Un U-Boot tedesco in dotazione alla Marina Imperiale del Giappone durante la Seconda Guerra Mondiale, il Ro-500, è stato ritrovato nelle acque a largo della Prefettura di Kyoto. Il mezzo, un U-511 lungo 77 metri, era stato prodotto in Germania nel 1941 e ceduto ai nipponici nel 1943. Nel 1946 venne affondato dagli Alleati.
Altri due sottomarini prodotti da Kawasaki Heavy Industries e da Mitsubishi Heavy Industries sono stati trovati poco distante: si tratta rispettivamente di uno I-121 e di un Ro-68. Ad effettuare la scoperta è stato un gruppo di ricerca della Society La Plongee for Deep Sea Technology guidato da Tamaki Ura, professore presso l'Istituto di Tecnologia del Kyushu.

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Giovedì, 08 Febbraio 2018 00:00

Macerata: il sonno della ragione

Macerata: il sonno della ragione

Macerata, un fascista prende la pistola ed incomincia a sparare in piazza con un solo obiettivo: uccidere persone di colore. Undici persone ferite e di cui sei ferite gravemente, una strage evitata per pura casualità, un attentato mirato a creare terrore nel vero senso della parola.

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Curdi carne da cannone. Sono i nostri compagni eroici, difendiamoli

Quelle milizie curde e quei loro alleati appartenenti alle varie etnie e religioni della Siria (arabi, siriaci, turcomanni, yazidi, alauiti, ecc.) che hanno per primi sconfitto gli stragisti di Daesh armati e pagati da Turchia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar sono da due giorni sotto attacco, nel loro cantone di Afrin, il più occidentale, da parte dell’aviazione e dell’artiglieria della Turchia. La Turchia inoltre ha dichiarato di voler procedere con l’invasione di terra con suoi carri armati e sue truppe. Inoltre ha dichiarato che suo ulteriore bersaglio è la città di Manbij, liberata a suo tempo dai curdi e da milizie arabe e turcomanne loro alleate e governata da un consiglio democraticamente eletto dalla sua popolazione. Nel frattempo sono già in movimento verso Afrin le milizie delle cosiddette Forze Democratiche Siriane, ostili al governo siriano e alla Russia, composte da tagliagole provenienti dal riciclaggio turco dei vari gruppi islamisti radicali in campo in questi anni, da Daesh ad al-Qaeda ad altri minori. Ad essi viene affidato il compito di rompere la tenuta delle milizie curde e di massacrare la popolazione curda.

La Turchia rivendica la sua azione a nome di un suo diritto a difendersi da minacce lungo le sue frontiere: minacce che non sono mai esistite. In realtà la Turchia occupa un tratto di territorio siriano, spezzando così la continuità del territorio in mano curda. In questo tratto c’è la città di Jarabulus, l’antica Hyerapolis: nella quale ha immediatamente operato a cacciare i curdi, ha portato turchi e turcomanni a essa legati, ha imposto l’insegnamento del turco nelle scuole, la legislazione turca, ecc. Attraverso quest’occupazione le truppe turche risultano collegate al complesso delle formazioni islamiste radicali che occupano l’area della città di Idlib, forniscono a queste sistematicamente armi e mezzi di sostentamento, possono trasportarne i feriti in Turchia ecc. Più in generale, la Turchia guarda alla conquista di Aleppo: la cui realizzabilità dipende dal fatto che la situazione siriana anziché evolvere verso la fine delle sue molteplici guerre ne veda il rilancio massimo possibile. Giova rammentare come il governo turco abbia recentemente dichiarato il ripudio di quel Trattato di Losanna (1923) che ne definì gli attuali confini e come essa ora rivendichi aree in mano greca (alcune isole dell’Egeo, la Tracia greca), in mano siriana (l’area di Aleppo), in mano irachena (l’area di Mosul), nella quale anzi ha recentemente spostato truppe in quattro località.

