Giornalismo di analisi, ergo terrorismo neoliberista 

Davvero impressionante l’articolo di prima pagina “L’analisi – Il confine dello 0,9%” su la Repubblica di pochi giorni fa a firma di Claudio Tito. Riassumo: il fatto che Lega e Movimento 5 Stelle si rifacciano pubblicamente alla possibilità di portare il deficit italiano al 3% (la Lega a ciò aggiunge che, se ritenuto necessario, si potrebbe anche andare oltre), allo scopo di realizzare determinati obiettivi di tipo economico e sociale automaticamente renderebbe queste forze politiche “irresponsabili”.

Pubblicato in Politica
Martedì, 27 Febbraio 2018 00:00

Ombre della sinistra europea in Italia

Ombre della sinistra europea in Italia

Mentre si avvicina il voto del 4 marzo, Daniela Preziosi, su il manifesto ha scritto un articolo da titolo «Le figurine della sinistra europea nella sfida italiana». Le elezioni nazionali non hanno chiaramente al centro la dimensione continentale, ma più che in passato c'è un certo imbarazzo - trasversale - a rapportarsi con i vicini dell'Unione (Europea!).

Le sinistre italiane si confermano contenitore di grande confusione. La visita di Grasso a Corbyn, l'iniziativa di Fratoianni con una esponente della Linke, le relazioni di Potere al Popolo con il GUE appaiono come timidi echi di pratiche del recente passato.


Proviamo a concentrare le nostre dieci mani a partire da due notizie di attualità.

A fine gennaio Mélenchon ha chiesto l'esclusione di Syriza dal Partito della sinistra europea, con una dura replica di Tsipars ("noi non siamo una sinistra sola a parole"). L'allarme frattura pare essere rientrato ma certo la tensione rimane e appaiono lontani i tempi dell'asse greco-francese in chiave solidaristica.

Il PSE non se la passa meglio. Schulz pareva dover rafforzare il vento di Sanders e Corbyn, con una campagna di rilancio della SPD (eletto come candidato con il 100% dei voti del partito) incentrata sul rifiuto delle grandi coalizioni. Ha dovuto fare passi indietro su numerose questioni di principio e infine ritirarsi anche dal ruolo concordato con la CDU di Ministro degli Esteri. Le sue dimissioni dalla presidenza del partito ricordano più la disfatta di Hollande che il successo narrativo del Labour.

Di tramonto delle sinistre europee abbiamo sempre scritto sul Becco, queste Dieci Mani provano ad aggiornare la riflessione.


Niccolò Bassanello

Il nesso tra la concezione occidentale del mutamento sociale radicale (quello che ora chiameremmo “rivoluzione”) e l’escatologia cristiana non è un mistero per nessuno: storicamente le troviamo fuse in più di un’occasione.

Dall’istante in cui si realizza il fatto della venuta del Regno nulla nel mondo è più ciò che era, tutto è santificato o condannato per sempre. Similmente, si pensa che, conquistato “il potere”, che purtroppo è perlopiù concepito come il controllo dell’apparato statale, una realtà umana come un leader o un partito possa fare tabula rasa del vecchio stato di cose e instaurarne uno nuovo radicalmente diverso. Se ciò non accade è per il tradimento (vecchio refrain stalinista) o per la pusillanimità di chi di dovere, oppure per la malvagità del vecchio mondo che non accetta di perire.

È facile comprendere come una simile concezione abnorme dell’essere umano non possa non essere frustrata dalla realtà. È infatti un’ovvietà assoluta che la storia vada avanti per processi, e non per salti repentini, così come dovrebbe essere un’ovvietà che qualunque mutamento sociale ed istituzionale, proprio in quanto è oggetto della storia umana, tenda ad essere marcatamente path-dependent: fatti e decisioni del passato vincolano il presente, riducendo il campo del fattibile.

Ciò non significa che il mutamento, anche radicale, di istituzioni, modelli economici e costrutti socioculturali sia da escludere; significa però che avviare un processo storico di lunghissimo periodo è cruciale, che nel breve e medio periodo è d’uopo darsi obiettivi realistici e non investire gli strumenti del potere di una mistica che non gli appartiene.

Lo stato sociale non è un’invenzione del Messia Roosevelt o del Messia Attlee, è un punto in un processo storico iniziato quasi un secolo prima in Prussia, a sua volta parte del più ampio processo storico del capitalismo; così come la controrivoluzione thatcherian-reaganiana di fine anni ‘70-inizio anni ‘80 che ha profondamente modificato quel sistema ha radici nell’Europa dilaniata dalla Seconda guerra mondiale, per esempio. Nell’immediato dopoguerra, nei dipartimenti di economia delle università più prestigiose del Vecchio e del Nuovo mondo gli studiosi istituzionalisti o keynesiani erano l’assoluta maggioranza; oggi ciò che non si basa su una matematizzazione estrema ed esasperata e/o sulla fede nel pallido mainstream propinato dai 2-3 manuali di macroeconomia “ufficiali” o nelle teorie neomonetariste rischia di passare per pseudoscienza: l’importanza assoluta di conquistare e tenere casematte. 

