Venerdì, 20 Luglio 2018 00:00

Di finali di calcio, immigrati africani, e chi non li vuole

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“Vive la France du métissage!”

Di finali di calcio, immigrati africani, e chi non li vuole

“Vive la France du métissage!” è lo status pubblicato da un mio conoscente di lavoro, francese di origini vietnamite (che per brevità chiameremo N.), subito dopo la vittoria della nazionale francese nei recenti mondiali di calcio.

Io, lo confesso, seguo il calcio molto poco; questi mondiali mi sono quindi arrivati filtrati quasi unicamente dalle esternazioni online di chi invece li ha seguiti con trasporto. Ma questo commento, insieme ai molti altri, di tono decisamente differente, che hanno viaggiato online prima e dopo la finale, e in generale durante le varie fasi del campionato, dimostrano qualcosa di molto preciso, e cioè che del calcio si può dare una lettura che ha un taglio distintamente politico, e che questa lettura è stata data con una certa intensità per questo mondiale, e particolarmente per la vittoria della nazionale francese. E che nel clima politico contemporaneo questa lettura è importante, ed è bene considerarla, e cercare di capire a quali conclusioni porta.

Métissage è parola bella, complicata, e di difficile traduzione, con molti livelli di lettura al di là di quello letterale. Non si tratta, semplicemente, della mescolanza biologica tra diversi gruppi etnici. Si tratta anche dell'incontro e contaminazione reciproca di diverse culture, lingue, filosofie, idee, la cui conclusione è una situazione in cui tutte le persone coinvolte abbracciano una cultura comune senza dover rinunciare alla propria. Métissage è quindi dialogo culturale al suo livello più alto; è integrazione vera, quella che si dà quando la persona “integrata”, venuta dall'esterno del gruppo originale, diventa parte di quel gruppo in tutto, ma senza essere costretta ad abbandonare completamente la propria cultura originale; al contrario, guidando il gruppo a conoscerla a sua volta – uscendone arricchito.

N. questo fenomeno lo conosce bene: suo padre è un rifugiato vietnamita, scappato dalle conseguenze della guerra negli anni '70, quando gli americani mancarono alla promessa di portare in salvo chi aveva cooperato con loro, lasciando quei collaboratori in pericolo di vita. Il padre di N. riuscì a scappare in Francia, Paese con cui il Vietnam aveva vecchi legami di natura coloniale, cavandosela in fondo meglio di molti suoi connazionali che riuscirono ad arrivare negli USA per scontrarsi con la loro cultura di segregazione razziale e con un clima inasprito da decenni di propaganda anti-giapponese prima, anti-vietnamita poi, che non facilitava certo l'accoglienza di chiunque avesse l'aspetto di un asiatico. Facendo due passi a Parigi ci si rende conto che il métissage dello status di N. è quello delle comunità vietnamite e cambogiane, di quelle nordafricane e centrafricane, di quelle caraibiche, e, cosa più importante di tutte, dell'intersezione di tutte queste tra di loro – e con quelle europee.

È da questo tessuto sociale che nasce la nazionale francese che ha vinto il mondiale. Molti giornalisti l'hanno descritta come una squadra composta in maniera preponderante da africani, ma si tratta di una descrizione inesatta. I giocatori francesi non sono oriundi importati con la scusa dello sport, sono giovani francesi che in Africa hanno l'origine delle proprie famiglie. Alcuni hanno un genitore francese e uno straniero. Altri hanno genitori entrambi immigrati, ma da due nazioni diverse (il giovanissimo Kylian Mbappé, per molti versi l'uomo simbolo di questa squadra, ha per esempio padre camerunense e madre algerina). Altri ancora vengono da famiglie di origine africana che sono francesi da più generazioni. A questi si aggiungono giocatori con radici europee diverse (come Antoine Griezmann, che ha origini portoghesi e tedesche), e altri che provengono da famiglie francesi praticamente da sempre.

Parlare semplicemente di immigrati africani è in questo caso limitante: in primo luogo perché questi atleti sono figli di un métissage, appunto, che va oltre l'immagine mentale di singole comunità immigrate percepite come un corpo estraneo in un Paese straniero, e in secondo luogo perché, cosa più importante di tutte, tutti loro sono prima di tutto francesi. C'è un peso lessicale molto grande nell'espressione, spesso usata per descrivere tanto questi atleti quanto i giovani che in Italia avrebbero beneficiato di una legge sullo ius soli, “immigrati di seconda generazione”: come se il fatto di essere nati e cresciuti in una nazione e nella sua cultura, di parlarne la lingua prima di ogni altra, di averne assorbito l'identità, non bastasse a far sì che queste persone abbiano riconosciute le proprie radici nel Paese che spesso è l'unico che conoscono davvero. Bisognerebbe, forse, piuttosto, parlare più correttamente di francesi e italiani di prima generazione.

È per questo motivo che è pericoloso dire, anche alla maniera benintenzionata di chi lo fa con l'intento di sottolineare i benefici di un percorso sano di accoglienza e integrazione, che i mondiali di calcio “sono stati vinti per la Francia dagli africani”. I mondiali sono stati vinti per la Francia dai francesi. Se questi francesi non hanno l'aspetto che nella nostra mente attribuiremmo a questa categoria nazionale, forse è la nostra immagine mentale che ha bisogno di essere messa in questione – ricordando, magari, che già Alexandre Dumas, poeta laureato e autore dei Tre Moschettieri, era un creolo di pelle nera.

