Tale livello del deficit, sottolinea Tito, oggi non vale più, è in vigore il fiscal compact sicché è d’obbligo che gli stati dell’Unione Europea debbano tendere ad azzerare il deficit; inoltre, se caratterizzati da elevato debito pubblico, è d’obbligo che debbano operare a una sua progressiva riduzione. Anzi, a una progressione celere: essendo, a suo avviso, l’economia italiana effettivamente “in ripresa” ormai significativa.
Non solo: l’Italia, richiama Tito, ha assunto l’impegno con la Commissione Europea di portare entro un anno il deficit allo 0,9% (adesso è al 2,3%) ed entro due anni allo 0,2%: e pacta sunt servanda, ne va dell’immagine dell’Italia, della sua credibilità presso i “mercati” e nell’Unione Europea, ecc. Tutto quel che si potrà ottenere dalla Commissione sarà (come già accaduto) un po’ di “flessibilità” di bilancio. Guai, poi, se l’Italia tentasse davvero di praticare il 3%: la Commissione e i “partner europei” non lo permetterebbero, scatterebbero sanzioni, la speculazione sui nostri titoli sovrani ne farebbe saltare la sostenibilità finanziaria. Diventeremmo una nuova Grecia ecc. ecc.
Piccolo dato di fatto: il fiscal compact è venuto il 31 dicembre del 2017 a scadenza cioè in questo momento non c’è. Tant’è che la Commissione Europea per bocca di Moscovici ha di recente raccomandato all’Italia di non portare il suo deficit a superare il 3%, altrimenti violerebbe il Trattato di Maastricht (che appunto definisce questa percentuale come massimo legale). Persino Dombrovskis, tra i commissari, si è limitato a invitare l’Italia a ridurre il debito.
Qualche cifra di fatto, a significare gli effetti economici e sociali della posizione sostenuta da Claudio Tito. Passare dal 2,3% di deficit allo 0,2% significa qualcosa come 35 miliardi in meno in due anni di denari a disposizione dello Stato e delle pubbliche amministrazioni. La “flessibilità” concessa recentemente all’Italia gira sui 4-5 miliardi, vale a dire che non le è stato concesso niente. La ripresa in corso dell’economia italiana consentirebbe, viene detto dai neoliberisti nostrani, di sostenere abbattimento del deficit nonché riduzione del debito: peccato che tale “ripresa” sia quasi solo l’effetto di quella europea, cioè non abbia dentro quasi niente di italiano. Peccato che ci sia una bassissima inflazione a dirci che l’Italia è tuttora, sostanzialmente, in deflazione.
Né pare importare a Tito che il conto della posizione neoliberista da lui sostenuta lo stiano pagando a carissimo prezzo investimenti produttivi, condizioni di lavoro, disoccupati, pensionati, giovani, donne, servizi sociali, servizi pubblici, amministrazioni locali, insomma lo stiano pagando, e da tutti i lati possibili e immaginabili, le classi popolari e il piccolo ceto medio. Però, certamente, a nome delle convenienze delle future generazioni: sempre che riescano a nascere.
Necessita a chiarire come stiano effettivamente le cose qualche ulteriore precisazione. Il fiscal compact entrò in vigore il 1° gennaio 2013. Non fu un trattato (come invece scrivono i nostri mass-media e i loro “analisti”): si trattò invece di un accordo interstatale. La ragione di questo suo statuto fu che tre stati (Regno Unito, Repubblica Ceca e Croazia) non intesero accoglierlo; quindi se fosse stato tentato come trattato tali stati avrebbero opposto il proprio veto e del fiscal compact non si sarebbe mai più parlato (occorre sempre per il varo di trattati un voto unanime). Gli stati firmatari poi incaricheranno la Commissione Europea di gestirlo.
In secondo luogo, il fiscal compact fu formalmente e univocamente definito un accordo sperimentale, e come tale a termine: sarebbe quindi venuto a scadenza il 31 dicembre del 2017 e si sarebbe dovuto decidere che cosa farne. Questa decisione a oggi non c’è stata, dunque dal 1° gennaio di quest’anno ogni stato firmatario risulta liberato dall’impegno di operare nel senso dello 0% di deficit. Nessuna illegalità perciò da parte dell’Italia, nel momento in cui un suo governo formalmente decidesse che il deficit di riferimento è il 3%. Nessuna punizione legittima da parte della Commissione Europea potrebbe avvenire a contrasto di tale decisione. Qualche rottura di scatole indubbiamente sì, ma da respingere facilmente. Quanto al fatto, come scrive Tito, che potrebbero intervenire i “partner europei”, siamo al delirio. Non v’è base giuridica minima che ciò consenta. Le varie formazioni del Consiglio Europeo è d’altro che si occupano.
