Il libro di Elisabetta Grande, Guai ai poveri, in un numero limitato di pagine (172) condensa un’argomentazione logica disarmante e perturbante. Misura la breve distanza del lettore medio rispetto ad una condizione di indigenza, illustrando l’esito della legislazione statunitense degli ultimi decenni, che vede lavoratori a tempo pieno incapaci di sostenere in tranquillità l’affitto per sé e la propria famiglia.
L’autrice, docente di sistemi giuridici comparati presso l’Università Orientale del Piemonte, ha dato vita ad un volume agile e incalzante nella precisione con cui riduce all’essenziale un meccanismo perverso, dato ormai per ineluttabile nella quotidianità. È propedeutico divulgarne in modo sintetico i punti principali.
«Precise scelte di diritto internazionale, influenzate in particolare dagli Stati Uniti, stanno alla base della globalizzazione e della liberalizzazione dei mercati così come li conosciamo oggi». Si è scelta un’economia incentrata sul profitto di pochi, indifferente alle questioni ambientali, ai diritti umani e ad ogni principio di equità, portando i lavoratori dipendenti in una condizione di totale impotenza rispetto all’avversario di classe. Il terzo settore si è sostituito al manifatturiero senza concedere niente in termini di sindacalizzazione e stabilità lavorativa. Al contempo negli Stati Uniti (ma non solo) si sono attuate politiche fiscali opposte ad ogni principio di progressività, sottraendo sempre di più lo stato dal compito di proteggere socialmente i settori sociali più deboli.
Per usare una metafora si potrebbe pensare a quella del bimbo lanciato in acqua perché impari finalmente a galleggiare nel vasto mondo apertosi con la scoperta delle nuove tecnologie “globalizzanti”. Solo che il pargolo si ritrova per la prima volta in mezzo all’oceano, con una ciambella bucata e senza aver mai ricevuto una lezione di nuoto.
«Le norme giuridiche influenzano le relazioni sociali». Il diritto interviene anche nel favorire i processi di disgregazione sociale, rendendoci più soli e più vulnerabili. Il mito della persona che si realizza con le proprie forze è certamente egemone nella contemporaneità, se anche un dirigente nazionale a sinistra del Partito Democratico, durante un dibattito sui temi del lavoro, arriva a dichiarare, nel 2017, che per uscire dalla crisi occorre rimboccarsi le maniche, come i pionieri della Silicon Valley (esperienza personale). Scott Peebles, autista per chi si muove da San Francisco alla “terra promessa” californiana, costretto a vivere in auto perchè i 3.000 dollari al mese non bastano per gli affitti della zona, è quindi ovviamente colpevole della propria situazione di povertà. In effetti la legge lo considera un criminale, dato che obbliga a dormire in un’abitazione privata: speriamo che "si rimbocchi le maniche" prima di essere scoperto dalle forze dell’ordine in flagranza di reato!
Il capitalismo non ha pudore. Dopo aver creato il povero, anche per evitare di assumersi ogni responsabilità, ha pensato bene di criminalizzarlo, convincendoci di quanto l’alcol e la droga siano tra le cause principali del fenomeno dei senza fissa dimora, oltre alla loro congenita pigrizia. Per poi toglierlo di mezzo, si è pensato di fare del nullatenente un’occasione di profitto per i ricchi. Il project financing, anche da noi noto per la costruzione degli ospedali, come strumento per strutture in grado di ospitare “i reietti” della società. Metterli in carcere costa più che ospitarli in luoghi pubblici adeguati, ma nel secondo caso le tasse dei contribuenti sarebbero redistribuite per un servizio di comune utilità e non potrebbero finire nei comodi conti in banca delle aziende, conquistandosi magari il privilegio dell’esenzione fiscale, o ancora meglio della detrazione, se fossero investite per qualche opera “pia”.
Elisabetta Grande riesce a chiarire in modo cristallino non solo il progetto delineatosi a partire da metà degli anni ‘70, ma ci indica anche quella trappola mentale in cui troppo spesso cadiamo: considerare il povero, il carcerato, il diverso, come qualcosa di altro rispetto a noi. Voltare lo sguardo dall’altra parte. Lamentarsi dell’insistenza con cui ci viene chiesta l’elemosina. Gioire per le transenne alla stazione fiorentina di Santa Maria Novella, che finalmente ci permetteranno di prendere il (caro) treno ad alta velocità senza essere infastiditi. Sbuffare per il cattivo odore del rumoroso passeggero sull’autobus, che ha l’indecenza di esistere anche alla fine di una faticosa giornata di lavoro, quando "l’altro" probabilmente è stato tutto il giorno a "bighellonare" e raccogliere la sciocca generosità di altri lavoratori o lavoratrici.
L’autrice lascia emergere gli aspetti umani della “guerra ai poveri” in pochi efficaci passaggi, affidando l’elemento perturbante all’asciutta ricostruzione della realtà.
Perchè leggendo delle scelte portate avanti negli anni novanta in modo trasversale, con un ruolo strategico dei governi di centrosinistra, a chi è più giovane verrebbe da chiedere, a troppe persone, dove erano e dove stavano guardando mentre veniva affermandosi un feroce e inumano sistema di sfruttamento.
In Italia si sentono gli echi di un coro cantato al ritmo di manganelli sugli scudi: “onestà, onestà”. Tra ruspe e stelle, si spera che emerga una sinistra in grado di fare in modo che quel suono si allontani, lasciandosi soffocare dal silenzio della solidarietà, intesa come costruzione di una società più giusta.
Correlato a questo libro consigliamo anche il documentario 13th, di cui abbiamo scritto qui, per quanto riguarda la tematica della discriminazione razziale all'interno della criminalizzazione dei poveri. Segnaliamo anche l'intervista a Giovanni Russo Spena, qui, realizzata partendo proprio da Guai ai poveri.
Foto di copertina liberamente presa dalla pagina Facebook delle Edizioni Gruppo Abele