Ultimo a fare le spese della confusione tra storia ed escatologia il premier greco Tsipras. Su SYRIZA la sinistra europea ha investito un enorme carico emotivo, ma purtroppo poche energie intellettuali. L’errore di Tsipras (che comunque nei sondaggi viaggia intorno al 20% stabile, perdendo non contro forze antiausterity ma contro la destra di ND) non sta in qualche fantomatico “tradimento”, vale a dire nell’aver voluto governare una situazione reale, già gravemente compromessa e condizionata da decenni di scelte sbagliate che non si possono realisticamente cancellare con un colpo di spugna, ma nell’aver pensato che bastasse vincere, che il potere potesse destrutturare e ristrutturare a piacimento la realtà, che il vecchio contesto si sarebbe arreso di fronte al nuovo che viene.

Un errore replicato da tutti coloro che, in giro per l’Europa, continuano a sostenerlo o al contrario lo denigrano, come Mélenchon. “Fare qualcosa” e “cambiamo tutto” continuano ad alimentare investimenti emotivi ed entusiasmi, mentre si trascura completamente la preparazione necessaria per quando il momento di fare qualcosa arriverà davvero e si vive di belle idee astratte e belle intenzioni. Al contrario di molti, ho sempre preso molto seriamente (e in parte condivido) l’idea che al governo non ci si debba andare, che sia meglio costruire contropotere che prendere il potere.

Se si decide altrimenti, però, al potere è utile arrivarci solo alla fine di un processo consapevole.


Alex Marsaglia

Il tradimento verso il popolo greco del governo Syriza-Anel deve aver screditato ciò che resta della sinistra europea se lo stesso Melenchon è arrivato al punto di chiedere l'espulsione di Syriza dal Partito della Sinistra Europea.

La risposta di Syriza sembra un bieco tentativo di arrampicarsi sugli specchi accusando di antidemocraticità e di irresponsabilità chi si è quantomeno indignato per la macelleria sociale del governo Tsipras.

L'unica sensata accusa che si sarebbe potuta muovere a chi ora punta l'indice contro Syriza è cosa avrebbero fatto al loro posto, dovendo mantenere l'appartenenza all'Unione Europa.

Con quale linearità e coerenza si sarebbe potuto mantenere l'ideale di un'altra Europa in un contesto dove è risultato evidente che di Europa ne esiste una sola e non è certamente disposta a farsi riformare da qualsiasi movimento di sinistra alternativa continentale?

Insomma, Melenchon pensa di avere un Piano B e va in giro con Varoufakis a spiegarcelo da quel maledetto 5 luglio 2015. L'unico pulpito da cui proviene la predica è basato su quello striminzito Piano B che pensa di donarci un'altra Europa dal volto umano.

L'unica base di una politica economica neokeynesiana per formare un'altra UE è basata su politiche di redistribuzione della ricchezza con creazione di opportunità di lavoro dignitoso e transizione ecologica in opposizione al modello neoliberista su cui è storicamente fondata l'UE.

La sola partecipazione democratica dovrebbe magicamente donarci questa nuova prospettiva idilliaca, anche se abbiamo già visto il totale fallimento di questo percorso.

Le perplessità non mancano neanche verso Melenchon e la sua voglia di rilanciare la Sinistra Europea all'interno delle istituzioni ordoliberali.


Dmitrij Palagi

La nascita del GUE e del Partito della Sinistra Europea sono una diretta responsabilità della cultura politica italiana. Abbiamo già avuto modo di sottolinearlo sul Becco già qualche anno fa ormai, ma alcuni nodi di fondo dei problemi europei rimangono non affrontati. Certo le analisi devono essere aggiornate ma l'atteggiamento generale pare essere ossessivamente "cerchiamo qualcosa che funzioni per aggrapparci da una zattera all'altra".

Sabina Guzzanti non è una politica, ma il suo documentario Viva Zapatero!, collegato al recente sostengo per Potere al Popolo (con una convergenza dell'ex socialista Mélenchon) potrebbe interrogarci su quali sono i percorsi di maturazione delle varie narrazioni, spesso estemporanee e prive di processi stratificati, che dovrebbero portare a robuste sedimentazioni organizzative.

Il livello delle sinistre sul piano continentale è un disastro. È stato Renzi a portare il Partito Democratico nel PSE, mentre questa famiglia continua a registrare numerosi insuccessi, con l'informazione schierata a sostenere il fenomeno Corbyn, il cui profilo non entusiasma i dirigenti dei vari partiti europei.

L'isolamento della Grecia ben si conferma con l'attenzione di Tsipras a ciò che avviene in Germania (con tanto di invito a creare un nuovo governo di grande coalizione, scavalcando la linea ufficiale di Schulz da destra).

La replica di Syriza ("noi non siamo di sinistra solo a parole") non è che una ferita già aperta in Italia, se uno ripensa al dibattito interno a Rifondazione per il sostegno all'Unione (intesa come coalizione del "secondo Prodi").

Quale è la cultura di governo della sinistra socialista? E quale quella della sinistra di alternativa?

C'è qualcosa di male ad ammettere di non avere ancora elaborato una complessiva capacità di governare ma voler rappresentare la difesa degli interessi di chi subisce questo sistema? Il potere e il governo sono categorie collegate ma distinte, far finta che esista un obbligo storico perché continuino a esistere "destre" e "sinistre" non farà che rafforzare i sostenitori del superamento di queste categorie.