La Russia dopo l’abbattimento da parte turca di un suo aereo militare aveva collocato suoi soldati nel cantone di Afrin e precisamente sul suo confine turco, ciò che significava l’impossibilità per la Turchia di invaderlo, quindi solo la possibilità (continuamente effettuata) di bombardarlo, soprattutto con l’artiglieria. Appena iniziati i recenti bombardamenti aerei la Russia ha ritirato le sue truppe. Il rapporto con la Turchia, l’intenzione di non riconsegnarla agli Stati Uniti sono evidentemente le cose che per la Russia contano, non già i diritti di una popolazione che ha combattuto anche per conto della stessa Russia. Quanto agli Stati Uniti, una settimana fa avevano formalmente dichiarato ai responsabili curdi di non sentirsi impegnati contro un eventuale attacco turco al cantone di Afrin. Evidentemente la logica statunitense risulta simmetrica a quella russa. La Russia ha dichiarato di considerare gli Stati Uniti responsabili di un disagio della Turchia dinnanzi all’armamento pesante da essi consegnato alle milizie curde, e che ha consentito a queste ultime, ripulita la Siria orientale da Daesh, di costruire un’entità fortemente autonoma nella Siria orientale. Ma la Russia non aveva dichiarato di sentirsi impegnata dalla prospettiva di una Siria confederale, dove ogni etnia o religione fosse in grado di esercitare i suoi diritti, cosa questa che in Medio Oriente necessariamente significa essere armati?

Gli Stati Uniti a loro volta hanno ieri chiesto a Turchia e a milizie curde di “fermarsi” e di “trattare” guardando solo al residuo di lotta a Daesh e compagnia. Sarà dura, dopo aver concesso alla Turchia di avviare l’attacco al cantone di Afrin.
Il Regno Unito ha dichiarato ieri di condividere pienamente l’azione di una Turchia minacciata sui suoi confini da un’entità aggressiva. Evidentemente è in ballo una trattativa commerciale tra Regno Unito e Turchia, oppure è in ballo qualche grossa fornitura d’armi. Come dice il proverbio, pecunia non olet. Giova solo rammentare come il traffico di armi sia il secondo grande business planetario, quindi un fattore di guerra addirittura indipendente dalla politica.

Il silenzio dal lato dell’Unione Europea è semplicemente assordante. La RAI ne parla per circa cinque secondi, in attesa di ordini di governo. Insomma l’attuale canagliaio mondiale grande e piccolo ha mostrato per l’ennesima volta di essere, non la soluzione del disastro mediorientale, ma uno dei suoi fondamentali attori. Agiamo come ci è possibile a difesa dei nostri compagni curdi, sono un faro di civiltà e di umanità in un pianeta che sta sprofondando. Se verranno soppressi il pianeta intero ci andrà di mezzo: tutti stanno riarmando, tutto sta marciando verso l’allargamento e la sinergia tra i conflitti in atto, e le armi usate, continuando così, saranno anche quelle atomiche. Già gli Stati Uniti lo dichiarano.

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Giovedì, 28 Settembre 2017 00:00

Religioni di pace o di guerra?

Si conclude la terza edizione del Festival delle Religioni, la manifestazione fiorentina che si pone l’obiettivo di parlare di religione e degli influssi che essa ha nella società, “ponendo una lente di ingrandimento non soltanto su ciò che unisce ma anche su ciò che divide, su ciò che spesso è motivo di scontro, affinché una più approfondita conoscenza delle differenze arricchisca il panorama culturale del nostro mondo” . Qui vi proponiamo una sintesi della conferenza pomeridiana “Religioni di pace o di guerra?” che ha visto la partecipazione di Michel Maffesoli, sociologo di fama internazionale e professore di Scienze Umane presso l’Università della Sorbonne di Parigi, e di Ernesto Galli Della Loggia, editorialista del Corriere della Sera e professore ordinario di Storia Contemporanea presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane (SUM). Ha moderato Alberto Negri, inviato speciale del Sole 24 Ore, esperto di politica internazionale e Medio Oriente.

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Venerdì, 25 Agosto 2017 00:00

Perché tutti parlano del terrorismo?

Perché tutti parlano del terrorismo?

Perché tutti parlano del terrorismo? (Spesso a sproposito).

