Ad aprire i lavori è stato Marco Minardi, dell'Istituto Storico della Resistenza di Parma, il quale ha, per l'appunto, sottolineato la natura transizionale, che ha caratterizzato gli anni immediatamente postbellici, conducendo l'Italia ad una forma, inedita per il nostro Paese, di democrazia di massa, che - pur riprendendo elementi afferenti il vecchio regime liberale che precedette il fascismo (elementi anche “fisici”, ed è il caso di molti esponenti appartenenti a quel periodo e poi protagonisti della prima fase democratica) - portava con sé elementi nuovi di partecipazione.
La primissima fase postbellica ha avuto come protagonista principale l'Allied Military Government, che nel parmense ebbe vita breve (circa tre mesi), occupandosi prevalentemente di ordine pubblico (e qui in una situazione migliore rispetto ad altre province, grazie al lavoro di rastrellamento, svolto dai partigiani, di fascisti ancora in armi e soldati tedeschi sbandati) e di epurazione.
In seguito a questo primo periodo di assestamento, sarà il CLN provinciale ad assumere pieni poteri, realizzando, anche mediante l'unanimità delle proprie scelte, un importante esercizio di rifondazione democratica a livello locale e ponendo a capo delle principali istituzioni (Giacomo Ferrari in Prefettura e Giuseppe Isola al Comune) personaggi che già erano stati protagonisti nel periodo prefascista, realizzando, quindi, quella continuità, nella diversità di fase, di cui si scriveva poc'anzi, trovandosi ad affrontare, da subito, tre grandi problemi di ordine pratico: l'approvvigionamento della legna, quella del cibo e la creazione di alloggi.
Secondo ad intervenire il professor Alberto Preti, dell'Università di Bologna e membro dell'Istituto per la storia e le memorie del Novecento Parri Emilia-Romagna, il quale ha rimarcato l'eccezionalità del criterio adottato dal CLN dell'unanimità nelle decisioni. Criterio necessario alla risoluzione degli enormi problemi che l'organismo si trovò ad affrontare e segno del grande lavoro di innovazione democratica prodotta dalla nuova situazione, con la nascita di un'inedita dialettica interpartitica.
A seguire vi sono state le relazioni di alcuni giovani ricercatori. Primo a prendere la parola Simone Galli, il quale ha centrato il proprio intervento sulla confusione istituzionale creatasi a partire dal 1944 (con la nomina di Umberto a Luogotenente del Regno e con la nascita di diversi governi unitari di breve durata) e sull'importanza della scelta compiuta dal Partito Comunista di temporaneo accantonamento della questione istituzionale (quella che venne in seguito definita sloganisticamente come “svolta di Salerno”). Fatto, questo, che permise la formazione del primo governo Bonomi che proprio della questione istituzionale si occupò, stabilendo lo svolgimento di un referendum una volta liberato il Paese.
Sarà poi il secondo governo Bonomi, il primo febbraio 1945, a concedere l'elettorato attivo (quello passivo arriverà con il decreto convocante l'elezione della costituente) alle donne maggiorenni. Il ricercatore ha poi proseguito illustrando i vari governi succedutisi in quel convulso periodo ed il percorso che portò alla separazione, nella scelta della forma istituzionale, tra l'elezione di un'Assemblea Costituente ed il referendum (soluzione preferita dalla Democrazia Cristiana rispetto all'elezione di una costituente avente anche il potere di scegliere la forma istituzionale).
Ad intervenire poi è stata Alessandra Mastrodonato (“le parole contese della democrazia”, il titolo del suo contributo), la quale si è soffermata sul riattivarsi (o meglio, sul nascere), nel primo semestre del 1946, di un processo politico dialettico (che superava la fase di unanimismo ciellenista) che apriva, nella contrapposizione accesa, un nuovo spazio democratico. Con il fiorire di vecchi e nuovi strumenti di comunicazione (radio, giornali, manifesti murali, comizi) si assiste, a partire dalla campagna elettorale per le amministrative del capoluogo, ad una rottura dell'unanimità tra i partiti antifascisti e ad uno scontro caratterizzato anche da insulti.
“L'Eco del Lavoro”, organo della locale federazione comunista, sarà in prima linea in un tentativo di vera e propria appropriazione delle parole dell'antifascismo (contrapponendosi ad una D.C. accusata di essere continuatrice del ventennio) e di affermazione del Partito Comunista come forza pienamente nazionale (processo sancito ufficialmente con il famoso discorso napoletano di Togliatti “La politica di unità nazionale dei comunisti”) capace di rappresentare anche gli interessi delle “famiglie”, non appannaggio esclusivo, quindi, del partito democristiano. Scontro sulle parole, tra le due maggiori forza politiche, avviene anche sui concetti di “pane” e “pace”, e si focalizzerà sul tentativo di entrambe le forze di rappresentare le classi lavoratrici, indirizzando messaggi diretti proprio ad esse.
L'intervento successivo, di Teresa Malice, ha, invece, affrontato le elezioni svoltesi a Parma nel 1946, a partire dalle comunali (il 7 aprile), prima occasione di voto femminile. In 35 dei 47 comuni chiamati al voto in quella tornata, si assistette ad un prevalere delle sinistre (comunisti e socialisti).
Tale risultato riguardò anche il capoluogo, dove, con un'affluenza dell'ottanta per cento, i comunisti si affermarono come primo partito (19 consiglieri eletti), seguiti dai socialisti (15) e dalla Democrazia Cristiana (14). Questa affermazione determinò, il 16 aprile, la scelta, da parte dei direttivi socialcomunisti, del comunista Primo Savani come sindaco. Scelta che venne poi ratificata dal Consiglio il 20 aprile.
