Domenica, 15 Dicembre 2013 00:00

Fuochi oltre il ponte

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Le storiche barricate antifasciste del '22, il respingimento di Italo Balbo (che come recita una popolare scritta sul lungoparma ha passato l'Atlantico ma non il torrente che divide “Parma vecchia” da “Parma nuova”) sono una pagina nota a molti, magari spesso per sommi capi, ma comunque uno degli elementi che caratterizzano la storia della città emiliana nell'immaginario collettivo.
Ciò che a quasi tutti è invece poco noto è il “prima”: la lunga storia di conflitti sociali, tumulti annonari, rivolte e scioperi che hanno coinvolto per decenni la parte più povera dei parmigiani.
Il libro “Fuochi oltre il ponte. Rivolte e conflitti sociali a Parma (1868-1915)” (DeriveApprodi, 2013, p. 340, € 20,00) introduce il lettore alla conoscenza di un quartiere complesso, di una situazione sociale spesso schiacciata nel racconto che se ne fa oggi da innumerevoli semplificazioni. Per capire meglio questa affascinante storia – oltre a consigliarvi la lettura del libro – abbiamo intervistato l'autrice Margherita Becchetti.

 

1) Le barricate antifasciste del ’22 rappresentano ancora oggi una memoria viva in Parma, quasi un pezzo dell'immagine esterna di questa città insieme a Verdi ed alle sue specialità gastronomiche. La sua ricerca si concentra invece sul periodo precedente (dall'Unità d'Italia ai primi anni del '900), qual è il legame esistente tra i fatti del '22 ed il ribellismo postunitario e qual era la caratterizzazione ideale di quest'ultimo?

La mia ricerca è partita dalle Barricate del 1922 e dal mito che di esse in città è sedimentato. Ma presto ho capito che per comprenderle dovevo scavalcarle e guardare dietro di loro, capire quale fosse la città che le aveva erette e a quali forme di protesta e di conflitto sociale i suoi abitanti fossero abituati.
Così sono andata a ritroso e ho messo in fila e ricostruito i principali episodi di rivolta di cui l’Oltretorrente è stato teatro dall’unità d’Italia alla Grande guerra, soffermandomi, di volta in volta, sui protagonisti dei disordini, sulle dinamiche di piazza, sugli esiti, sui rapporti con altri soggetti sociali della città e, in taluni casi, sulle reazioni che le ribellioni hanno suscitato nella società borghese e nelle istituzioni dello Stato liberale.
Mi interessava capire come, nei cinquant’anni che ho studiato, i caratteri del conflitto sociale si siano modificati, intrecciandosi con le nuove idee di riscatto sociale che in quegli anni cominciavano a circolare negli ambienti popolari e con le nuove forme di organizzazione politica e sindacale di una società che si avviava a divenire di massa. Mi interessava capire se si potessero individuare dei repertori della protesta – che, secondo Charles Tilly e i suoi studi sull’Europa moderna, ogni popolazione possiede –, una sorta di canovaccio della commedia dell’arte, «un repertorio limitato di azioni collettive» messo in scena ogni volta, adattato agli scopi e agli obiettivi del momento. E così, ad esempio, ho scoperto che difendere e barricare il quartiere dalle minacce percepite come esterne ad esso non fu certo un’improvvisazione di Picelli e degli arditi del popolo, ma era una pratica che da lungo tempo il quartiere metteva in campo quando arrivavano i soldati per reprimere disordini o proteste popolari. Non erano ancora le trincee immortalate da Armando Amoretti nel 1922 – e che gli arditi avevano imparato a fare durante la Grande guerra – ma più rudimentali sbarramenti fatti con carri e fili elettrici intrecciati per impedire il passaggio dei cavalli; non vi stavano ancora dietro uomini con pistole e moschetti ma semplici popolani armati di sassi.
Le forme erano insomma diverse ma l’idea era quella: difendere il quartiere significava difendere la propria gente da un nemico esterno alla comunità, prima i rappresentanti in divisa dello stato liberale borghese e poi gli uomini in camicia nera di Benito Mussolini.

2) Nel 1915 l'interventismo del sindacalismo rivoluzionario (accompagnato anche da quello di alcuni esponenti di derivazione mazziniana oltreché di socialisti riformisti come Berenini) rispetto al Primo conflitto mondiale sembra segnare uno spartiacque anche in oltretorrente tra culture politiche che si trovarono comunque fianco a fianco nella complessa dinamica delle rivolte...

