Sullo sfondo, oltre al trasferimento nella città dell'ambasciata statunitense e alle proteste che la forzatura di Trump ha generato, stanno le proteste palestinesi alla frontiera di Gaza che da due mesi coinvolgono migliaia di palestinesi, nonostante la feroce repressione israeliana.
Anche questa settimana ne parliamo a più mani.
Da qualche mese a questa parte il conflitto israelo-palestinese è tornato sotto i riflettori dei media mondiali che, finito il breve picco d'interesse legato al percorso del riconoscimento istituzionale di uno stato palestinese, lo avevano altrimenti seguito poco o male. Le cause di questo rinnovato interesse stanno da un lato nei fatti seguiti al ricollocamento dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme, d'altro canto – e forse maggiormente – nei tragici fatti di sangue al confine con la striscia di Gaza.
Dallo scorso trenta marzo infatti i palestinesi di Gaza si sono mobilitati in uno degli episodi di lotta più intensi dell'ultimo decennio nella cosiddetta Grande Marcia del Ritorno, per chiedere la fine dell'occupazione israeliana, il riconoscimento ai profughi palestinesi espulsi e fuggiti in Paesi arabi vicini a seguito della guerra d'indipendenza israeliana del diritto al ritorno e in generale migliori condizioni di vita per la popolazione del martoriato lembo di terra, che a seguito delle distruzoni arrecate dalle operazioni militari “Cast Lead” e “Protective Edge” degli scorsi anni e del blocco economico quasi totale da parte israeliana versa ormai in condizioni disperate.
Alle proteste della popolazione di Gaza alla frontiera tra Striscia e Israele quest'ultimo ha infatti risposto con una violenza inaudita, uccidendo 123 palestinesi tra cui giornalisti e medici intenti a soccorrere i feriti, come la giovanissima infermiera Razan Al Najjar, uccisa da un colpo alla schiena nonostante fosse chiaramente identificabile come personale di soccorso, in spregio alle più basilari norme del diritto internazionale (la Corte Penale Internazionale, cui la Palestina – ma non Israele – partecipa sembrerebbe tra l'altro pronta a mettere sotto accusa la condotta dei cecchini israeliani, vedi qui). Per contrasto, le truppe israeliane, nonostante i goffi tentativi propagandistici di Governo e comandi militari di descrivere i manifestanti palestinesi come aggressori posseduti da una furia belluina, hanno subito un solo ferito lieve, forse da fuoco amico. Una sproporzione nell'uso della forza che rende chiara la situazione a chiunque non abbia perso il contatto con la realtà.
L'annullamento dell'amichevole calcistica tra nazionale argentina e Israele, come il rifiuto dell'attrice Natalie Portman di presenziare al conferimento di un premio israeliano e in generale i molti segnali di fastidio di personaggi e istituzioni per la condotta di Israele che si sono moltiplicati dall'inizio dell'anno ci parlano di un “brand Israele” che sta diventando sempre più tossico e respingente, anche per coloro che in passato hanno sempre supportato le ragioni israeliane.
Israele, insomma, si starebbe imponendo in un impeto megalomaniaco ed autolesionistico una sorta di auto-BDS, i cui effetti sono ad oggi difficili da prevedere. In passato la logica dell'isola abbandonata contro tutti in mezzo a nemici ostili ha contribuito a rafforzare la presa delle correnti più belliciste e reazionarie sulla politica e nella società israeliana, ma bisogna pure ricordare che la storia non è scritta, e che certamente non si ripete all'infinito.
Non è un male che assuma una proiezione politica, in senso alto. Dispiace però che troppo spesso si riduca al tifo ogni tentativo di "innalzamento", anche quando un episodio importante accade e meriterebbe una lunga serie di riflessioni su come si agisce per sostenere il popolo palestinese, nella difesa dalle discriminazioni subite quotidianamente.
L’Argentina fu, durante la più recente guerra mondiale, il Paese che più di tutti tra quelli del Sudamerica inclinò verso l’orbita tedesca. Gli Alleati non se ne dimenticarono; a sei settimane dalle elezioni argentine del 1946 l’amministrazione Truman fece circolare il «Blue book», un rapporto in cui si denunziava il sostegno di Buenos Aires all’Asse e si sosteneva un coinvolgimento diretto tra Perón e il Partito nazista. Il Blue book non impedì a Perón di vincere le presidenziali, sconfiggendo la coalizione tra social-comunisti e radical-progressisti. Il suo governo fu improntato in effetti a una politica dai toni fascisti, che si concretizzò sia nel fornire rifugio a criminali in fuga dall’Europa (ad esempio i fascisti russi, che si erano asserragliati nel Liechtenstein sotto la protezione del principe) sia nel perseguimento della “terza posizione” tra capitalismo e socialismo.
Il dilemma che allora si pose alle sinistre fu se Perón andasse osteggiato, in quanto simil-fascista, oppure sostenuto, in quanto spina nel fianco dell’imperialismo statunitense.
Ufficialmente sembra che il governo Macri abbia tenuto una posizione terza nella crisi e dichiarazioni israeliane negano che i rapporti tra i due Paesi abbiano risentito negativamente dell’accaduto. Resta il fatto che, oltre ai trascorsi filo-fascisti, l’Argentina ospita anche la più numerosa comunità musulmana del Sudamerica. Macri potrebbe così trovarsi stretto fra le istanze politiche e tradizionali del suo Paese e l’asse guerrafondaio Trump-Netanyahu. La provocazione di imporre Gerusalemme quale palco internazionale per esibire i muscoli del regime è solo l’ultimo, e non certo il più offensivo, degli atti con i quali il governo israeliano ha perseguito, accelerando negli ultimi anni, la sua politica militarista e discriminatoria.
Ma soffiare troppo sul fuoco può essere pericoloso. Il principale timore di Israele riguardo la vicenda dell’amichevole annullata pare essere l’effetto domino che potrebbe dar luogo a ulteriori boicottaggi dello Stato ebraico.
Cosa succederebbe se i Mondiali si giocassero in Israele? Realisticamente, nessuna rappresentativa calcistica nazionale boicotterebbe un tale evento sportivo. Neppure l'Argentina, che già ha fatto notizia annullando una semplice amichevole in terra israeliana.
Il che dovrebbe far riflettere su quello che è quasi sempre nello sport il rapporto ineguale fra interessi economici e valori umani.
La FIFA si è resa protagonista di tante campagne di sensibilizzazione (sull'antirazzismo o il cambiamento climatico) ed è stata coinvolta in misura persino maggiore in scandali di corruzione dalla portata enorme. Pare insomma che le azioni virtuose vengano fatte solo quando c'è poco da perdere: l'Argentina non può permettersi di saltare un Mondiale, un'amichevole sì. Lo stesso vale per molti famosi musicisti che non finiscono certo sul lastrico se non fanno un concerto a Gerusalemme o Tel Aviv.
Trovo ridicole le argomentazioni di chi vede nel boicottaggio a Israele uno strumento utile solo a incrementare odio e anti-semitismo. Il bersaglio non è l'etnia ebraica ma la politica israeliana, disumana e criminale nei confronti del popolo palestinese. Ma come recentemente il Giro d'Italia ha dimostrato, riporre troppe speranze di cambiamento nello sport, è quantomeno illusorio.
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