Ci risiamo: anche a Barcellona è arrivato il terrorismo, un attentato 'firmato' Isis (e pare altri due nelle ultime ore, uno in Germania ed un altro addirittura in Finlandia). Oltre al naturale sgomento per quanto accaduto e al cordoglio per le vittime (e un po' di umana paura) c'è un'altra piaga che ossessiona il 'day after': i discorsi della gente che, da una parte e dall'altra, si susseguono sempre uguali ad ogni occasione.

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Trump e sauditi: il filo di sangue che li unisce

Gli eventi della settimana appena trascorsa restituiscono un quadro definito dalla visita storica di D.Trump a Riad. Una visita che è centrale per capire il quadro mediorientale e non solo. Il Presidente americano infatti ha voluto stabilizzare l'asse coi sauditi e le monarchie del Golfo Persico al fine di incrementare il fatturato della macchina militare statunitense, divenuta sempre più vorace. L'accordo siglato per la vendita di armi statunitensi ai sauditi per 110 miliardi di dollari ne è la dimostrazione.

Come sempre il discorso economico è abbellito dai discorsi ideologici e quindi troviamo la solita retorica americana del Bene contro il Male, per cui secondo Trump con i sauditi "si può vincere (il terrorismo) solo se le forze del bene saranno unite". Queste le forze del Bene: gli Stati Uniti e i loro alleati wahabiti. Le forze del Male vengono invece identificate chiaramente nei musulmani sciiti. Un discorso che è un toccasana per la pace in Medio Oriente come può intuire qualsiasi. Ma non solo, Trump è stato ben più esplicito, definendo l'Iran la "punta di lancia dei terroristi nel mondo". Ecco che il nuovo nemico in Medio Oriente è identificato.

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Martedì, 04 Aprile 2017 00:00

Terrorismo: perché "not in my name"

Terrorismo: perché "not in my name"

L'ultima vittima è stata Londra, prima c'era stato Berlino, prima ancora Nizza. Tra qualche tempo probabilmente un'altra città diventerà teatro degli orrori. Tanti sono purtroppo gli episodi in cui dei terroristi attaccano le nostre città, causando ovunque orrore e una giusta e naturale reazione della società civile. Ma la naturale reazione della società civile non è più tanto giusta quando porta a gettare odio e pregiudizio verso una comunità, quella islamica, accusata in blocco di essere causa del terrorismo.

A questo atteggiamento consegue e si contrappone la reazione islamica che si sente in dovere di dichiarare con manifestazioni pubbliche che gli atti di violenza non sono responsabilità loro, sono appunto "not in my name". Personalmente trovo che questa reazione non sia molto 'comprensibile': nel senso, ovviamente non sto dicendo che è sbagliato che delle persone dichiarino il loro sdegno per la violenza e vogliano staccarsi dai terroristi, ma sono convinta che non dovrebbe essere necessario. Infatti è uno dei capisaldi del nostro codice penale che la responsabilità penale è personale quindi se un terrorista compie una strage questa è imputabile esclusivamente a lui. Quindi tutto il resto della comunità islamica può dormire sonni tranquilli senza bisogno di manifestazioni pubbliche di condanna del fatto.

Ma dato che questo non accade qualcosa evidentemente non va per il verso giusto: perché i media italiani sembrano ossessionati dalle manifestazioni del mondo islamico, al punto da dedicargli abbastanza spazio? Probabilmente la risposta sta nel pregiudizio che purtroppo offusca i nostri giudizi su una certa etnia.

È come se non riuscissimo a capacitarci dell'esistenza di islamici buoni e quindi avessimo bisogno di vederceli davanti agli occhi. Ma riflettiamo: in occasione di una strage di mafia abbiamo bisogno che tutti i siciliani dichiarino di non essere mafiosi? Forse ahimé sì! Ma se nella nostra cerchia di amici abbiamo una famiglia palermitana non penso che automaticamente inizieremmo a pensare di non invitarli a cena per paura di essere uccisi.

