Tuttavia ho scelto due film europei (uno italiano e uno svedese) che hanno volutamente rischiato. Siccome nell'arte il rischio è tutto, ho scelto per voi "The place", il nuovo film di Paolo Genovese dopo il successo di Perfetti sconosciuti, e la Palma d'Oro 2017 "The Square" di Robert Ostlund. Qui sotto trovate le recensioni. Buona lettura!
THE SQUARE ****
(Svezia, Danimarca 2017)
Genere: Black Comedy / Grottesco / Drammatico
Regia e Sceneggiatura: Robert OSTLUND
Cinematographer: Fredrik WENZEL
Cast: Elizabeth MOSS, Dominic WEST, Claes BANG, Terry NOTARY
Durata: 2h e 22 minuti
Distribuzione: Teodora
Uscita italiana: 9 Novembre 2017
Trailer italiano qui
Ancora il Nord Europa. La rinascita europea è lenta e dolorosa per gli abitanti del Vecchio Continente. Eppure dobbiamo dir grazie a islandesi, svedesi, danesi e norvegesi. Secondo importanti ricerche, in questi Paesi si vive meglio, la felicità e il benessere dei cittadini è maggiore, i loro modelli di welfare sono solidi. Sono da seguire, anche se non è tutto oro ciò che luccica. Anche nel cinema tutto ciò vien fuori con discreta convinzione. Sembra che qualcosa di oscuro emerga anche in questi Paesi. Personalmente amo il cinema nordeuropeo (specie quello danese). Cito alcuni autori: Lars Von Trier, Tomas Alfredson, Nicolas Winding Refn, Thomas Vinterberg, il movimento "Dogma 95". Dopo essersi rivelato tre anni fa con l'ottimo "Forza maggiore", lo svedese Robert Ostlund è tornato a ruggire a Cannes. La giuria, presieduta da Pedro Almodovar, lo ha premiato con il massimo riconoscimento del cinema europeo (la Palma d'Oro).
È innegabile che la qualità del 70° Festival di Cannes (resoconto qui) è stata inferiore alle attese. Eppure questa scelta della giuria pare abbastanza azzeccata. Se nel precedente lavoro Ostlund aveva come bersaglio la famiglia e l'individualismo insito nell'essere umano, questa volta il regista svedese critica fortemente i meccanismi che regolano l'arte contemporanea. Sembra di essere in un gruppo segreto di Whatsapp: c'è un circolo ristretto di persone che "interagiscono" tra di loro credendo di parlarsi. La maggioranza è ignara e rimane fuori dalle decisioni prese. I privilegiati che fanno parte di questi gruppi sono attratti più dal marketing che dalla qualità delle opere esposte. Scelgono loro cosa è buono e cosa è da buttare, ma anche loro sono umani e quindi anche loro sbagliano. Mercanti, collezionisti e il pubblico devono sottostare alle loro decisioni. Ostlund ci dice che il cinema deve ritrovare la sua essenza, andare su strade poco battute e non inseguire per forza il botteghino. Il risultato è un film squilibrato, acido, sfrontato e ricco di provocazioni che non riguardano solo la settima arte, ma soprattutto la mancanza di valori etici che minano la credibilità della società dell'immagine (infatti la fotografia del film è tutt'altro che rassicurante e piuttosto cruda). Insomma quest'opera aveva tutti gli ingredienti per adattarsi alla mia idea di cinema. Poi ho letto, come tutti i giovedì, le recensioni sui giornali del mattino. Quando ho visto che davano 0 al film sul "Giornale" di Sallusti, ho pensato che questa pellicola "radical chic" non me la potevo perdere. Vi verrò a spiegare nel dettaglio il perché.