Per chi è convinto della necessità di una sinistra di classe si tratta di non rassegnarsi ai tempi brevi, alla tattica e allo scoraggiamento, pur insistendo nella ricerca di equilibrio per agire nel presente.


Jacopo Vannucchi

La scorsa settimana è stato diffuso il primo sondaggio che evidenzia in Germania un sorpasso di AfD sulla SPD (16% contro 15,5%). Molti sono stati così impegnati ad allarmarsi da non prendersi la briga di ricercare quel sondaggio e consultarlo nella sua interezza. Se lo avessero fatto, avrebbero scoperto che la somma di SPD, Linke (11%) e Grünen (13%) porta la sinistra complessivamente al 39,5: un vantaggio di fatto abissale su AfD e quasi appaiato alla coppia CDU-CSU (32) e FDP (9). Inoltre, la somma di queste somme porta a un oltre 80% per le forze politiche democratiche.

La crisi della SPD è vecchia di molti anni, ma non è stato possibile sinora affrontarla per la doppia sordità delle sue due anime. La dirigenza e i giovani movimentisti, infatti, condividono la medesima radicalità anticomunista che impedisce l’unità delle sinistre e, sebbene si dichiarino antifascisti, continuano ancora ad accettare, a ventisette anni dall’unificazione, l’assenza di una Costituzione tedesca e la permanenza della provvisoria “Legge fondamentale” creata nel 1949 per la zona occidentale sotto tutela anglo-franco-americana. La disconnessione con la realtà rasenta a tratti l’inverosimile: nei sondaggi Schulz aveva inizialmente agguantato la parità con la CDU, ma che il suo faccione rassicurante non bastasse era diventato noto fin dalle prime occasioni di voto reale (e non demoscopico) per i parlamenti regionali a maggio 2017. Nonostante questo, la SPD ha continuato su una linea politica schizofrenica, che rifiutava la Grosse Koalition e neppure considerava una politica unitaria a sinistra.

Questa linea suicida è la medesima battuta anche in Francia da Mélenchon e in Italia da alcune sparute forze di sinistra. Il primo, invece di accettare la sfida di Macron sulla «societé du travail», si è limitato a contestarlo sulla memoria storica negando le responsabilità della Francia nei rastrellamenti e deportazioni degli ebrei. In Italia i paradossi sono esemplificati da Fratoianni che invoca il fronte democratico per battere il fascismo (quindi per questo se ne sta fuori dal centrosinistra e inveisce contro il fronte democratico Pd-Forza Italia) e da Rizzo che invece di lottare per un governo comunista europeo vuol far precipitare l’Italia nel baratro dell’isolamento (per la serie: amo così tanto Serbia e Transnistria che voglio essere come loro).

Nessuno, in tutto questo, si è fermato a riflettere sulla svolta politica post-elettorale di Corbyn, che ha riconosciuto la necessità per i partiti socialisti di essere al centro della società (leggasi: Partito della Nazione). Grasso era troppo occupato a tradurre dall’inglese lo slogan elettorale “For the many, not the few” per documentarsi su cosa è successo dopo.


Alessandro Zabban

La sinistra, almeno in Occidente, sta facendo di tutto per rendere il celebre ammonimento reazionario di Margaret Thatcher, "There is no Alternative" (non c'è alternativa al neoliberismo), una vera e propria profezia.

In crisi di egemonia e di legittimità, la sinistra europea lavora duramente per ottenere un minimo di visibilità, di credibilità e di consenso in un campo dominato dal realismo capitalista. Le poche energie vengono necessariamente mobilitate nel breve periodo: si guarda alle prossime elezioni, ci si organizza come si può per provare a fermare la prossima legge che precarizza (ulteriormente) il mercato del lavoro, e così via. La debolezza cronica della sinistra ha così necessariamente spinto in secondo piano il fondamentale problema del "che fare?" una volta vinte le elezioni e preso il potere politico. 

Il neoliberismo è un modo di governare l'economia e la società che ha una sua logica intrinseca.

Esistono ovviamente delle varianti nazionali e geopolitiche nella sua governance ma queste condividono tutte una serie di ricette e di modi di organizzare la realtà specifici.

Nell'apparante caos dell'ordine globalizzato e post-westfaliano attuale, il neoliberismo segue una sua cinica ma coerente logica.

Forse ha torto Foucault quando afferma che al socialismo è sempre mancata una sua specifica governamentalità ma è evidente che in questa fase storica, manca un modo coerente e complessivo di pensare l'alternativa politica. Come vogliamo che sia l'economia? Come deve essere la società? Come vogliamo che sia l'individuo all'interno di questa società?

Il neoliberismo sa benissimo ciò che vuole mentre mi pare che manchi una visione d'insieme a sinistra sulla società del futuro da costruire (non si è nemmeno d'accordo su come deve essere pensata la coppia sovranità/globalizzazione).

In questa fase storica l'ammonimento di Foucault va dunque preso sul serio: manca un progetto politico reale e ci si appoggia su governamentalità già esistenti: forze come Podemos, Linke, La France Insoumise sembra che facciano molta fatica a proporre qualcosa di più che non sia la solita ricetta socialdemocratica e keynesiana.