Quindi qual è la differenza? Tutto sta nel grado di conoscenza che ci lega alle persone. Quindi dobbiamo fare lo sforzo di non ragionare per categorie e vedere (e soprattutto giudicare) ogni persona per quello che è. Quando avremo nella nostra cerchia di amici abbastanza famiglie "di colore" (posto che non tutti gli islamici sono neri, e ovviamente non tutti gli islamici sono terroristi) riusciremmo a capire che non tutti sono terroristi e quindi non ci sarà più bisogno di manifestazioni 'Not in My Name'. Non ci resta che aspettare!

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Mercoledì, 06 Luglio 2016 00:00

Erdoĝan annaspa

L’attentato all’aeroporto di Istanbul, stando alla stampa italiana, sarebbe senz’altro attribuibile a Daesh. Le caratteristiche anche tecniche di quest’attentato richiamano effettivamente quelle degli attentati di Daesh in territorio siriano, iracheno, europeo, asiatico. Tuttavia Daesh ha sempre rivendicato i suoi attentati, e nessuno di quelli sofferti dalla Turchia sono stati rivendicati da Daesh. O meglio esso ha rivendicato in passato alcune operazioni effettuate in Turchia contro singole persone, come curdi legati alla militanza PYD del Rojava e operanti a ridosso del confine siriano. Inoltre sono senz’altro imputabili a Daesh (in collaborazione con i servizi di intelligence del MİT, la polizia e il governo AKP del pazzo criminale Erdoĝan) le stragi di Diyarbakır e Suruç del luglio del 2015, che colpirono rispettivamente un comizio elettorale del partito curdo legale HDP e una manifestazione di solidarietà di organizzazioni giovanili di sinistra con i combattenti curdi di Kobanê (Suruç è sul confine siriano), e la strage ad Ankara dell’ottobre successivo, che colpì un comizio elettorale sempre dell’HDP (ricordo che nel 2015 ci furono due momenti elettorali in Turchia).

A rendere dubbia, inoltre, tutta quanta la ricostruzione da parte turca dell’attentato all’aeroporto di Istanbul c’è che a una decina di giorni prima il MİT (o meglio un suo pezzo) aveva dichiarato al governo di ritenere prossimo un attentato in questa città, che il medesimo preavviso era stato dato dai servizi statunitensi, e che l’aeroporto di Istanbul era stato segnalato come uno dei possibili bersagli. Ancora, a rendere più che dubbia la ricostruzione del governo ci sta il fatto che la sorveglianza di polizia e militare dell’aeroporto non era stata rafforzata. Alimentare la “strategia della tensione” a suon di bombardamenti e massacri è stato da due anni a questa parte uno strumento fondamentale della politica interna di Erdoĝan, sia per conto della tenuta del consenso di cui dispone nella popolazione turca che a giustificazione, in una situazione di crescente isolamento internazionale, della sua guerra alla popolazione curda del sud-est.

Non si può tuttavia escludere in radice l’ipotesi che l’attentato all’aeroporto di Istanbul sia stato davvero effettuato da Daesh, sulla scia del deterioramento in corso dei rapporti Erdoĝan-Daesh. Adottiamo per un momento quest’ipotesi. Come i summenzionati attentati a Diyarbakır, Suruç e Ankara era inopportuno che fossero rivendicati da Daesh, perché avrebbero messo in chiaro il legame cooperativo Erdoĝan-Daesh e avrebbero danneggiato le campagne elettorali del partito di governo AKP, così una mancata rivendicazione da parte di Daesh dell’attentato all’aeroporto di Istanbul potrebbe significare che esso non dia per scontata una rottura politica definitiva con la Turchia, e che sarebbe appunto per impedirla che abbia realizzato quest’attentato. Esso cioè rappresenterebbe questo messaggio al potere turco: “o continui ad appoggiarci o noi continueremo a colpirti con stragi disastrose”.