Siamo a Stoccolma, in Svezia. Tre episodi, con lo stesso protagonista, corrono in parallelo: l'indagine sul furto del suo cellulare, l'avventura sessuale con la giornalista americana e il lancio della campagna marketing. L'uomo in questione è Christian (Claes Berg), curatore di un prestigioso museo d'arte contemporanea. Il suo motto è "il nostro museo non deve aver paura di osare". La sua missione è la ricerca di opere che catturino l'attenzione di pubblico e di ricchi donatori. Tutto ciò è vitale per mantenere la struttura. Un giorno nel suo museo viene installata una strana opera chiamata "The square". In "Forza maggiore" era la slavina l'innesco della vicenda, qui invece non è una piazza, ma un quadrato piazzato a terra con il perimetro illuminato. E poi c'è una targa: "il quadrato è un santuario di fiducia e altruismo. Al suo interno tutti dividiamo gli stessi diritti e doveri." Mmh, interessante. Peccato che il buon Christian non sia uno stinco di santo. È un bambinone privilegiato, vanesio e ipocrita. Ed è pure donnaiolo, nonostante abbia figli. Usa il suo potere per portarsi a letto donne rampanti (la giornalista Anne, interpretata da Elizabeth Moss). Il Quadrato infatti non è altro che il simbolo della coscienza. Christian è una persona scarsamente altruista nella vita quotidiana, mentre nel suo mondo ovattato si presenta orgogliosamente come una proiezione del Quadrato. Così come la gente comune: per strada sfreccia veloce e indifferente di fronte ai bisogni dei suoi simili e poi si sciacqua la bocca con discorsi filosofici (fintamente) altruisti sui social network. Un giorno però la sua vita è scossa da un avvenimento. Andando al lavoro si imbatte in una ragazza che, in mezzo alla folla, sta scappando da un assalitore. Christian, seppur titubante in un primo momento, decide di darle una mano. Poco dopo si accorge però di non aver più né cellulare né tanto meno il portafoglio. Le sue certezze cadono e da qui inizierà l'effetto domino. Christian inizierà a diventare aggressivo, incosciente dei pericoli e smetterà di scusarsi. E si metterà a nudo, somigliando di fatto al più antico antenato dell'uomo: la scimmia. Il pensiero di pancia e il vaffa è divenuto un'arma di distruzione di massa. Christian si fa emblema della classe dirigente nostrana: arrogante, cialtrona e tremendamente immatura. Al resto ci pensano la fragilità interiore dell'uomo (il senso di inadeguatezza morettiano e la paura), la dittatura della tecnologia e la bramosia di avidità e potere. Senza dimenticare quella dannata forbice, ormai sempre più allargata, che ci divide (sempre di più) in ricchi e poveri.
Ostlund mette a nudo la società europea a colpi d'ironia e di piccone (l'agognato preservativo dopo l'atto sessuale, la scena dell'assalto al buffet), buttando giù (metaforicamente) tutte le convenzioni, le strutture che la contraddistinguono. Il film segue questa strada anche tecnicamente: non chiude tutte le digressioni, i movimenti di macchina sono pochi e per niente invadenti, ha una durata ampia (oltre venti minuti sopra il muro delle due ore imposte dai produttori) e lascia parecchio spazio all'interpretazione dello spettatore che non si deve sentire chiuso nel ring del Quadrato. Cinematograficamente risente delle antiche provocazioni di Bunuel, di Lars Von Trier (Il grande capo), del cinema etico di Vinterberg (La comune e Il sospetto), del "piccione seduto su un ramo che riflette della sua esistenza" e del recente "Dio esiste e vive a Bruxelles" di Jaco Van Dormael (ricordate la scimmia?). Senza dimenticare alcune assonanze con "Reality" di Matteo Garrone (vedi i titoli) e con "La grande bellezza" di Paolo Sorrentino (il ballo notturno). Il buonismo applicato al bigottismo e alla perfezione sembrano pagare sempre di meno. Ed ecco il cinema assomiglia tremendamente al Quadrato di questo film. Peccato che non riusciamo ad elevarlo e a prenderlo sul serio come invece, spesso, meriterebbe. Non a caso il grido di aiuto lanciato dal bambino in un momento clou del film assume un significato che va oltre quello della pellicola stessa.
LA FRASE DA RICORDARE:
Se prendiamo la sua borsa e la mettiamo lì, questo la fa diventare arte?