Ma che succede quando queste ricette sono sostanzialmente inapplicabili? Vincoli di bilancio, creditori internazionali, trattati di libero scambio, accordi europei non rendono quasi mai possibile mettere in atto reali misure redistributive (se stai all'interno delle regole del gioco la coperta è sempre cortissima).

Quello che è accaduto a Syriza in Grecia è paradigmatico. Una volta vinte le elezioni, tutte le promesse elettorali fatte si sono dimostrate immediatamente irrealizzabili. Restavano due strade: una rottura drastica resa proibitiva proprio dalla mancanza di un progetto politico e di una logica di organizzazione dell'economia e della società nuovi e diversi oppure una gestione politica nella cornice delle logiche neoliberiste, non difformemente da quanto fatto da tutte le altre forze politiche.

Syriza, in mancanza di una realistica alternativa, ha optato fin da subito per la seconda ipotesi e sarebbe ingenuo pensare che se vincesse l'estrema sinistra in Francia, Spagna o Italia sarebbe diverso. Conta poco il potere istituzionale se poi non si ha un' arte di governo in grado di trasformare la realtà.


Immagine di copertina liberamente ripresa da www.wikipedia.org

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Privato è peggio? Esternalizzazioni e crisi in Gran Bretagna.

Il fenomeno dell'esternalizzazione dei servizi è talmente diffuso ai quattro angoli del mondo Occidentale da non aver bisogno di troppe presentazioni.

Amministrazioni pubbliche, dalle scuole ai comuni, dalle biblioteche alle università, dalle caserme ai Ministeri, privatizzano parte delle loro funzioni appaltandole ad aziende esterne, che a loro volta spesso e volentieri subappaltano il contatto vinto ad altri soggetti terzi.

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Grecia: un bilancio verso la conclusione del terzo piano di salvataggio

La Grecia ricomincia a prendere a prestito denaro sui mercati finanziari a un tasso d’interesse non più da strozzinaggio e immediatamente a sinistra si canta vittoria.

Non si tratta solo di vendere la pelle dell’orso prima di averlo ucciso, ma di scambiare una nuova arma di ricatto per la salvezza, un abbaglio clamoroso.

Pubblicato in Internazionale
Mercoledì, 31 Gennaio 2018 00:00

La lotta per il futuro del popolo serbo

Serbia “celeste” o Serbia europea: la lotta per il futuro del popolo serbo

In un continente europeo segnato da una forte retorica nazionalista e dalla crisi delle forze socialiste, vi sono paesi dell’Europa orientale e balcanica che aspettano di essere ammessi nell’Unione Europea.

L’anno da poco iniziato può rappresentare un’importante punto di svolta per l’allargamento dell’istituzione sovranazionale europea, iniziando un processo di apertura che si concluderà nel 2025 per molti paesi candidati che rispetteranno i parametri richiesti.

Pubblicato in Internazionale

Autunno della sinistra in Europa, secondo Valerio Castronovo (ma quale sinistra?)

Prendete una carta geografica da colorare, di quelle in cui si vedono le due sponde dell’Atlantico. Usate ovviamente un pennarello rosso (sbiadito, possibilmente): colorate Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Olanda, Brasile e Stati Uniti. Avrete un quadro (nemmeno esaustivo) di quanto contasse “il riformismo del ventunesimo secolo”, per utilizzare il titolo di un convegno organizzato a Firenze nel 1999.

Pubblicato in Umanistica e sociale

A casa loro: le tante realtà del continente africano

I recenti appuntamenti elettorali europei hanno visto come denominatore comune la retorica intorno all’immigrazione. Un fattore a vantaggio delle forze nazionaliste, che mobilitano la rabbia e il senso di impotenza dell’elettorato contro i numerosi rifugiati che arrivano ogni giorno nel continente. Le gravi conseguenze delle politiche neoliberiste di quest’ultimo decennio hanno concesso il campo a queste pericolose derive fasciste e nazionaliste, che hanno spostato pericolosamente a destra l’asse anche dei partiti del PPE.

Il Premio Nobel sudafricano Desmond Tutu, simbolo della lotta antiapartheid insieme a Mandela, lo scorso giugno in un momento di boom degli sbarchi, ha sollevato un interrogativo importante: "Per una volta, almeno per una volta mi auguro e prego perché i cittadini europei, e i loro governanti, non si chiedano dove vogliano andare gli esseri umani che bussano alle porte, troppo spesso sbarrate, dei ricchi Paesi occidentali. Io spero e prego che almeno una volta ci si chieda da cosa fuggono, e perché, e per responsabilità di chi, i loro Paesi si siano trasformati in un inferno in terra". In questo senso, è utile andare oltre alle degradanti discussioni dei talk show e alle imbarazzanti dichiarazioni dei nostri politicanti e, forse troppo brevemente, tentare di inquadrare la reale situazione di un continente immenso come quello africano. È utile ricordare a noi stessi, contrariamente a quanto riportato dai media, che solamente un terzo dell’immigrazione africana varca il Mediterraneo e i suoi confini continentali. Due terzi della totale immigrazione dell’Africa è interna, come si può vedere analizzando i dati della World Bank del 2016. Negli ultimi anni, si è anche registrato un alto numero di migranti che ritornano nei loro paesi origine, anche dai paesi ad alto reddito dell’area OCSE.

