Mercoledì, 31 Gennaio 2018 00:00

La lotta per il futuro del popolo serbo

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Serbia “celeste” o Serbia europea: la lotta per il futuro del popolo serbo

In un continente europeo segnato da una forte retorica nazionalista e dalla crisi delle forze socialiste, vi sono paesi dell’Europa orientale e balcanica che aspettano di essere ammessi nell’Unione Europea.

L’anno da poco iniziato può rappresentare un’importante punto di svolta per l’allargamento dell’istituzione sovranazionale europea, iniziando un processo di apertura che si concluderà nel 2025 per molti paesi candidati che rispetteranno i parametri richiesti.

Tra questi paesi richiedenti vi è la Serbia, che dal 2013 con l’Accordo di Bruxelles sta portando avanti un negoziato tortuoso e complicato con il Kosovo sotto l’egida dell’Unione Europea. Ma l'assassinio di Oliver Ivanovi, leader dell'ala moderata della minoranza serba in Kosovo, potrebbe riaprire la stagione delle faide. I kosovari accusano i serbi nazionalisti, e i nazionalisti kosovari viceversa. La Serbia ha interrotto le trattative col governo kosovaro in corso a Bruxelles. Il presidente serbo, Alexandar Vuci, ha convocato il Consiglio di sicurezza nazionale.

Ivanovi è stato assassinato nella città di Mitrovica, in territorio kosovaro e abitata da una forte componente serba. Pur essendo il Kosovo sia uno stato indipendente, la Serbia non l’ha mai riconosciuto formalmente pur rinunciando ad un controllo dei territori. Oltre alla questione tutt’ora irrisolta della memoria storica della guerra e di quella giuridica, ancora al lavoro nel Tribunale dell’Aja contro i crimini di guerra.

Nonostante queste ferite ancora aperte delle guerre che alla fine degli anni Novanta hanno sconvolto la penisola balcanica, il presidente Vucić e la premier Ana Brnabi svolgono una politica di riforme e di dialogo con Bruxelles puntando come obiettivo prioritario a un ingresso della Serbia nella Ue, ingresso che rafforzerebbe ancora la crescita economica, l'integrazione e la modernizzazione con aiuti tipo fondi di coesione. Importanti in un paese che vede una forte disoccupazione giovanile, una crescita lenta delle infrastrutture e una economia fortemente instabile.

Vucić e la Brnabic ufficialmente escludono un riconoscimento del Kosovo, che era provincia serba ai tempi della Jugoslavia. Ma cercano un compromesso pragmatico che, secondo quanto Ana Brnabic aveva detto giorni fa, potrebbe essere fattibile entro il 2018. Tra gli obiettivi di questo processo vi è anche il raggiungimento di un’intesa che impegnerebbe Belgrado e Pristina a non ostacolarsi a vicenda nel percorso di adesione all’Unione europea. Sono in molti in Serbia a pensare che accettare una tale intesa significherebbe accettare l’indipendenza del Kosovo, rendendo imminente la sua ammissione nelle Nazioni Unite. A seguito di questa presa di posizione delle istituzioni, l’opinione pubblica e i vertici della Chiesa ortodossa si sono spaccati in un acceso dibattito intorno a questo tema. A causa della forte presa sull’immaginario collettivo del ruolo del Kosovo come patria della nazione serba, custode dei luoghi della memoria del popolo serbo e simbolo di un futuro predestinato. Un’idea legata alla tradizione nazionalista serba fermamente intrecciata alle più ferree dottrine della Chiesa ortodossa.

Poco prima del Natale ortodosso (7 gennaio) è stato pubblicato un Appello in difesa del Kosovo e Metohija. Un documento nel quale si chiede di “fermare il processo di secessione del Kosovo” e di riportare i negoziati con Pristina sotto l’egida del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Si sottolinea inoltre che “il conflitto congelato” sarebbe l’unica soluzione ragionevole. Un appello firmato da circa duecento personalità pubbliche e influenti nella società serba: giornalisti, intellettuali, politici, storici e soprattutto rappresentanti della Chiesa ortodossa. Tra questi il metropolita montenegrino Amfilohije e il vescovo della Chiesa ortodossa serba in Kosovo Teodosije, che hanno accusato Vucić di tradimento nei confronti del popolo serbo e del Kosovo, destinando una preghiera ai defunti al presidente ancora in vita. Il metropolita Amfilohjie ha dichiarato che i rappresentanti della Chiesa “non hanno diritto di immischiarsi nella politica statale, ma hanno il diritto inalienabile di difendere la reputazione della Chiesa e l’anima di questo popolo di fronte a qualsiasi tentativo di tradimento del Kosovo e Metohija e dell’intero popolo serbo”. A queste accuse vi è stata la reazione del patriarca serbo Irinej che, con toni completamente diversi, ha ringraziato Dio “per averci donato l’uomo che sta lottando come un leone per il popolo serbo”.