Una discussione quasi tutta in camera caritatis è in corso a livello europeo da qualche mese, orientata al rilancio del fiscal compact o al lancio di qualcosa che gli somigli. Due sono le strade in discussione: la prima guarda alla riconferma come accordo interstatale, dunque firmato da chi lo voglia; la seconda guarda invece alla trasformazione in trattato, ciò che comporterebbe l’assenso (o il silenzio-assenso) da parte della totalità dei 27 stati attuali dell’Unione Europea. A tutt’oggi niente di ciò è avvenuto: sono insormontabili le difficoltà.
In concreto (ipotesi accordo interstatale) molti stati non apporrebbero la firma; oppure (ipotesi trattato) porrebbero il veto. Almeno otto stati, cioè (ma non so se li ho contati tutti), si sono già espressi negativamente o molto problematicamente in questo senso. E l’Italia, è chiaro, farebbe lo stesso se governata dal Movimento 5 Stelle più la Lega o più un Partito Democratico a guida Renzi. L’enorme difficoltà di rilancio del fiscal compact ha quindi fatto sì che la discussione, avviata dentro alla Commissione Europea, fosse progressivamente espropriata dalla rinnovata entente tra Germania e Francia e, per loro tramite, dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo. È questo il solo organismo in grado di proporre riforme di trattati o nuovi trattati. Ciò vuol dire che la discussione tende ormai ad andare oltre ciò che accadrà o non accadrà al fiscal compact.
Esattamente, per la Francia, l’obiettivo è una correzione ampia di rotta ovvero un rifacimento complessivo dell’acquis comunitario (cioè dei contenuti di base dei vari trattati che si sono assommati nel tempo), la cui prospettiva dovrebbe essere “più Europa”. Quindi, concretamente, l’obiettivo è qualche misura di comunitarizzazione o semicomunitarizzazione o copertura da parte della Banca Centrale Europea o di un qualche ente comunitario ad hoc del debito pubblico quanto meno dei paesi più indebitati. La Francia ha palesemente paura del contagio “populista” che può venirle, e venire ad altri stati, dall’Italia, ha paura che questo contagio trasformi in irreversibile la dissoluzione, già peraltro inoltrata, dell’Unione Europea, ecc.
Per la Germania (cioè per l’establishment politico tedesco), invece, si tratta di non muovere un chiodo in quella direzione, di consolidare la presa (cioè la colonizzazione economica tedesca) sul complesso degli stati dell’Unione, di assicurarsi la sostituzione di Mario Draghi alla testa della Banca Centrale Europea, di metterci l’ex governatore ultraliberista della banca di stato finlandese Erkki Antero Liikanen, di porre fine al quantitative easing; e che l’Italia se vuole venga a Canossa e se non vuole che si impicchi, niente provvedimenti ma anche niente a soccorso di eventuali difficoltà finanziarie derivanti dall’altezza del suo debito pubblico.
D’altra parte, ragiona sempre l’establishment politico tedesco, che senso ha tutto questo ambaradam della Commissione o della Francia, se l’Italia non ci sta? Essendo considerata essa, cioè, e solo essa un problema ragguardevole in materia nell’Unione Europea? Come si vede, l’entente franco-tedesca in realtà è una stampella utile a gestire più gli obiettivi tedeschi che quelli francesi. Si badi, inoltre, a come l’idea francese sia solo un altro modo per cadere, per molti stati tra cui campeggia l’Italia, dalla padella nella brace: dato che la “riforma” fondamentale proposta dalla Francia è il varo di un ministro europeo dell’economia ovvero dell’ennesimo burocrate plenipotenziario (ovviamente, per di più, selezionato dall’establishment finanziario-industriale-politico tedesco).
La catastrofe finanziaria dell’Italia è imminente, profetizza Claudio Tito, se Movimento 5 Stellee Lega governeranno. Occorrono infatti, onde evitare la catastrofe, politiche della spesa lacrime e sangue, viva la “riforma” Fornero, il JOBS-Act e più in generale la precarizzazione totale del lavoro e il suo immiserimento, la “Buona Scuola”; basta assurdità come i sostegni al reddito di chi non arriva a fine mese, ecc. Insomma viva la catastrofe sociale. Può darsi che Movimento 5 Stelle e Lega, per come sono fatti, combinino prossimamente guai e pasticci. Tuttavia, è proprio vero che siamo a rischio altissimo di tale catastrofe in ragione di una nostra situazione debitoria oggettiva?
Ho appreso l’altro giorno che il risparmio privato è giunto in Italia a 5.600 miliardi (pochi anni fa era a quota 4.500). Si tratta di tre volte e mezzo il PIL e di due volte e mezzo il debito pubblico dell’Italia. Si compone, è vero, di un’infinità di voci, c’è un sacco di piccolo risparmio, piccole proprietà, piccole attività, ecc.: ma c’è in quell’enorme cifra, soprattutto, questa dichiarazione, che la ricchezza della minoranza benestante, ricca e straricca della popolazione, diciamo il suo quinto, non ha fatto in questi anni di crisi economica e di immiserimento popolare che arricchirsi. Anzi più si è trattato di straricchi più giganteschi sono stati gli incrementi dell’arricchimento. C’è dunque spazio ampissimo, intanto, per una riforma fiscale progressiva che incassi parecchio di più rispetto al gettito fiscale attuale.