Oltre all’immigrazione, l’altra ottica dalla quale viene osservato il continente africano è quello del cosiddetto “afropessimismo”. Ovvero la costante e immediata associazione dell’Africa a tragedie come la fame, le carestie, le epidemie, le guerre ecc. Sicuramente sono alcuni dei problemi che ancora oggi frenano il grande continente, ma non possono essere i punti di partenza per una visione oggettiva della grande realtà africana. Dalla nascita degli stati nazionali africani, soprattutto nell’Africa subsahariana, la timida crescita economica del continente si è bruscamente frenata tra il 1970 e la fine degli anni Ottanta. Condizionata da una serie di fattori quali le forti oscillazioni del prezzo del petrolio, fattori economici riguardanti i tassi di interesse sui debiti pubblici, il forte protezionismo dei paesi dell’Africa settentrionale, mala gestione economica, fattori geopolitici che causano conflitti ecc. Vi è stata una ripresa economica generale del continente a partire dalla metà degli anni Novanta, ma che non è stata omogenea in tutte le regioni. Una crescita determinata da alcuni fattori: forte domanda internazionale di materie prime (petrolio, metalli, gas ecc), calo dell’inflazione, progressi democratici e politici, nuova classe dirigente, timida diffusione della tecnologia ecc. Il problema delle risorse è determinante per capire lo sviluppo del continente: paesi ricchi di risorse e materie prime non hanno avviato una crescita economica sostenibile e non hanno portato a una riduzione della povertà. Paesi come Angola, Camerun, Nigeria e Gabon sono al fanalino di coda del continente negli indicatori internazionali sulla povertà e sulle aspettative di vita, per differenti fattori, eppure sono i maggiori detentori delle risorse petrolifere del continente, i cui i governi nazionali ricevono ingenti guadagni dalla vendita di petrolio. Nonostante la democrazia, e questo è un dato positivo, stia diventando il sistema di governo di riferimento del continente africano (anche nell’Africa subsahariana) la corruzione è uno dei maggiori freni alle politiche di sviluppo.

È migliorato l’indicatore che rileva il grado di qualità della democrazia, essendo aumentati in molti paesi africani gli organi di controllo sulle operazioni di voto e l’accesso della popolazione ai mezzi di informazione. Generando anche un aumento delle proteste democratiche nel continente, come nelle ultime elezioni in Ghana. È anche interessante mettere in relazione lo sfruttamento delle risorse naturali con il fenomeno dell’urbanizzazione, in forte crescita da alcuni anni a questa parte. Normalmente segnale positivo di crescita economica e sociale nei paesi in via di sviluppo, in Africa molte città non sono il luogo dove si produce la ricchezza ma dove viene consumata. È una urbanizzazione completamente diversa ad esempio da quella asiatica, dove grazie ai servizi e alle attività produttive quali il settore manifatturiero sono un luogo dove la ricchezza viene prodotta. Oltretutto questa urbanizzazione in forte crescita non è accompagnata ovunque da politiche di sviluppo sostenibili nelle risorse vitali quale acqua e la terra coltivabile, priva di qualsiasi strategia di pianificazione.

Nonostante la possibilità di avere una popolazione giovane che può comunque beneficiare dei miglioramenti nelle condizioni di vita e dalla riduzione in molte aree del tasso di mortalità, una delle più grandi incertezze del continente è legata alla sua demografia. Meno del 20% delle donne africane hanno accesso a mezzi di contraccezione, il processo di riduzione della fertilità incontrollata è lento, manca una efficace educazione sessuale e nonostante l’aumento dell’età delle donne in cui generano figli il numero di nascite per famiglia rimane alto e stabile. L’Economist nel 2011 ha parlato di un possibile disastro maltusiano del continente africano. Gli ultimi dieci anni hanno inoltre evidenziato un aumento dei conflitti, sia statali che regionali, dopo una riduzione che aveva favorito elementi di crescita economica dalla fine degli anni Novanta. Esempio lampante di questo fattore sono il Mali e lo Zimbawe, considerati poco tempo fa due degli stati africani che avrebbero trainato la crescita del continente (con indicatori classici come il PIL elevati prima delle guerre che li stanno distruggendo).

Non ci sono però solamente questi elementi negativi, nonostante sia disomogenea però il continente, soprattutto i paesi subsahariani, sono andati incontro a uno sviluppo sociale e politico importante. Che hanno favorito in molti paesi la crescita di una classe media, con un ricambio generazionale anche alla guida di molti paesi, una crescita della consapevolezza politica e l’accesso al dibattito democratico. Elementi confermati dai maggiori investitori internazionali nel continente africano, quali Russia, Cina, Brasile e India. L’Italia è uno dei maggiori paesi europei che investe in Africa, soprattutto nelle materie prime.

