Al di là del triste spettacolino della conta dei gol che ha impegnato negli scorsi giorni le varie compagini che animano la politica italiana, tra accuse di incoerenza e vanterie su questo o quel punto in più o in meno, e al di là della stessa vicenda ILVA, restano in ombra nel dibattito italiano questioni strutturali.
Chi oggi ha tra i venti e i trent'anni e si interessa (o si è interessato) di politica ricorda sicuramente l'ascesa dei partiti “Verdi” a livello europeo, negli anni che vanno dallo sfaldamento dell'URSS al decennio '00. Spinto dal logoramento ideologico della sinistra e del centrosinistra tradizionale oltre che dalla marea montante del No global e dal riflusso della New Left post-sessantottina l'ambientalismo in quegli anni incassava un discreto successo alle urne in molti Paesi e si creava addirittura una declinazione pop, il cui esempio più stridente è forse il docufilm “Una scomoda verità” di Al Gore (2006). Poi, la crisi economica mondiale, ben più rapidamente dell'anidride carbonica e delle acque ghiacciai in via di scioglimento, ha inghiottito la vita quotidiana del mondo capitalistico; ed il verde, con qualche rara eccezione e qualche colpo di coda, ha smesso di essere il colore della militanza e delle scelte elettorali di ciò che iniziava ad autodefinirsi – un po' retoricamente - “99%”.
Ma se l'ambientalismo di inizio millennio – che è idealmente in larga parte l'ambientalismo contemporaneo – scontava una serie di problemi gravi di analisi e di prospettiva, da una concezione assolutamente liberal dei rapporti di classe alla malaccorta trasformazione di questioni politiche in questioni di stile di vita, con conseguente sovraccarico della dimensione individuale (che è d'altra parte il fatale rovescio oscuro della medaglia della politicizzazione del personale), la questione ambientale che poneva non ha perso di pregnanza.
Il tanto discutere e deliberare attorno a concetti come “ambientalizzazione” e “livelli occupazionali” non può infatti cancellare i problemi fondamentali del capitalismo industriale, di ogni capitalismo industriale. Come sostenuto da Karl Polanyi, lavoro e natura, che l'industrialismo deve trasformare in “merci fittizie”, rimangono le realtà della vita dell'uomo e dell'ambiente naturale e costruito in cui quest'ultimo vive, che vengono mercificate solo al prezzo di una violenza distruttiva. È questa la radice della scelta impossibile posti di lavoro conto tutela dell'ambiente contro cui troppe volte ci si schianta, finendo alla fin fine per sacrificare l'uno e l'altra.
Occorre percorrere la via della reintegrazione, affidandosi alla tecnologia ed alle migliorie possibili nello spazio della politica “borghese” quando (e quanto) si può, e proteggendo persone e ambiente piuttosto che posti di lavoro là dove politica e tecnologia non possono arrivare. Bisognerebbe però, preliminarmente, almeno darsi gli strumenti per agire.
C’è da essere soddisfatti per l’accordo raggiunto tra Arcelor Mittal e i sindacati metalmeccanici con l'intervento del governo (confermato da un referendum tra gli operai con un sonoro 94% dei votanti).
Ora si apre una nuova importante partita, ovvero il rispetto degli accordi presi per l’occupazione e, soprattutto, l’ambiente. Non sarà impresa facile visto anche la volubilità di un governo e del ministro del lavoro Di Maio che sono passati da una posizione rigida di chiusura completa (in campagna elettorale) all’esultanza per il mantenimento del plesso industriale.
Era assolutamente necessario che la fabbrica siderurgica più grande d’Europa non venisse chiusa per l’Italia ma soprattutto per la città di Taranto.
Qui oltre ai tumori, dovuti al barbaro modo tutto italiano di fare impresa, si muore e si scappa per disoccupazione e precarietà.
Secondo il rapporto Svimez del 2018 negli ultimi 16 anni hanno lasciato il Mezzogiorno 1 milione e 883mila residenti: la metà giovani di età compresa tra i 15 e i 34 anni, quasi un quinto laureati, il 16% dei quali si è trasferito all’estero. Ci rendiamo conto che siamo di fronte a una migrazione che ha assunto (ormai da tempo) connotati di massa. Ancora una volta non sono state messe in campo politiche occupazionali e fiscali che favoriscano non solamente l’occupazione e l’impresa al Sud ma anche il rientro dei giovani nei loro paesi di provenienza.
Ciò si otterrebbe anche con l’intervento dello Stato direttamente nelle imprese strategiche rimaste (di qui la giusta richiesta di Landini e della Cgil affichè lo Stato entri in Ilva). Non è più possibile, pena la desertificazione economica, industriale e culturale, lasciare tutto alle mani del mercato. Sembrerebbe che questa posizione sia stata assunta da più parti rispetto a quanto avvenuto negli ultimi trenta anni appena trascorsi. E non è cosa da poco.
