Mercoledì, 18 Gennaio 2017 00:00

Un orso in sala (Silence, The Founder, Allied)

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La fede riguarda l’individuo. Si crede in qualcosa di trascendente sulla base di ciò che si sente in modo indefinibile. Nessuna religione riesce però a vivere senza una struttura, un’organizzazione, che codifica, schiarisce l’orizzonte dei sentimenti. Martin Scorsese presenta un film in cui i gesuiti sono vittime e il buddhismo si fa carnefice, nel Giappone del 1600.

Una pellicola di circa due ore e quaranta minuti, sommessa e solenne, spesso capace di dare l’idea di trovarsi in un museo, con quadri capaci di trasmettere più delle immagini che propongono. Il film non si presta a una facile esperienza. Con lo spirito sbagliato la pellicola può trasmettere noia, mentre con facilità il senso può essere frainteso. Lo sguardo è cristiano, il dubbio viene interpretato in chiave cattolica, il contesto storico affrontato senza pregiudizi, ma rimane definito in modo limitato. Per fortuna non contano le risposte, ma le domande. In questo Silence si propone come una delle uscite più interessanti degli ultimi anni ed è una sfida anche per i non credenti. Un cinema che sa parlare ed è utile per una maggiore comprensione di sè stessi, in grado di farsi imponente.

The Founder si propone in modo più scontato, giocando tutto sulla riscoperta di Michael Keaton e sulla presunta indignazione da provare nello scoprire la vera storia della catena Mc Donald’s. C’è un capitalismo buono, fatto di piccoli imprenditori e buona volontà. Poi ci sono quelli in cui prevale la tenacia e la sete di successo, spesso corrotta da un contesto che non permette di esprimere in modo adeguato l’ambizione dell’attore economico. A frangenti la regia regala ottime sequenze, ma nel complesso il film è più faticoso e meno brillante di come vorrebbe apparire.

Allied merita invece una particolare menzione positiva. Aveva tutti gli elementi per finire come uno dei tanti prodotti statunitensi di propaganda. Era lecito aspettarsi un film dai nomi roboanti e dallo scarso contenuto. Riesce ad essere un intrattenimento di genere, a rimanere imbevuto di sentimenti struggenti, senza convincere lo spettatore di essere scontato. La trama permette al registro narrativo di mutare almeno in tre punti, ben equilibrati tra loro. Zemeckis è del mestiere, lo si riesce apprezzare soprattutto quando le luci si riaccendono in sala e tutti i tasselli vanno al loro posto. L’insieme non è sconosciuto ma anche la familiarità ha i suoi pregi. Le sensazioni regalate sono di superficie, di facile fruizioni, ma comunque efficacemente concertate.

Ultima modifica il Martedì, 17 Gennaio 2017 21:39
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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