Il deterioramento dei rapporti Erdoĝan-Daesh è in ogni caso reale. Questi rapporti erano parte, dal lato di Erdoĝan, di più ragionamenti. Il primo, la fungibilità di Daesh, e delle altre organizzazioni armate sunnite, all’obiettivo, attraverso la devastazione della Siria, di portarla o di portarne una parte sotto controllo politico turco, nel quadro dell’obiettivo megalomane della ricostituzione del califfato ottomano. Il secondo, il fatto che Daesh appariva un partner importante, come altre organizzazioni armate sunnite, prima di tutte al-Qaeda, dello schieramento di stati (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Bahrein, appunto Turchia) che tira alla guerra generale (già cominciata in Yemen) contro gli stati sciiti, cioè contro l’Iran e lo stesso Iraq attuale (tra gli obiettivi turchi c’è anche il controllo del Curdistan iracheno e possibilmente dell’area di Mosul). Non solo. Daesh vendeva alla Turchia (o meglio al clan familiare di Erdoĝan e ai suoi sodali stretti dentro all’AKP) il petrolio estratto nei territori siriani sotto suo controllo, ricevendone in cambio la piena libertà di movimento e di transito, la protezione, la cura ospedaliera dei feriti, il rifornimento di armi, informazioni militari ecc. in territorio turco per i suoi assassini, grazie al fatto che Daesh controllava un tratto del confine turco-siriano. Infine Daesh risultava essere un prezioso alleato nella guerra di Erdoĝan ai curdi siriani, partecipi di un movimento politico vicino al PKK curdo-turco. Ma poi le cose sono cambiate, e abbastanza velocemente.

Daesh è precipitato in grandi difficoltà militari: la Russia è intervenuta in termini efficaci a sostegno del regime di Assad, ciò ha obbligato gli Stati Uniti a incrementare il loro intervento, ad armare i curdi siriani, a smetterla, retorica politica a parte, con la tesi sballata della doppia guerra a Daesh e a questo regime, ecc. In Iraq le cose si sono mosse nel medesimo senso. I curdi siriani sono diventati i migliori alleati degli Stati Uniti, per la loro capacità militare. Sempre sotto traccia gli Stati Uniti hanno smesso di considerare alleati effettivi Arabia Saudita, Israele, altre petromonarchie sunnite, e hanno deciso di considerare come loro vero alleato fedele nella regione l’Iran. Il tratto di confine tra Siria e Turchia non ancora sotto controllo curdo, infine, è stato chiuso: i bombardamenti russi vi hanno demolito ogni realtà armata ostile al potere siriano, poi è stato largamente occupato da truppe non solo siriane ma anche russe, sicché la Turchia non può intervenire militarmente a riaprirlo. In breve, tutte le condizioni del progetto di Erdoĝan sono venute meno. L’isolamento internazionale non era più, perciò, il prezzo che valeva la pena di pagare, ma era diventato un danno grave all’economia e alle condizioni popolari di vita in Turchia.

Per quanto profondamente malata di sciovinismo e di razzismo, la popolazione turca aveva votato per Erdoĝan non tanto perché facesse la guerra ai curdi ma perché migliorasse le condizioni popolari di vita e portasse tranquillità al paese. Di qui allora due atti, repentini, di svolta da parte di Erdoĝan. Il primo, l’abbandono di Daesh al suo destino, considerandone scontata la sconfitta militare e considerando ormai impossibile la realizzazione di un’egemonia turca sulla Siria, in quanto protetta dalla Russia e, sul versante curdo e su quello sunnita, dagli Stati Uniti. Residua una possibilità di egemonia sulla parte settentrionale dell’Iraq, usando l’alleato Barzani cioè il presidente corrotto del Curdistan iracheno: ma per tentarla occorre che Erdoĝan recuperi il rapporto con qualcuno di significativo in più oltre all’Arabia Saudita. In attesa di provarci con la Clinton o con Trump (con Obama la partita è chiusa), Erdoĝan è quindi andato a Canossa, cioè ha concordato con Israele l’indennizzo alle famiglie dei pacifisti turchi uccisi mentre tentavano di portare cibo a Gaza assediata da quest’altro assassino, e ha chiesto scusa a Putin per l’abbattimento dell’aereo militare russo sul confine turco-siriano. Tra parentesi, anche Israele ha in questo momento il problema del proprio isolamento internazionale. Attraverso il recupero di rapporti con Israele Erdoĝan si è dunque assicurato importanti rifornimenti energetici e aiuti tecnologici. Attraverso quello con la Russia, rifornimenti energetici non a rischio, la fine di sanzioni russe economicamente molto pesanti (blocco del turismo russo, blocco dell’importazione di frutta e verdura dalla Turchia, ecc.). Anche i rapporti della Turchia con l’Egitto sono destinati a migliorare (erano diventati pessimi a seguito della condanna da parte turca del golpe militare egiziano, che aveva colpito un presidente membro dei Fratelli Mussulmani, la medesima confraternita politico-religiosa cui appartiene Erdoĝan).