Inizialmente l’interventismo di Alceste De Ambris fu uno shock anche per l’Oltretorrente. Quando nell’agosto del 1914 il sindacalista cominciò a parlare della guerra come di una «dura necessità», come di un passaggio inevitabile per giungere alla rivoluzione, furono in molti a trovarsi smarriti. Seguirono giorni di discussione, De Ambris a lungo dovette spiegare, chiarire, definire che, per lui, lo scopo della guerra non era la patriottica estensione dei confini nazionali e nemmeno l’irredente volontà di rendere italiane Trento e Trieste, quanto l’abbattimento degli “imperi centrali” – e, soprattutto, dell’imperialismo e del militarismo tedesco – senza il quale nessuna rivoluzione sarebbe mai stata possibile per le classi proletarie europee.
La guerra, dunque, come premessa per la rivoluzione. E, alla fine, su questa idea De Ambris seppe trascinare con sé buona parte dell’Oltretorrente che si trovò dunque su posizioni fortemente distanti dal resto del mondo popolare, in cui continuavano a prevalere sentimenti neutralisti. Ma, a Parma, questi erano confinati per lo più in provincia, tra le organizzazioni contadine che facevano capo al socialismo riformista e che avevano epicentro nella Bassa di là dal Taro di Giovanni Faraboli. Queste distanze sulla guerra si erano poi polarizzate anche in nuove organizzazioni: i neutralisti si erano riuniti in un Comitato contro la guerra – animato da anarchici e socialisti come Faraboli e Ferdinando Bernini e attivo soprattutto in provincia –; l’interventismo rivoluzionario si era raccolto nel Fascio rivoluzionario innterventista, guidato per lo più da uomini della Camera del Lavoro.
Nei lunghi mesi precedenti l’entrata in guerra del maggio 1915 ci furono molte occasioni di scontro, anche fisico, tra socialisti neutralisti e sindacalisti interventisti, i cui rapporti non erano mai stati buoni per lo meno dallo sciopero del 1908, e che ora, di fronte alla guerra, si facevano incandescenti. E così gran parte dell’Oltretorrente popolare fu presente al culmine della mobilitazione interventista durante le “radiose” giornate del maggio 1915, quando in gran parte d’Italia migliaia di uomini e donne scesero in piazza a chiedere la guerra. I cortei che partivano dalla piazza, e attraversavano l’intera città, radunavano settori sociali molto diversi, dai borghesi nazionalisti che intonavano la Marcia Reale alla piccola borghesia repubblicana e irredentista con l’Inno di Oberdan e l’Inno di Mameli, fino ai lavoratori dei borghi che sfilavano al suon dell’Inno di Garibaldi. L’Oltretorrente fu presente in quelle giornate, anche perché il loro carattere antigiolittiano e sovversivo ben si sposava con quel suo temperamento insofferente verso l’autorità, con la sua cultura portata al vitalismo, all’intervento, all’insofferenza verso ogni neutralità. Molti suoi abitanti affollarono le strade, parteciparono ai comizi e gli stessi borghi accolsero elettrizzati quei cortei multicolori che, più volte, attraversarono i ponti, trovando di là dall’acqua un quartiere festoso. Allo scoppio della guerra, poi, in molti dai borghi partirono volontari, per porre le premesse di quella che sarebbe dovuta essere la loro rivoluzione.

3) La situazione socio-economica dell'Oltretorrente anche nei decenni successivi alla fine del Ducato faceva permanere grandi masse nell'abbrutimento morale, nell'analfabetismo e nella miseria. Quale volto aveva lo Stato per queste masse di diseredati?