Per superare la demagogia sull’immigrazione, è necessario partire da una profonda analisi dei fattori cambiamento e sviluppo nel continente africano e accompagnare gli investimenti e le opportunità economiche con una crescita sostenibile. L’Europa non può continuare a ignorare il dinamismo e le problematiche di un continente come l’Africa a cui è storicamente legata. È un elemento cruciale e fondamentale per risolvere la tragedia quotidiana dei morti nel Mediterraneo, la tratta degli scafisti e i tanti problemi legati al rapporto tra continente europeo e continente africano. La forte crescita economica che molti paesi africani stanno sperimentando, non accompagnata da una redistribuzione della ricchezza e da miglioramenti delle condizioni di vita, è un problema che può essere affrontato. In un momento storico in cui le economie avanzate sono in recessione o in stagnazione economica, l’Africa è la nuova frontiera degli investimenti e alcune economie hanno i tassi di crescita più elevati al mondo. È importante investire e lavorare in Africa per una crescita sostenibile, favorendo un aumento delle qualità delle politiche pubbliche dei governi accompagnato da una lotta alla corruzione. Per fare ciò è necessario uno scambio dinamico e forte tra i due continenti, che non si limita allo slogan “aiutiamoli a casa loro” ma un programma di aiuti internazionali e di scambi funzionale al progresso dei paesi africani e a una politica sostenibile di sfruttamento delle risorse e materie prime. Soprattutto favorendo la formazione di una nuova classe dirigente, in una popolazione molto giovane come quella del continente africano. La crescita e lo sviluppo del continente africano sono un’opportunità non solo europea, ma per il futuro globale. Ad oggi l’Europa, pur essendo uno dei più grandi donatori in termini di ONG e aiuti internazionali, insieme ad accordi economici con molti paesi africani, non sembra essere in grado di elaborare una politica capace di interpretarne ed aiutarne lo sviluppo. Generalizzando nella macchina di propaganda politica europea le complessità e le differenze di un enorme continente a cui siamo strettamente legati dalla storia, a cominciare da quella scia di sangue che si perde nelle acque del Mediterraneo.

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Martedì, 10 Ottobre 2017 00:00

Questione catalana e sinistra

Questione catalana e sinistra

Il referendum autoconvocato dalla Catalogna sulla questione dell’indipendenza evoca analogie e differenze con il caso scozzese. Una regione ricca chiede di separarsi per poter avere il controllo completo delle proprie risorse; il governo centrale di Madrid ha risposto però in modo molto diverso rispetto a quello di Londra, negando ogni spazio per un processo legale verso l’indipendenza (e reprimendo ovviamente il processo illegale).

A sinistra si sono avuti giudizi diversi sulla vicenda: per alcuni non vi è differenza tra il governo regionale di Barcellona e l’egoismo fiscale della Lega Nord; per altri la lotta contro Madrid può essere un grimaldello per rompere l’equilibrio costituzionale spagnolo e passare a uno Stato federale e repubblicano.

Pubblicato in A Dieci Mani
Mercoledì, 02 Agosto 2017 00:00

Verso le elezioni legislative in Austria

Da quando con l'estate gli sbarchi sulle coste italiane si sono fatti più frequenti la battaglia di dichiarazioni tra Italia e Austria sulla gestione dei confini e dei flussi migratori si è fatta particolarmente violenta. Paradossalmente, a questo profluvio verbale corrisponde una realtà sostanzialmente normalizzata: sono ormai pochissimi i migranti che tentano il viaggio verso le città austriache o verso Monaco di Baviera via Brennero, in quanto i mezzi di trasporto pubblici per la cittadina di confine sono da mesi pesantemente controllati da polizia italiana e personale FS e raggiungere il confine in altri modi è o molto disagevole o impossibile. I roboanti ultimatum di alcuni ministri austriaci – e le altrettanto precipitose smentite di altri membri dello stesso Governo uscente – riflettono quindi più che altro la situazione di campagna elettorale in cui si trova il Paese, come è stato giustamente notato da molti. Ma, nonostante tutto, la situazione politico-elettorale di oltreconfine è poco conosciuta al di qua del Brennero. Vale la pena provare a diradare un po' di foschia.

Pubblicato in Internazionale
Martedì, 27 Giugno 2017 00:00

A proposito di ius soli

A proposito di ius soli

Il testo introduttivo dello ius soli e dello ius culturae è stato approvato dalla Camera il 13 ottobre 2015 e solo in questi giorni viene discusso in Aula al Senato, dopo un totale di quattro anni di lavoro nelle Commissioni delle due Camere.
Lo schema politico ricalca in parte quanto già visto sulla legge Cirinnà: Sinistra Italiana aggiunge i propri voti a quelli della maggioranza di governo; Lega e Fd’I sono agguerritamente contrari; Forza Italia contraria con qualche dissenso; il M5S astenuto nel tentativo di non scontentare il proprio elettorato di destra e di potersi accreditare comunque come forza appetibile per la sinistra.
Il parere della Chiesa cattolica, però, è nettamente diverso: Radio Vaticana ha invitato a un “fronte comune” per approvare la nuova legge di cittadinanza. D’altra parte la confusione agitata dalle forze xenofobe, che mescolano il tema immigrazione con quello cittadinanza, ha nuovamente polarizzato un tema – quello dello ius soli per i nati in Italia – sul quale si era in passato registrato un diffuso accordo popolare.


