Poche ore dopo questo intervento il terrorismo islamico è tornato a colpire in Occidente con uomini provenienti dal caos libico, dove la radicalizzazione islamica è esplosa nel post-Gheddafi. È evidente che c'è un cortocircuito ogni volta che un Paese occidentale dichiara di porsi contro il radicalismo islamico, poiché alle dichiarazioni seguono fatti che portano in una direzione contraria.
In un importante passaggio del classico studio The Religion of Java, composto negli anni '50, Clifford Geertz fa parlare uno dei suoi informatori, un anziano santri (musulmano) ed ex pellegrino alla Mecca. L'anziano santri racconta che all'epoca del suo primo pellegrinaggio, intorno al 1921, nella stessa Mecca capitava di assistere alle pratiche del misticismo Sufi. Solo un decennio dopo, all'epoca del suo secondo pellegrinaggio, queste pratiche erano completamente scomparse. Tra il suo primo ed il secondo pellegrinaggio il potere dei Saud si era consolidato, e con esso il confessionalismo intollerante wahabita. Di riflesso le correnti non allineate con l'ortodossia saudita si erano indebolite, a Giava come presumibilmente nel resto del mondo.
Effetti ben più diretti sul panorama religioso del mondo musulmano ha sortito la politica educativa del Regno, come ben esposto da alcuni saggi nel terzo Limes di questo 2017. L'Arabia Saudita da decenni pompa quantità impressionanti di denaro in progetti internazionali in cui si fondono educazione e proselitismo, dalla traduzione di libri di propaganda confessionale all'educazione dei religiosi. Spesso e volentieri dove arrivano i petrodollari arrivano anche estremismo e intolleranza, addirittura in Europa.. Tornando all'Indonesia, una rapida ricerca sul web restituisce almeno un ventennio di reportage giornalistici e studi che esprimono preoccupazione per la crescente influenza dei paesi della penisola araba sul sistema educativo formale e informale.
Tra il giusto sdegno per gli affari in armi tra Trump e Arabia Saudita e l'altrettanto giusta indignazione sollevata dalla fustigazione di alcuni uomini omosessuali nella provincia indonesiana di Aceh come dalla condanna per blasfemia del governatore di Jakarta, spesso al giornalismo come alla politica nostrana sfuggono le dinamiche di lungo periodo. Abbandonare alleanze imbarazzanti con i paesi dell'orbita saudita non servirà a sconfiggere l'estremismo, se prima non abbandoniamo l'illusione secolarista che nel mondo contemporaneo contino solo i carichi di armi, e non la penetrazione culturale, l'educazione e la religione.
Non serve neanche ribadire che gli Stati Uniti abbiano messo nel mirino Teheran per arrivare a colpire Russia e Cina. Come non serve ribadire che della pace in Medio Oriente non importi niente a nessuno, tanto meno a Israele che fomenta da sempre politiche neocoloniali. Il grande paradosso del discorso di Trump a Riad è la guerra di religione.
Come può porsi in una posizione di serietà in termini di guerre di religione un Capo di Stato che parla di guerra tra Bene e Male? L'incognita è di quelle ardue. L'unico insegnamento che si può trarre da questa vicenda è che non vi è un attore super partes nel campo mediorientale, non vi è mai, ma soprattutto qui è impossibile trovarlo. Gli Stati Uniti infatti stanno giocando la loro partita più importante da dopo il crollo del Muro di Berlino e vogliono vincerla schierandosi con gli attori più remunerativi. Ecco che gli sceicchi diventano l'attore chiave per porre sotto scacco la Russia (e non solo) economicamente e per combattere direttamente sul campo in Medio Oriente.
Il vero problema è che questa politica continua ad avere effetti collaterali pesantissimi. Il portarsi la destabilizzazione del terrorismo islamico in casa può diventare un prezzo troppo alto da pagare per vincere la partita contro Russia e Cina perché può arrivare a fare implodere chi attacca prima che sia in grado di cantare vittoria. Staremo a vedere. Certo è che la svolta di Trump partita da una retorica neoprotezionistica anti-globalizzazione si avvita ogni giorno di più nel peggior imperialismo finora conosciuto.
Su il manifesto, venerdì 26 maggio, è stato pubblicato un articolo di Daniela Preziosi sugli interrogativi del movimento pacifista italiano, rispetto alle mancate proteste nei confronti di Trump. Tra le affermazioni lette c'era una sottovalutazione del nuovo presidente degli Stati Uniti, come se la sconfitta della Clinton non avesse indicato l'errore di chi si ritiene progressista e pensa di potersi considerare superiore rispetto agli altri.