Il rapporto tra lo Stato liberale e le classi popolari dopo l’Unità d’Italia non era certamente fatto di intesa e sintonia. Ovunque la borghesia italiana che guidava il paese era lontanissima rispetto agli ambienti popolari, erano due mondi opposti, distanti per cultura, tradizioni, condizioni di vita, relazioni sociali, abitudini, visioni del mondo. E così erano l’Oltretorrente e Parma nuova: due città nella stessa città, unite ma al contempo divise dai ponti.
Lo Stato liberale era espressione della borghesia italiana e dunque non poteva che risultare estraneo – se non nemico – agli usi e ai costumi popolari. E questa percezione di estraneità si mostrava nell’insofferenza che, in quartiere, era generalmente nutrita verso gli uomini in divisa, le forze di pubblica sicurezza, difensori di un ordine e di una legge percepita non come propria. Bastava che guardie, carabinieri o agenti si azzardassero a tentare di mettere un po’ del loro ordine nei borghi – magari anche solo fermando qualche ubriaco molesto – per scatenare insulti, risse e, non di rado, furibondi assalti alle caserme. Ogni loro tentativo di arresto era affrontato con compattezza dagli abitanti – uomini o donne che fossero – che si lanciavano nella mischia all’urlo di «molla, molla» e tentavano di strappare il compagno dalle strette di quel nemico in divisa.
Molti episodi accaduti nel corso degli anni – grandi e piccoli – mostrano questa attitudine dei borghi a difendersi dalla forza pubblica; episodi più o meno simili tra loro, dai quali emerge quanto la rete di solidarietà diffusa tra i popolani – anche precedente alla formazione di una vera e propria coscienza di classe – innescasse, di fronte alla pubblica autorità, una sorta di riflesso spontaneo, capace di assorbire in un istante la conflittualità interna al quartiere e di rivolgergliela contro. Del resto, lo Stato non si curava granché, in quegli anni, di mostrare magnanimità e comprensione per la fatica del vivere degli ambienti popolari. Basta pensare a quante volte questioni di ordine sociale furono affrontate come questioni di ordine pubblico, basta pensare a quante volte l’esercito ha sparato sui popolani che chiedevano pane o lavoro, basta pensare alle misure repressive che, ogni volta, le varie prefetture studiavano per far fronte alle proteste popolari… La distanza tra quei due mondi potrebbe essere anche tutta qua…

4) L'Oltretorrente oggi è profondamente – e naturalmente – cambiato rispetto a quei tormentati anni. Cosa ritiene sia rimasto oggi di quella storia?

Di quella storia non rimane granché, perché la storia è sempre trasformazione. Se non pensassimo così non potremmo nemmeno pensare un futuro in termini diversi dal presente in cui viviamo. E io credo nella trasformazione.
Rimangono però forse dei segni, segni che non bastano a definire l’identità di un posto ma che pur rappresentano una traccia, in cui l’affiorare delle rovine del passato e i frammenti di presente che vi si mischiano fanno dell’Oltretorrente un luogo diverso dal resto della città. Certo, a vederlo così, passeggiando, l’Oltretorrente di oggi sembra dir poco del suo passato ma forse, guardando a fondo, ci si può accorgere di quanto, «come le linee di una mano», lo contenga ancora in sé. Parma nuova e Parma vecchia, certo, non sono più due città che si guardano dalle sponde del fiume ma di là dall’acqua l’aria è ancora diversa, gli studenti ci passano più volentieri il tempo, gli stranieri vi trovano casa, gli asili e le scuole sono rallegrati da bambini di tutti i colori che parlano un italiano perfetto, le piazze hanno ancora panchine su cui vecchi e migranti possono incontrarsi. Qua e là spunta un meccanico di biciclette, una macelleria araba, un bazar africano, un salone di cartomante, un circolo di anziani con le foto di Picelli appese al muro, una bacheca murale dove poter leggere «l’Unità». Cosa sia l’Oltretorrente oggi me lo chiedo anch’io, sempre. Anche perché in quest’epoca di crisi è facile provare nostalgia.
Il passato sembra più generoso di virtù ed emozioni capaci di stimolare l’audacia della sovversione e del cambiamento. La storia ama raccontare di gesta ardimentose; su quelle, addirittura, costruisce le sue cesure. E noi su quelle ci formiamo un’idea di chi ci ha preceduto, custodendo identità e miti di cui vorremmo sentirci eredi, per scavalcare questo nulla che circonda l’agire umano dopo il collasso di ideologie e di prospettive finalistiche. E allora ho pensato che per dire cosa sia l’Oltretorrente serva tempo, serva il passo lento dello storico a ritrovare significati, a rintracciare l’origine del mito, a decostruirlo. Solo così, forse, tutto torna ad essere umano, le rivolte, Picelli, le Barricate, gli arditi…
E se tutto diventa umano, tutto può essere ripensato.

Ultima modifica il Domenica, 15 Dicembre 2013 00:16
Roberto Capizzi

Nato in Sicilia, emiliano d'adozione, ligure per caso. Ha collaborato con gctoscana.eu occupandosi di Esteri.

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