Dalla triangolazione fra governo, sindacati e Arcelor Mittal è uscito un accordo che ha generato non poche controversie. Non è la realizzazione del progetto dei Cinque Stelle, che prevedeva di chiudere lo stabilimento e impiegare i lavoratori nelle bonifiche ambientali. Tuttavia, il principio di realtà ha fatto sì che si cedesse alla continuazione della produzione negli stabilimenti Ilva senza una nazionalizzazione.
L'accordo prevede: l'assunzione di 10.700 lavoratori di cui 8.200 riassunti a tempo indeterminato invece dei 10.000 con centinaia di esuberi della proposta Calenda; un piano di incentivi agli esodi volontari - circa 2000 - che prevede 100.000 euro lordi per il lavoratore che decidesse di andare via subito; 4,2 miliardi di investimenti da parte di ArcelorMittal sul piano industriale e ambientale
L'accordo è passato con quasi il 90% dei voti favorevoli in gran parte degli stabilimenti. Dunque, tra i lavoratori vi è la percezione che il massimo raggiungibile nella trattativa sia stato ottenuto. Ciò che resta nascosto tra le pieghe dell'accordo e sommerso dal realismo politico è l’immunità penale per gli inquinatori che ancora una volta non pagheranno, scaricando i costi sugli operai. I lavoratori che verranno riassorbiti, lo saranno solo sulla base di un aumento della produzione, con tutto il carico di morte che questa comporta in stabilimenti non a norma.
Una buona notizia? Lo si misurerà sul medio periodo. Di certo è che si tratta di una soluzione, dopo una lunga fase di stallo.
Il Governo Lega-5 Stelle nasce come risposta politica, dopo i tentativi falliti di grandi coalizioni tecniche (e a seguito della sconfitta referendaria di Matteo Renzi). Siamo quasi disabituati a una realtà in cui si impone una dimensione in cui ci si confronta anche a partire da visioni del Paese, attraverso il confronto di parti sociali del tutto prive di "cinghie di trasmissione", rispetto alle due formazioni che compongono la maggioranza giallo-verde.
Landini rivendica il merito di una strada di difficile da considerare al momento: è evidente come questa sia considerata la migliore delle soluzioni possibili.
Un futuro inizia a prospettarsi. Resta da vedere quanto bui fossero gli altri mondo possibili e ancora oggi continua a mancare un'alternativa radicale in grado di ragionare di piani industriali, riqualificazione ambientale, piena occupazione, ... . Senza affrontare il tema del "capitale", difficile risolvere ogni altra contraddizione, compresa quella ambientale.
Ma questo, in effetti, non è una sorpresa: tutta la strategia di Di Maio come duplice ministro del Lavoro e dello Sviluppo, e quindi la strategia del M5S e di chi lo comanda, consiste nel diminuire l’occupazione in Italia, in modo da fiaccare le forze produttive del Paese e le forze morali della sua popolazione. Su questo binario vanno anche il decreto Di Maio e le chiusure domenicali. Semmai ciò che stupisce stavolta è l’inversione di rotta, ossia il rifiuto di chiudere l’Ilva e di decretare così la morte industriale di Taranto.
L’Italia manca di un piano industriale da decenni e i mesi di rimbalzi istituzionali e di dietrofront sull’ILVA sono la rappresentazione plastica della mancanza di visione complessiva delle nostre classi dirigenti. L’idea originaria del M5S per l’ILVA era quella di una sua chiusura e riconversione economica, mentre lo stesso Di Maio, dopo i fatti del ponte Morandi a Genova, si è fatto paladino di un piano di nazionalizzazioni che resta però molto evanescente. Alla fine, come era abbastanza prevedibile, niente di tutto questo si è realizzato. A ben vedere, l’accordo di vendita al colosso dell’acciaio Arcelor Mittal ricalca la proposta già avanzata da Calenda. Non c’è nulla di male in questo, ma è ormai evidente il bluff di un Movimento 5 Stelle autoproclamatosi paladino dell’ambiente, capace di produrre una rottura sistemica e un diverso modello di sviluppo grazie allo strabordare di idee e piani innovativi partoriti dalla rete.
Piuttosto, Di Maio si è dimostrato estremamente pragmatico e istituzionale. Bisogna dare atto al Ministro del lavoro di aver saputo coinvolgere pienamente i sindacati, mettendoli nelle condizioni di trattare direttamente con Arcelor Mittal e il risultato è quello di un accordo tutto sommato positivo per i lavoratori degli stabilimenti, un compromesso che salvaguarderà i posti di lavoro e la retribuzione, andando un po’ a migliorare quello che era già previsto nel piano Calenda. Restano però molte incognite sull’ambiente perché se è vero che sono previsti a carico della nuova proprietà importanti investimenti per i principali interventi ambientali, non sembrano esserci sufficienti garanzie che quando verrà ripresa la produzione a pieno regime lo stabilimento di Taranto riuscirà a garantire la salute dei cittadini e l’integrità ambientale del territorio. L’augurio è che Taranto possa smettere di vivere fra l’incudine della mancanza di lavoro e il martello dei danni ambientali e che possa ritrovare nuova vita, ma questo accordo non lascia eccessivo ottimismo sul futuro della città pugliese.