 Niccolò Bassanello

Con il dibattito scatenato sulle recenti proposte legislative sul cosiddetto “ius soli” (che un vero ius soli, come quello vigente negli Stati Uniti, non sarebbe assolutamente) le destre hanno raggiunto un livello di mistificazione ideologica della realtà veramente impressionante. Una minestra riscaldata di stereotipi tra l'immarcescibile narrazione dei migranti come “invasori” pronti a ghermire l'occasione offerta dalla “cittadinanza regalata” e gli ammiccamenti più o meno espliciti al razzialismo biologistico dei tanti italiani nazifascisti inconsapevoli, il cui timore di una improbabile “contaminazione” dell'italianità ad opera di una altrettanto improbabile superpotenza riproduttiva degli “stranieri” ci parla più di un profondo disagio psichico che di qualunque altra cosa. D'altro canto bisognerebbe anche ricordarsi che le destre xenofobe, avvelenando i pozzi con le loro narrazioni tossiche, fanno semplicemente quello che hanno sempre fatto. Non si deve rimanere al livello della sola denuncia retorica, o dell'appello alla ragione, si deve urgentemente opporre alle fandonie xenofobe una contronarrazione efficace, prima che completino al centro e a sinistra uno sfondamento già in buona parte riuscito.

Dovremmo anche andare in profondità, ed indagare nuovamente i legami che uniscono cittadinanza e comunità politica, privazione dei diritti e privazione della cittadinanza. L'Italia è uno dei Paesi europei a richiedere più anni di residenza legale per ottenere la naturalizzazione; il problema dei minorenni nati in Italia ma non cittadini è ormai noto anche ai disinformati. I non cittadini, anche se legalmente residenti e membri attivi delle nostre comunità da anni, addirittura anche se nati e vissuti da sempre in Italia, vivono intrappolati in una condizione precaria e carente di diritti, eterni “stranieri” da trattare peggio – o, bene che vada, diversamente – dei cittadini a pieno titolo. Si accetta di buon grado che lavorino, magari “a nero” o in condizione di ricattabilità, purché non abbiano accesso alla comunità politica dei cittadini italiani, quindi purché non contino politicamente e non si facciano sentire. In fondo, quindi, coloro che vorrebbero che a questi “stranieri” che stranieri sono solo di nome venisse negata la cittadinanza ed i venditori di fumo grillini e fascioleghisti che li rappresentano, non temono che l'accesso all'uguaglianza formale di una fetta di soggetti subalterni, condizione necessaria di qualunque emancipazione. È questa la banalità del male del “padroni a casa nostra”.


Alex Marsaglia

Quando parliamo di diritto il più delle volte intendiamo le norme che una comunità decide di darsi in seguito a una serie di procedure democratiche fatte di dibattito, deliberazione e decisione. Purtroppo la realtà degli Stati imperialisti è molto lontana da questo idealtipo liberaldemocratico. Vi sono continenti interi confinati in condizioni di povertà e sfruttamento delle risorse dei propri territori da secoli.

Svincolarsi dal sottosviluppo per questi paesi è stato impossibile durante le fasi di crescita e sembra tanto più impossibile ora, quando l'unica strategia rimasta è utilizzare il proprio differenziale salariale per attirare le imprese che delocalizzano. La crescita demografica si unisce così a contesti di povertà cronica. L'unica strategia per chi è colpito da una tale dinamica sembra essere rimasta quella più individualistica: l'emigrazione. Lo vediamo ormai persino in Italia. Come gli Stati decidono di concedere la cittadinanza è un nodo centrale ed è impossibile che chi governa non pensi che questa è una leva fondamentale per indirizzare o meno i flussi. Gli Stati Uniti negli anni venti del grande boom avevano lo ius soli.

L'Italia, che temeva lo spopolamento mantenne lo ius sanguinis, contando di non perdere definitivamente il proprio popolo ampiamente fuoriuscito e incentivando politiche per il ripopolamento. Oggi se è evidente che l'Africa e l'Asia stiano ampiamente strabordando il vero interrogativo sta nel capire cosa faranno i paesi come il nostro in regressione demografica con una popolazione autoctona che torna a emigrare in massa. Restare allo ius sanguinis permette di mantenere un legame con chi fugge da un paese disastrato come il nostro, abbracciare lo ius soli significa salutare il popolo di fuoriusciti per abbracciare definitivamente i cambiamenti che le migrazioni internazionali stanno apportando al tessuto sociale. Ai posteri il bilancio.


Dmitrij Palagi

Quando si parla di migranti e fenomeno migratorio la realtà passa in secondo piano. Secondo Luca Ricolfi la sinistra ha perso e si è distaccata dal popolo perché si ostina a porsi in modo sbagliato con chi subisce le conseguenze della globalizzazione, percependo il degrado delle periferie o dei centri storici, con gli autobus in cui capita di non sentire parlare la propria lingua (per fare un esempio). Negare un sentimento è forse poco sensato da parte di chi pratica una sfera dell'umano basata sul consenso, ma non ci si può rassegnare ad inseguire la totale follia logica delle destre e dei razzisti.