Segnali di una spaccatura all’interno della stessa Chiesa ortodossa serba, anch’essa condizionata dalla ricerca della rappresentanza del popolo serbo sparpagliato in molti paesi balcanici. Una divisione che si consumerà, come altre volte accaduto in passato, in assoluto silenzio senza un dibattito ecumenico o pubblico lontano dai media.

In concomitanza con la presentazione dell’Appello in difesa del Kosovo e Metohija è giunta la notizia che il 15 febbraio, giorno in cui ricorre la festa nazionale della Serbia, verrà adottata, contemporaneamente a Belgrado e Banja Luka, una dichiarazione congiunta della Republika Srpska e della Serbia sulla sopravvivenza del popolo serbo. Secondo quanto riportato dai media, i punti chiave di questo documento saranno “il diritto all’uso della lingua serba e dell’alfabeto cirillico, la tutela della cultura serba, lo studio della storia serba e la salvaguardia della tradizione libertaria serba, la difesa della geografia nazionale, il diritto alla difesa e alla tutela del patrimonio storico-culturale serbo e il diritto di accesso all’informazione nella lingua serba”.

La proclamazione di questa dichiarazione sarà senz’altro sfruttata dal presidente Vučić per rafforzare un’immagine di sé come leader che “lotta da leone” per la sopravvivenza del proprio popolo, a dispetto di tutte le critiche nei suoi confronti da parte dell’opposizione, della Chiesa, dei media indipendenti, dell’opinione pubblica e di tutte le richieste e le pressioni della comunità internazionale.

Sicuramente la Serbia si ritroverà a dover scegliere se proseguire sulla strada di avvicinamento a Bruxelles o se tornare indietro, riprendendo quella politica stretta di collaborazione (più sudditanza) nei confronti della Russia, ad oggi però in difficoltà. La speranza è che un percorso di integrazione verso l’Unione Europea possa avvantaggiare quella protesta civile ben mascherata dai media nazionali serbi contro il presidente Vučić. Una protesta portata avanti non dai nazionalisti, ma da migliaia e migliaia di studenti e lavoratori stanchi del governo autocratico del presidente serbo, che si nasconde dietro la maschera di moderato per giustificare il suo controllo stretto sui media, accuse di brogli elettorali e una corruzione dilagante. Anche perché molti serbi sono stanchi di una guerra che ancora aleggia come un’ombra sulle loro vite.

Oliver Ivanović, il politico e rappresentante della comunità serba in Kosovo recentemente ucciso, ha dichiarato: “È tragico che, dopo diciotto anni di vita con la paura degli estremisti albanesi, i serbi nel nord del Kosovo ora abbiano paura degli estremisti serbi e per questo se ne vadano via.”

Un sentimento di stanchezza diffuso anche a Belgrado e nello stato nazionale serbo, oggi in forte subbuglio.

Nell'immagine di copertina Oliver Ivanović, foto liberamente ripresa da upload.wikimedia.org

Ultima modifica il Martedì, 30 Gennaio 2018 17:50
Marco Saccardi

Nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 settembre 1990, sono uno studente laureato alla triennale di Storia Contemporanea presso l’Università di Firenze, adesso laureando alla magistrale di Scienze Storiche. Appassionato di Politica, amante della Storia, sono “fuggito” dal PD dopo anni di militanza e sono alla ricerca di una collocazione politica, nel vuoto della sinistra italiana. Malato di Fiorentina e di calcio, quando gioca la viola non sono reperibile. Inoltre mi ritengo particolarmente nerd, divoratore di libri, film e serie tv.

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