Tutto questo gioca evidentemente a favore dell’ipotesi di un’effettiva rottura tra Erdoĝan e Daesh. In ogni caso non occorrerà molto tempo per capire meglio le cose.
Ma se esse stanno così saranno guai grossissimi per la Turchia; la sua popolazione e la sua economia pagheranno un prezzo drammatico alla follia di Erdoĝan. La Turchia è stata in questi anni la retrovia fondamentale di Daesh, e con ciò il luogo nel quale le simpatie per Daesh hanno coinvolto migliaia di persone, solo parte ridotta delle quali è andata a combattere in Siria o in Iraq. Il telaio di supporto in Turchia a Daesh era grosso e articolato, e tale continua a essere. Ci sono quindi in Turchia migliaia di militanti di Daesh, turchi o provenienti dalla Russia e dall’Asia centrale, ben organizzati e in grado di mettere bombe e di sparare sulla gente. Inoltre Daesh ha legami stretti con pezzi di polizia e del MİT. Non va trascurato che sotto il vestito dello stato parlamentare, di diritto, caratterizzato dalla divisione dei poteri, dall’autonomia della magistratura, dalla fedeltà delle forze armate allo stato ecc. con il quale la Turchia di Erdoĝan si camuffa c’è una realtà, tutta rovesciata, che fa di ogni struttura e di ogni apparato dello stato e di ogni potere turchi, compreso quello militare, un coacervo di gruppi e di cosche che operano secondo la loro logica, le loro convenienze e i loro traffici, in genere illegali, hanno intrecci orizzontali tra loro, hanno rapporti con potenze straniere, tra le quali le petromonarchie arabe, grandi finanziatrici del terrorismo sunnita in tutte le sue varianti.

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Martedì, 29 Marzo 2016 00:00

ISIS: con chi siamo in guerra?

L’ombra nera del Califfato arriva in Europa e scuote nuovamente un continente provato dalla crisi economica. La percezione è quella di un nemico oscuro e irrazionale, quasi apocalittico nello scontro di civiltà che porta avanti. Causa di questa percezione del presente sono sia il sistema di informazione, che, principalmente, la classe politica:  risultano imbarazzanti rispetto all’effettiva realtà con cui abbiamo a che fare.

La traduzione della complessità, di cui abbiamo scritto anche recentemente su queste pagine (Un atlante per provare a capire il mediterraneo) è operazione delicata, a cui andrebbe dedicata la necessaria attenzione.

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Complessità. Se dovessimo individuare una parola adatta a descrivere la situazione che il Mediterraneo, in particolare che i paesi definiti come ME.NA (Middle East and North Africa) vivono oggi, di sicuro quella parola sarebbe complessità.

Questa affermazione necessita di essere ribadita in particolare oggi, all'indomani dell'attacco che ha segnato la capitale d'Europa, Bruxelles, e che ha seguito quelli che a novembre hanno coinvolto Parigi. Il pericolo di semplificazioni, di strumentalizzazioni, di risposte istintive è più che mai dietro l'angolo. E l'invito alla riflessione e all'analisi è proprio ciò che caratterizza la nuova versione del 2016 dell'Atlante Geopolitico del Mediterraneo, curato da Francesco Anghelone e Andrea Ungari ed edito da Bordeaux edizioni in collaborazione con il CeSI (Centro Studi Internazionali).

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