Anche le successive elezioni politiche videro prevalere (l'affluenza fu del 92%) i comunisti, mentre nella provincia saranno socialisti e democristiani a conquistare rispettivamente il primo ed il secondo posto. Tale disparità nel voto tra campagna e città si dovette, in larga misura, ad un conservatorismo tradizionale delle masse contadine che frenò, almeno in quel periodo ed a differenza di quanto avvenne a Modena e Reggio, l'ascesa del PCI nel territorio intorno il capoluogo. Tra i costituenti eletti dalla circoscrizione di Parma in quel 2 giugno, vi furono anche delle donne: tra esse la comunista Teresa Noce.
Terza relazione quella di Tommaso Ferrari, il quale ha trattato del bivio istituzionale monarchia/repubblica per come venne vissuto nella città ducale. In una campagna elettorale partita, di fatto, nell'aprile del 1946, con toni accesi ma senza incidenti di rilievo, ancora una volta sarà “L'Eco del Lavoro” ad essere protagonista della campagna stampa comunista volta a sottolineare l'antidemocraticità di Casa Savoia, accompagnato, nei toni e negli obiettivi, dall'organo di stampa della federazione del PSUP “L'Idea”.
Più complessa la posizione della D.C. locale, la quale si trovò con parte consistente del proprio elettorato (in città circa la metà, comunque molto meno che nella media nazionale) orientata verso la monarchia. Se pure, dunque, tra gli iscritti nazionalmente, il 70% di essi fosse per la repubblica, la posizione di larga parte dei propri elettori non poté non far assumere ai democristiani (ed al loro organo locale “Il Popolo di Parma”), un atteggiamento di sostegno alla repubblica dai toni pacati, ponendo maggiore attenzione al voto politico, quello per la Costituente, di modo da incanalare verso sé tanto elettori progressisti moderati quanto quelli conservatori.
La tornata del 2 giugno vide comunque, in città, la netta vittoria della repubblica (73%), mentre la monarchia riuscì a prevalere solamente in tre seggi (di aree del centro abitate da classi abbienti) mentre in altri cinque perse di misura (furono anche i seggi con la più alta percentuale per la D.C. e le forze conservatrici). I seggi dove lo scarto fu maggiore (con la monarchia sotto il 10%) furono anche quelli con il maggior numero di voti comunisti (intorno al 50%) e si concentrarono nel popolare Oltretorrente.
Quinto intervento quello di Chiara Nizzoli, dal titolo “Pane, lavoro e voto: le donne e la democrazia conquistata”, incentrato sul ruolo che ebbero le donne a Parma nella questione del diritto all'alimentazione, rendendosi protagoniste di una battaglia per l'abbassamento dei prezzi. In un contesto nel quale, l'organo locale della D.C. metteva in guardia circa il “rischio” che le donne lavorassero all'esterno delle mura domestiche, le donne parmigiane furono invece attive nella partecipazione democratica postbellica, ereditando quella rottura di schemi e pregiudizi da loro stesse operata durante la Guerra di Liberazione Nazionale.
La questione del lavoro, e del pane, le mobilitazioni ed i cortei, assunsero all'epoca considerazione maggiore della stessa questione del voto (oggi la percezione è ribaltata). Ad occuparsi dell'alfabetizzazione politica delle donne saranno, in quel periodo, l'Unione Donne Italiane (di matrice socialcomunista ma attiva, anche tramite la propria stampa, nel proposito di accogliere nelle proprie fila le donne cattoliche, soprattutto a ridosso del referendum) ed il Centro Italiano Femminile (di derivazione cattolica), entrambi protagonisti anche sul fronte sociale.
Sin da subito l'attivismo femminile portò ad un risultato politico concreto: l'elezione di due donne (delle quali una diventerà poi assessore) nel consiglio comunale cittadino. Un percorso faticoso e per nulla lineare, quello affrontato da queste pioniere della partecipazione femminile alla vita politica, che porterà, però, ad una irreversibile nuova vita e nuova libertà di movimento per le donne.
Ultima relazione quella di Domenico Vitali, il quale ha brevemente tracciato quale era il complesso panorama degli “esclusi” nel nuovo sistema democratico sorto all'indomani della Liberazione. Tra questi cittadini marginalizzati, od automarginalizzatisi, dalla vita politica, troviamo in primo luogo fascisti (che troveranno, insieme ai monarchi, terreno poco fertile nel dopoguerra locale) non pentiti ma anche, quasi immediatamente e specialmente a sinistra, dissidenti settari.
Nel PCI parmigiano - ma fenomeni simili avverranno anche altrove - si avrà la presenza di una piccola componente, capeggiata da Adriano Cavestro, di matrice marxista-leninista, allergica al “Partito nuovo” lanciato da Togliatti ed ostile al ruolo di mediazione e canalizzazione della rabbia sociale e dei fenomeni di dissenso popolare operata dal PCI.
Nel tirare le fila di una discussione, sicuramente parziale e necessitante di nuovi approfondimenti e ricerche, il professor Preti ha ricordato come il referendum, per legarsi al titolo del convegno, chiuda la fase di transizione del nostro Paese ad un nuovo modello politico-istituzionale e lo faccia in maniera sostanzialmente civile (gli incidenti saranno pochissimi e solo in alcune parti del Paese), chiudendo anche la porta alle tensioni nate dalle frustrazioni della “rivoluzione tradita” (sentimento presente in un pezzo minoritario del Partito Comunista) ed affermando, mediante uno strumento legale, il referendum, una soluzione “concordata” alla questione istituzionale.
La nuova partecipazione, iniziata con il referendum, ha, dunque, posto le basi per un'affezione di massa ad una comunità di partiti, rappresentando, mediante il voto diretto, il primo atto di un'adesione civile degli italiani al nuovo sistema.