L'accento andrebbe messo sul fatto che questa nazionale di calcio è espressione di una nazione multiculturale, o almeno di una nazione che avrebbe le risorse per esserlo: qualcosa di importante da ricordare in un periodo in cui in Europa si assiste a un inasprimento dei confini e delle barriere assolutamente sproporzionato rispetto all'entità reale del fenomeno migratorio, e in cui a rendersi responsabili di queste ostilità non sono solo gli autoctoni Salvini e Toninelli: lo stesso governo francese in carica avrebbe molto da rispondere. Viene da sperare che Macron e chi governa con lui possano guardare a questa vittoria sportiva come a un'occasione che gli ricordi quanto grande è la potenzialità di un Paese etnicamente e culturalmente aperto, rispetto a quella di uno che chiude e pattuglia le sue frontiere e guarda con ostilità alla cultura altrui.

Certamente la comparsa in campo di squadre che riflettono sempre più la composizione multietnica di molti dei grandi Stati europei ha suscitato dei malcontenti, e su questi malcontenti bisognerebbe riflettere, perché non si tratta solamente di questioni di calcio. Ancora una volta, i commenti di singole persone sui social media possono essere illuminanti. Abbiamo visto tifosi inglesi, accaniti sostenitori della Brexit, commentare dopo l'eliminazione che la loro nazionale multietnica era stata sconfitta da una nazionale croata tutta di bianchi, testimoniando la superiorità di quest'ultima etnia (sarebbe da domandarsi che cosa questi stessi tifosi abbiano pensato, allora, dopo la finale).

Abbiamo visto, con frequenza molto maggiore, un certo numero di italiani dichiarare che avrebbero tifato Croazia perché i suoi giocatori erano “veri europei”, non africani. Abbiamo assistito, insomma, a un pensare diffuso – in minor misura in nazioni come il Regno Unito in cui il razzismo rimane per il momento un fenomeno relativamente limitato; in misura assai maggiore in altre come l'Italia – che separava gli europei naturalmente bianchi dai neri che, in quanto neri, non potevano essere altro che africani, senza pensare in maniera critica al fatto che, ad esempio, la Croazia non ha ex colonie in Africa come le hanno l'Inghilterra e la Francia, e che l'uniformità etnica dei suoi giocatori riflette semplicemente minori flussi migratori.

Durante la sua recente visita nel Regno Unito, avvenuta con curioso tempismo negli stessi giorni delle fasi finali del mondiale di calcio, Donald Trump ha dichiarato che gli immigrati sono il vero nemico dei Paesi occidentali, perché “ne cambiano la cultura”. Quel che invece più accuratamente accade, nei contesti in cui l'accoglienza e il dialogo si verificano senza impedimento, è un passaggio da uno stato di cultura al singolare a uno di culture al plurale, che si parlano e coesistono e in una certa misura si compenetrano, ma senza cancellarsi a vicenda o farsi la guerra. Il Presidente americano trarrebbe forse beneficio da una conversazione con uno storico, che potrebbe spiegargli che del resto tutte le culture sono costantemente in flusso, con o senza influenze esterne, e che cambiare è la loro condizione naturale; e che il dialogo e lo scambio tra culture diverse esiste da quando esistono gli esseri umani, e storicamente ha sempre portato benefici a tutti coloro che vi hanno preso parte.

Il calcio, con il suo potere di attirare l'attenzione di un pubblico molto vasto che spesso si disinteressa di politica, può essere usato come un buon esempio per portare chi lo guarda e lo tifa a ragionare su questi argomenti. Non sarà una nazionale di calcio multietnica a cambiare la mentalità di chi crede ancora nella supremazia della razza bianca, ma forse potrà servire a far sì che almeno alcuni spettatori mettano in questione cose che avevano sempre ritenuto ovvie e su cui magari non si erano mai soffermati a ragionare – il fatto, per esempio, che un europeo sia necessariamente bianco.

La nazione ideale dipinta da Donald Trump e da chi, come lui, pensa che un Paese forte debba essere etnicamente e culturalmente uniforme e immutabile e quella presentata nel post entusiasta di N. sulla Francia del métissage non potrebbero essere più diverse tra loro. Sono opposti assoluti, l'una radicata completamente nel passato e fondata sul valore dell'uniformità, l'altra proiettata verso il futuro e innamorata della propria diversità interna. Se una partita di calcio e il suo risultato possono portare qualcuno a riconsiderare quale dei due modelli sia migliore, quale offra una prospettiva più ampia – se possono portare qualcuno a chiedersi chi abbia diritto di dirsi francese, o italiano, o inglese, o americano, e in quanta misura questo diritto sia in fondo vincolato al colore della pelle, o alle origini dei propri genitori – allora ben venga anche la discussione intorno a una partita di calcio.

 

Immagine ripresa liberamente da wikipedia.org

Ultima modifica il Mercoledì, 18 Luglio 2018 19:16
Chiara Strazzulla

Nata in Sicilia, ha studiato a Roma e Pisa e vive a Cardiff, in Galles, dove lavora a un dottorato in Storia Antica e insegna latino. Autrice di prosa e teatro, è pubblicata in Italia da Einaudi Editore.

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