamente usata anche da chi la possiede) della cultura umana, quella parte di cultura che si trova nei libri che i leghisti non leggono. Ma una cultura è prima di tutto un sistema di priorità esistenziali, di elementi che vanno a costruire l’identità collettiva in cui si riconosce l’individuo, e in una parte minima delle culture umane la centralità della parola scritta è un elemento fondante. Per un paese come l’Italia, che è uscito in tempi relativamente recenti da un analfabetismo di maggioranza, la pretesa di una centralità della lettura nell’identità collettiva è semplicemente assurda, e la critica degli intellettuali critici nei confronti di Borgonzoni non può che essere recepita dai suoi sostenitori nel peggiore dei modi.
Di questa incongruenza culturale si erano resi conto altri intellettuali di sinistra, a partire dal Secondo Dopoguerra, ed è in questa direzione che, prendendo le mosse soprattutto dagli studi antropologici di Ernesto De Martino, si è sviluppato un filone di ricerca e recupero della cultura popolare e dei suoi strumenti di espressione, una musica popolare non vincolata agli stilemi della musica colta e soprattutto le lingue e i dialetti con cui il popolo parlava di se stesso. Due esempi, fra tanti, la raccolta delle Fiabe Italiane da parte di Italo Calvino, e la sua aperta ispirazione stilistica e lessicale, evidente in particolare in Marcovaldo e nel Ciclo degli Antenati; oppure il monumentale e virtualmente indefinito lavoro del Nuovo Canzoniere Italiano, un progetto di etnomusicologia partecipata in cui il cantautore popolare da oggetto di uno studio asettico veniva trasformato in soggetto, nel recupero della propria cultura e della propria identità.
Mentre i ricercatori che lavoravano sulla cultura popolare avevano ben chiaro come l’alfabetizzazione fosse un elemento centrale nella liberazione del proletariato (“Stèteve attente e voi la pop'lazione/ 'mparateve a legge e scrive/ pe' difèndeve dai patrone”, per dirla con il cantautore materano Giuseppe Miriello) al tempo stesso dovevano prendere atto che i cantautori popolari cantavano “le storie ed i fatti del proletariato, che non sono le storie ed i fatti della borghesia” (e questa è Giovanna Marini, parlando di Miriello stesso) e che di questo cantare facevano parte le forme, la tradizione orale, il rito rurale, il dialetto, il vernacolo o, in alcuni casi, proprio il ricorso ad un’altra lingua.
Non è semplice definire quale sia stato il successo del Nuovo Canzoniere Italiano; è ancora possibile, parlando con vecchi militanti del PCI, incontrare un siciliano che conosce una canzone veneta, o un piemontese che conosce una canzone abruzzese; e se può fare un po’ ridere sentire un siciliano cantare in veneto sbagliando tutti gli accenti, era esattamente questo l’obiettivo del Nuovo Canzoniere Italiano: creare una rete di conoscenza e di condivisione delle culture popolari che permettesse ai proletari italiani di entrare in contatto, di unirsi, anche attraverso la cultura altrui, ma senza la necessità di rinnegare la propria. Per utilizzare una parola che adesso è di moda, ma che gli etnografi militanti non avrebbero mai usato, l’obiettivo era l’empowerment della classe proletaria.
Il progetto si è fermato al triste traguardo di curiosità etno- e storiografica principalmente perché a un certo punto, e abbastanza presto, la cultura popolare ha smesso di essere un elemento centrale per la sinistra, che nonostante singole voci discordi ha finito per allinearsi con i partiti di centro e di destra sulla cultura ufficiale, accademica, e sulle sue priorità. Mentre un certo numero di sperimentazioni artistiche soprattutto nella scena underground legata alla sinistra extraparlamentare (penso ai 99 Posse, o a Davide Van De Sfroos, giusto per citarne un paio) hanno tentato di recuperare queste forme, l’establishment vi si è drasticamente opposto, e la maggior parte degli intellettuali l’hanno seguito in maniera acritica. Di questo allineamento è conseguenza, ad esempio, la completa repressione dell’uso del dialetto fino dalla scuola primaria, che ha avuto come conseguenze una frattura a livello identitario, lo sviluppo di difficoltà comunicative all’interno delle stesse famiglie, e la perdita di uno storico strumento di politica e di resistenza – di una lingua che fosse sotto il controllo del popolo.
Bene, abbiamo visto tornare il dialetto proprio nella retorica micro-nazionalista dei partiti secessionisti, più o meno di estrema destra, insieme ad una serie di elementi di cultura popolare che la cultura italiana ufficiale aveva abbandonato trent’anni prima, bollandoli come inferiori, tribali e indegni di un popolo evoluto. Dovrebbe stupirci che coloro che avevano perso quelle parti della loro identità se ne siano riappropriati? Dovrebbe stupirci che la destra abbia utilizzato la centralità identitaria del dialetto per introdurre e consolidare in questa identità collettiva elementi xenofobi, razzisti, sessisti, e che abbia cavalcato l’onda della contrapposizione alla cultura ufficiale per farlo? Dovrebbe, infine, stupirci che, dopo una paziente e meticolosa opera di ricostruzione di un’identità popolare orgogliosamente anti-intellettuale e anti-cosmopolita, il popolo italiano abbia espresso un supporto a posizioni apertamente xenofobe, oscurantiste e complottiste?
Il risultato delle ultime elezioni non è la conseguenza di un’articolata truffa ai danni degli italiani, né la vittoria di partiti che hanno approfittato della loro ignoranza e dell’assenza di cultura, come sempre più spesso sentiamo dire; il che non toglie che molto probabilmente verrà il momento in cui anche i sostenitori della prima ora di Matteo Salvini si pentiranno amaramente di avergli concesso fiducia. La situazione è però molto più grave, ed è il risultato di uno scontro tra una cultura ufficiale e accademica, la cui arroganza e il cui disprezzo del popolo sono sempre più evidenti, e una cultura popolare che, abbandonata dalla sinistra, è stata pervasa dagli argomenti tipici delle destre più becere. E gli intellettuali benintenzionati, piuttosto che scagliarsi contro la “mancanza di cultura” del popolo, farebbero meglio a rimboccarsi le maniche e cercare di ritrovare un contatto con la cultura popolare.
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