Prendete un bel respiro. Pensate al numero di nuove natalità del vecchio continente, poi date un occhio alle prospettive africane. Consultate i numeri dei flussi dall'altra parte del Mediterraneo, cercate di capire quanta mobilità interna rimane per adesso oltre il mare. Provate ad immaginare le cause. Aggiungeteci una breve curiosità su quanti, arrivando in Italia, desiderino effettivamente rimanere da noi. Poi provate a guardare un bimbo crescere nella nostra scuola, non avere alcun contatto con il paese da cui provengono i suoi genitori, augurandovi che un giorno torni in un posto in cui non è mai stato, magari forzatamente, senza essere reinserito in un nuovo contesto sociale, diventando di fatto apolide.

Lo ius soli nemmeno sappiamo realmente cosa sia, a livello di dibattito diffuso. Val bene un foto a favore (come ha fatto la sinistra di opposizione in Parlamento), anche se è veramente pochissimo rispetto al mare di disinformazione alimentato in quasi tutti gli ambiti. Un lavoro difficile, ma da iniziare prima o poi, anche fuori dalla categoria della solidarietà e della fratellanza.


Jacopo Vannucchi

L’approvazione dello ius soli, unita all’introduzione delle unioni civili, farebbe della Legislatura che si sta per chiudere quella più fruttuosa in tema di riforme dai tempi dei governi Andreotti di solidarietà nazionale, sotto i quali fu istituito il SSN e legalizzata l’interruzione di gravidanza.
La coincidenza della discussione parlamentare con il turno di elezioni amministrative, e comunque a non più di otto mesi dalle consultazioni politiche, vede le destre cercare di cavalcare l’umore xenofobo, confortate da alcuni buoni risultati di CasaPound. In particolare, tra questa e il M5S si è aperta una sfida per contendersi l’elettorato razzista. Da un lato Di Stefano approva la politica anti-migranti adottata dalla Raggi ma dispera della sua riuscita definendo i grillini “comunisti mancati”; dall’altro il partito di Grillo ripercorre l’itinerario del nazismo tedesco eliminando sempre più i contenuti sociali del programma a vantaggio di una visione di sciovinismo etnico.

Si capisce che l’introduzione dello ius soli sia vantaggiosa non soltanto per lo Stato, che potrà pienamente giovarsi dell’apporto lavorativo e previdenziale dei “nuovi italiani”, ma anche per i lavoratori. Con la garanzia della cittadinanza verrebbero sfoltiti i ranghi di un esercito industriale di riserva disposto ad accettare salari e tutele decisamente inferiori a quelli definiti dalla contrattazione collettiva, eliminando quindi la concorrenza lavorativa che, assieme alla criminalità, è il più diffuso timore delle classi popolari riguardo alla presenza di stranieri.

Il riconoscimento civile, da solo, non è in grado di garantire una perfetta integrazione sociale: si pensi agli stragisti di Daesh nel Regno Unito, in Francia, in Belgio, in larga parte nati e cresciuti in quei Paesi. Tuttavia, se è vero ciò che rilevano i sondaggi, cioè che i giudizi sugli stranieri conosciuti personalmente sono assai meno negativi di quelli sugli immigrati come categoria generale, allora l’estensione delle possibilità di frequentazione e interazione tra italiani “vecchi” e “nuovi” può favorire il superamento di divisioni interne alle classi deboli e quindi una maggiore spinta per la piena integrazione sociale di tutti i cittadini.


Alessandro Zabban

Il polverone che si è sollevato sullo ius soli mette ancora una volta in evidenza quanto il tema delle immigrazioni sia polarizzante. Ma sopratutto come sia facile strumentalizzarlo.

Non appena si entra nel merito, è difficile uscire dal vicolo cieco di una discussione che mette una enfasi ingiustificata sul pericolo del terrorismo o sulla paura ancestrale di una fantomatica "sostituzione etnica". Lo ius soli non è per niente un assist allo jihadismo ma semmai il modo più razionale, dal punto di vista dello stato di diritto, per contrastarlo. Di fatto l'obiettivo è concedere la cittadinanza e i diritti e doveri a essa connessi a chi è di fatto già italiano, parla italiano, frequenta la scuola italiana e si sente e percepisce come italiano.

Non si tratta di una riforma rivoluzionaria, bensì di realizzare una forma di ius soli limitato ma funzionale all'integrazione dei giovani di origine straniera che sono già di fatto italiani ma senza un riconoscimento giuridico. Difficilmente con questa legge il nostro paese diventerebbe una calamita per l'immigrazione più di quanto già non lo sia ora perché di solito chi scappa da situazioni belliche, politiche, ambientali, economiche drammatiche ha mille ragioni più pressanti per arrivare in Italia. Inoltre la cittadinanza del figlio immigrato non arriva certo automaticamente, ma solo se sono soddisfatti certi requisiti fra cui il permesso di soggiorno di lunga durata da parte dei genitori che è questa una prospettiva che già di per sé spinge miglia si disperati ad attraversare il Mediterraneo su dei gommoni. Ancora più improbabile è poi voler trovare una correlazione fra terrorismo e ius soli: se uno è intenzionato a commettere un attentato terroristico, lo fa sia che sia cittadino italiano che no: è la mancanza di integrazione che porta al terrorismo, non il passaporto che si ha in tasca.

Chiaramente lo ius soli non è uno strumento perfetto e creerà sicuramente alcune distorsioni, ma in generale non può che essere accolto positivamente.

 

Pubblicato in A Dieci Mani

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