I PUNTI DI FORZA
- La critica alla società e ai meccanismi dell'arte contemporanea (cinema compreso)
- L'ironia che permea il film
- La libertà (di ogni tipo) deve continuare a riprodursi per conservare lo spirito della società in cui viviamo
- Il protagonista Claes Berg è bravissimo a far emergere le contraddizioni di Christian
- La scena dell'assalto al buffet e la sequenza dell'uomo scimmia. Pura intelligenza
- Un film che si smarca volutamente e consapevolmente dalla mediocrità
- Gli omaggi al cinema europeo di Vinterberg, Von Trier e Van Dormael. Senza dimenticare "il piccione" di Andersson e le lezioni di Bunuel, oltre a Garrone e Sorrentino
- La descrizione tagliente della società dell'immagine, della donna rampante e dell'uomo manager che usa il suo potere per ottenere ciò che vuole
I DIFETTI
- La durata è eccessiva. Qualche taglio avrebbe giovato al ritmo generale della storia. Il tutto è frutto di una voluta provocazione di abbattere la durata media di due ore che spesso i produttori impongono
- Non piacerà a coloro che amano il politically correct
THE PLACE ***
(Italia 2017)
Genere: Drammatico / Fantasy
Regia: Paolo GENOVESE
Sceneggiatura: Paolo GENOVESE, Isabella AGUILAR
Cinematographer: Fabrizio LUCCI
Cast: Valerio MASTANDREA, Marco GIALLINI, Alba ROHRWACHER, Sabrina FERILLI, Silvio MUCCINO, Silvia D'AMICO, Rocco PAPALEO,. Vinicio MARCHIONI, Vittoria PUCCINI, Alessandro BORGHI, Giulia LAZZARINI
Durata: 1h e 45 minuti
Distribuzione: Medusa
Uscita italiana: 9 Novembre 2017
Trailer italiano qui
Febbraio 2016. Nelle sale italiane esce il ciclone "Perfetti Sconosciuti" (recensione qui). Un film che è diventato un piccolo cult. Gli smartphone sono davvero diventati la scatola nera delle nostre vite. Lì dentro sono custoditi i nostri segreti, le nostre ansie, le nostre più nascoste ambizioni, i nostri tradimenti. Paolo Genovese viene apprezzato anche fuori dall'Italia e gli incassi volano: oltre 17 milioni di euro solo nel Belpaese. All'estero presto uscirà un remake. Una cosa assai rara per il cinema italiano. Il regista romano si è sempre contraddistinto per film corali. Purtroppo però non è si è capito che la qualità di "Perfetti sconosciuti" era insita nella sceneggiatura. Il cinema italiano, purtroppo, non ha investito negli scrittori e questa lacuna si vede nel trito e ritrito panorama cinematografico tricolore. Genovese sapeva che per mantenere i livelli del film precedente, doveva osare e smarcarsi dalle solite commedie. "The place", film di chiusura dell'edizione 2017 della Festa del Cinema di Roma, sembrava andare in questa direzione e invece vi devo dare una triste notizia: tutta questa segretezza ha fatto male. È un'opera passiva che purtroppo non osa mai (come invece fa "The square"). Tutto è dannatamente superficiale, a cominciare da alcuni attori (cosa ci fanno attori da fiction tv come Puccini o Muccino al cospetto di Giallini o Mastandrea?). Invece dei segreti più nascosti insiti negli italiani, questa volta si parla del lato oscuro. Cosa fareste per ottenere quello che vorreste? Per farlo Genovese sceglie di avvalersi come spunto di partenza dalla serie tv del 2010 "The booth at the end". Nonostante la copi spudoratamente, il tentativo di smarcarsi e di far qualcosa di diverso è da apprezzare.
Ancora una volta siamo in uno spazio chiuso. Dimenticate la cena in casa di amici e anche il diner della serie Tv di riferimento (siamo in Italia) e collocate il misterioso Uomo (grande interpretazione di Valerio Mastandrea) in un angusto bar. Una sorta di arbitro tra il Bene e il Male, tanto per citare De Andrè. Lui sta tutto il giorno nel solito tavolo a sorseggiare caffè e Coca Cola light (altrimenti ingrassa e non può andare a correre per dimagrire). Sabrina Ferilli è la cameriera che lo serve tutto il giorno ed è l'unica che non chiede, ma esegue (particolare fondamentale). Ha solo un quaderno e una penna. Non sappiamo chi sia, come mai è lì. Da lui arrivano vari personaggi in crisi esistenziale che si affidano alle "sue cure" per uscire dai loro problemi quotidiani. Nella realtà dei fatti è come se lui non esistesse. È come se queste persone sognassero di parlare con la propria coscienza. Come la Regina cattiva di Biancaneve che parlava con lo Specchio. Non è Dio, è una sorta di fixer stile Josh Brolin di "Ave Cesare" dei Coen. Tutti hanno dei problemi e lui, in un certo senso, dà delle possibili soluzioni. Così tra vari controcampi in stile "Heat la sfida", ecco arrivare il poliziotto (Marco Giallini) che vorrebbe ritrovare i soldi di una rapina e riappacificarsi con il figlio (Silvio Muccino), un cieco che rivorrebbe la vista (Alessandro Borghi di "Suburra"), la suora (Alba Rohrwacher) che ricerca la bontà di Dio, una moglie perennemente insoddisfatta (Vittoria Puccini), un padre (Vinicio Marchioni) che vorrebbe far guarire il figlio da un tumore, il meccanico (Rocco Papaleo) che sogna il bunga bunga con una bomba sexy, una donna che vorrebbe essere più bella (Silvia D'Amico di "Fino a qui tutto bene") e un'anziana (Giulia Lazzarini di "Mia Madre" di Moretti) che rivorrebbe il marito malato di Alzheimer. Tutti sono pronti a far qualunque cosa pur di coronare il loro sogno proibito. L'Uomo (molto faustiano) allora tira fuori dal libro nero l'azione contrappasso da fare. Il prezzo da pagare è salatissimo. Ed ecco che questi antieroi dovranno compiere azioni gravissime: preparare una bomba, picchiare un uomo, violentare una donna, uccidere una bambina. Oppure, come nel caso della suora, farsi mettere incinta. Ma la telecamera è (teatralmente) sempre lì che indugia sul quel bar, su quel tavolo e, naturalmente, sulla faccia sorniona e impassibile di Valerio Mastandrea.