E non è il risparmio privato il solo enorme giacimento di ricchezza dell’Italia. Per esempio Cassa Depositi e Prestiti (di proprietà per l’82,7% del Tesoro e per il 17,3% di fondazioni proprietarie di 65 casse di risparmio) dispone, all’incirca, di 300 miliardi solo di risparmio postale, di 35-40 miliardi di assets vari, ecc. Tesoro e Banca Depositi e Prestiti furono portati nel 2003 dal secondo governo Berlusconi a statuto privatistico, su pressione di una Commissione Europea a guida Romano Prodi che vedeva nei loro interventi a sostegno di politiche industriali indebiti “aiuti di stato”. Poi, soprattutto, ci penserà nel 2011 il governo “tecnico” a guida Monti, riformando ulteriormente lo statuto di cassa Depositi e Prestiti, cioè a portarla a essere, sostanzialmente, una banca d’affari ovvero a operare solo sul piano finanziario e a guardare solo alla realizzazione di plusvalenze. Giova rammentare come di questi tempi neoliberisti tutte le porcherie antisociali si siano offerte alle popolazioni come “tecniche”, “oggettive” e dunque valide per definizione.
Ora, come a suo tempo si procedette tramite decreti legge a conferire statuto privatistico a Tesoro e a Cassa Depositi e Prestiti, analogamente si può procedere in sede di riconsegna a statuto pubblicistico: a riconsegnare cioè il Tesoro allo Stato, a riconsegnare statuto pubblicistico a Cassa Depositi e Prestiti, ecc. Ci sarà probabilmente qualche rottura di scatole da parte della Commissione Europea, ma non più di tanto: anche perché in quasi tutti gli stati dell’Unione Europea il Tesoro è parte dello Stato, risponde allo Stato, fa quello che gli dice di fare lo Stato. Negli stessi Stati Uniti, dove il Tesoro ha statuto privatistico, esso fa quel che gli dice di fare lo Stato. In conclusione, ciò che sarà e farà Cassa Depositi e Prestiti dipenderà esclusivamente delle intenzioni dei futuri governi.
Dunque col cavolo che non ci sono i soldi per riportare a civiltà la condizione lavorativa, buttare via “riforma” Fornero, Buona Scuola, JOBS-Act e precariato in genere, realizzare ampi investimenti produttivi e in servizi, sanità, formazione, ricerca, risistemare pubbliche amministrazioni, territorio, acque, tutelare e mettere a valore il patrimonio storico-culturale, trattare civilmente la povera gente in fuga da teatri di fame o di guerra ecc. ecc.
Piccola aggiunta
Naturalmente, dati il volume e la qualità di quegli obiettivi, data la necessità di mobilitare bene quei soldi, una risistemazione tramite atti politici coerenti di parecchie cose, occorrerebbe una programmazione seria dell’intero processo economico. In altre parole, occorrerebbero buone dosi di socialismo e di politiche economiche keynesiane cioè orientate alla crescita complessiva della domanda e, se del caso, al ricorso al debito. Tra esse, una limitazione rigorosa delle possibilità di attività speculative, prima di tutto, riportando casse di risparmio e banche commerciali di investimento a fare esclusivamente il loro mestiere storico di sostenitrici di attività imprenditoriali grandi e piccole, enti pubblici, famiglie, parimenti ponendo limitazioni significative alle attività delle banche commerciali di affari, che impediscano loro di portare danni all’economia, allo stato e di conseguenza alla popolazione del nostro paese.
Non mi pare che il Partito Democratico (stando alle recenti dichiarazioni della sua parte renziana) possa essere della partita: la sua maggioranza appare orientata a difendere strenuamente le sue realizzazioni neoliberiste e antisociali, in altre parole, a tutelare quanto maggiormente gli rimanga e soprattutto gli interessi di base sociale, la quota abbiente o ricca della popolazione. Sul versante di questo partito la flat tax si spiega benissimo. Per quanto riguarda, invece, il Movimento 5 Stelle e la destra di Salvini la flat tax costituisce un pesante elemento di incongruità suscettibile, non già di incentivare la ripresa economica, bensì di frenarla, poiché opererebbe alla stagnazione della domanda interna, in quanto, cioè, le classi popolari disporrebbero di qualcosa di più in termini di entrate ma soffrirebbero di spesa addizionale a livello mediamente superiore in sede di accesso ai servizi.
Spazio per una sinistra socialmente utile pare quindi oggettivamente essercene. La sinistra deve però credere in se stessa, darsi una linea seria di politica economica e sociale, smetterla di rivolgersi col cappello in mano al Movimento 5 Stelle o di sognare miracolosi ribaltoni in seno al Partito Democratico o di mettersi “a disposizione” del presidente Mattarella per fare non si sa che cosa. Essere succursali altrui non è davvero il modo di essere, come giustamente vorremmo, sinistra seria ovvero “di governo”. Neanche, in verità, semplicemente “sinistra”: solo la sua caricatura.
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