Certo, dopo la delusione (di troppi) delle aspettative verso Obama, si può capire la disillusione generale tra gli ambienti liberal e democratici, mentre le aree più radicali e rivoluzionarie sono ridotte allo stremo delle loro forze, rispetto agli ultimi decenni.
Il disinteresse del Medio Oriente viene ormai da lontano. Dall'errata lettura delle cosidette primavere arabe, alla colpevole indifferenza mentre veniva destabilizzata la Libia.
La partita nell'area è contro l'Iran, descritto come sanguinaria dittatura ma probabilmente l'unico paese dell'area che si avvicina agli standard occidentali, assieme ad Israele (e fino a qualche tempo fa alla Turchia). Nessuno riesce ad accusare gli sciiti di un fondamentalismo di matrice sunnita, finanziato dagli stessi alleati statunitensi a cui Trump ha confermato la storica alleanza.
Contano i soldi, anche di fronte alle stragi delle vittime di terrorismo, anche durante la guerra. Contano gli interessi economici. Non i presidente eletti e sempre meno i sistemi politici.
Non aver risposto all'arrivo di Trump con un'adeguata manifestazione ed aver sottovalutato i nuovi accordi firmati con Riad rimarrà come una delle inadempienze della sinistra italiana del 2017. Una delle tante, una delle meno irrilevanti. Occorrerebbe non sottovalutare la politica, anche quando conta poco, proprio per evitare che finisca per diventare irrilevante.
La visita di Trump a Riyad ha confermato l’adesione degli Stati Uniti all’alleanza con Arabia Saudita e Israele per accerchiare l’Iran e la Siria; la tradizionale politica di Washington che Obama aveva timidamente cercato di correggere, ad esempio con l’accordo sul nucleare iraniano e qualche tentativo di contrastare Netanyahu.
Non si può dire che la linea della nuova amministrazione costituisca una novità, tantomeno visto che alla convenienza geopolitica stavolta si aggiunge anche un’affinità di visione culturale e sociale tra regimi dichiaratamente fondati sulla segregazione (i muri di Trump e di Gaza), la negazione dei diritti civili e il perseguimento di attività terroristiche – basti citare l’ipotesi di assassinio di Kim Jong-un apertamente vagliata dal National Security Council.
La sorpresa, in positivo, viene semmai dall’aspro commento al G7 espresso dalla cancelliera tedesca: che gli europei dovrebbero divenire padroni dei loro destini in quanto la tutela statunitense è ormai “inaffidabile”. Il passaggio dalle parole ai fatti sarà lungo, anche vista la presenza di trentacinquemila militari Usa nella sola Germania. Tuttavia l’ostilità sviluppata da Berlino e Parigi verso Putin da un lato e il nuovo inquilino della Casa Bianca dall’altro, unita al venir meno del veto britannico, potrebbe finalmente condurre a uno scatto di reni in direzione dell’autonomia europea, anche per contrastare politicamente i partiti quinte colonne di Trump in Europa.
La riconferma di Rouhani e lo stringersi della morsa irachena attorno ai terroristi a Mosul confermano, d’altro canto, una solidità dei governi sciiti (incluso quello siriano) che si contrappone alle difficoltà incontrate da Erdoğan.
Se i missili lanciati contro le postazioni militari di Assad e le provocazioni verso la Corea del Nord avevano fatto capire che il Trump Presidente era già molto diverso rispetto al Trump candidato outsider dello schieramento Repubblicano, il G7 e la visita a Riad hanno definitivamente accertato l’istituzionalizzazione di The Donald che abbandona ogni velleità isolazionista e protezionistica per proporsi come coerente continuatore della politica estera americana degli ultimi decenni.
Così, il sedicente nemico dell’integralismo e del radicalismo islamista, invece di presentare un piano per stabilizzare la regione, rafforza una tanto storica quanto funesta alleanza con l’Arabia Saudita, la potenza più retrograda e guerrafondaia del Medio Oriente, principale responsabile dei massacri nello Yemen e nel finanziare i gruppi terroristi che operano in Siria e Iraq. Si parla di uno dei più grandi accordi sugli armamenti della storia degli Stati Uniti: il maggiore produttore al mondo vende al maggiore compratore di armi al mondo. Ma L’Iran, che rispetto all’Arabia Saudita è un modello di libertà e democrazia, non potrà restare a guardare mentre i suoi fratelli sciiti vengono massacrati in Yemen, Siria e Libano.
Il risultato è che con Trump le possibilità di un appeasement mediorientale si fanno ancora più ridotte. In questa tragedia, la dichiarazione di impegno contro il terrorismo sancita a Taormina dai leader del G7, pochi giorni dopo la visita di Trump a Riad, suona come una farsa.
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