È lui che attira e catalizza tutto il film. Il suo carisma, la sua presenza scenica, le sue smorfie. È una sorta di Keyser Soze denoattri (Kevin Spacey stavolta non c'entra). Anche per il personaggio di Mastandrea si può dire che "la beffa più grande che il Diavolo abbia mai fatto è stato convincere il mondo che lui non esiste, e come niente... sparisce". Ho apprezzato il tentativo di Genovese di smarcarsi dalle solite commediole italiche, ma purtroppo questa pellicola soffre di una scrittura molto banale e caricaturale che non riesce a portare lo spettatore ad immedesimarsi come aveva fatto in "Perfetti sconosciuti". Tutto sa di sciatto e di costruito a tavolino e poi c'è quella dannata ansia di rimanere sotto le 2 ore di durata che costringe Genovese a comprimere la narrazione. Tutto diventa fumoso, retorico, superficiale e purtroppo si avverte la presenza della macchina da presa. Cosa che invece in "Perfetti sconosciuti" non ci si sognava nemmeno. Un esempio? La Ferilli che lavora tutto il giorno e a fine turno ha la camicia senza una macchia e i capelli perfetti. Beata lei. Colpa di una sceneggiatura un po' contraddittoria, fumosa, didascalica, a tratti banale, poco misteriosa che non coinvolge particolarmente perché l'eccesso di alcune situazioni non è tale. Genovese sembra preoccuparsi solo di far parlare i personaggi, di rientrare nei tempi prestabiliti, poi stacca e passa al successivo, fino al finale che sembra troppo gratuito e artificioso. L'esempio più calzante è la banale risposta di Mastandrea quando gli viene chiesto da che parte sta. E lui risponde "da questa". Dovrebbe essere misteriosa, ma purtroppo ha un chiaro retrogusto di non saper dove andare a parare. Il mistero dietro a quest'operazione (che è ovviamente commerciale) ha fatto male al film e illude lo spettatore. La pubblicità ha amplificato quest'aspetto convincendo la gente che è qualcosa con cui prima o poi devi fare i conti. Non è un caso che Paolo Genovese, prima di diventare regista, era un pubblicitario. Ora più che mai nel cinema italiano serve appendere un cartello con scritto: "AAA Cercasi sceneggiatori". Disperatamente, aggiungo.
LA FRASE DA RICORDARE:
- Perchè chiede cose così orrende?
- Perchè c'è gente che è disposta a farle.
I PUNTI DI FORZA
- La voglia di Genovese di spiazzare e di uscire dai soliti schemi. Il cinema italiano raramente punta sul rischio
- Il talento di Valerio Mastandrea che catalizza il film
- Alcune situazioni sono divertenti
- L'atmosfera e la fotografia del film
- La bravura di attori come Marco Giallini, Rocco Papaleo, Silvia D'Amico, Alessandro Borghi e soprattutto Giulia Lazzarini
I DIFETTI
- La recitazione da fiction televisiva di Silvio Muccino e Vittoria Puccini
- La sceneggiatura sa di artificioso e costruito a tavolino. L'idea non è originale
- Si avverte la presenza della telecamera
- Alcune cose un po' sciatte e fumose (vedi la cameriera Ferilli sempre perfettina)
- Il clima misterioso rovinato da battute piuttosto forzate
- L'ansia di Genovese di stare sotto le due ore di durata che lo costringe a comprimere la narrazione e a non approfondire il perchè di alcune situazioni/ personaggi
- La mancanza di idee che vengono sostituite da alcuni eccessi/provocazioni che finiscono per non essere tali