Mercoledì, 30 Maggio 2018 00:00

Un'opinione politica sulla crisi istituzionale

Torrenti, fiumi di parole stanno scorrendo a proposito di quella che da molti è considerata la peggiore crisi istituzionale di questo paese degli ultimi decenni. Il Presidente della Repubblica Mattarella si è rifiutato di nominare un governo Conte che, sostenuto da Movimento Cinque Stelle e Lega Nord, vedesse al Ministero dell’Economia Paolo Savona. Ed io invece mi trovo in seria difficoltà a commentare. Difficoltà perché se penso al baratro che ci si è aperto davanti, sinceramente non vedo un via d’uscita che ci evita il passaggio per la catastrofe.

Pubblicato in Politica
Martedì, 06 Marzo 2018 00:00

Un primo commento dopo le elezioni

Un primo commento dopo le elezioni

Il risultato elettorale italiano segnala un generale riassestamento del sistema politico e della sinistra.

Le forze principali sono costituite ora dalla demagogia M5S e da una coalizione di (centro)destra in cui i partiti moderati sono subalterni a quelli orientati anch’essi alla demagogia.

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Giovedì, 14 Dicembre 2017 00:00

Retrotopia, ultimo saggio di Zygmunt Bauman

Retrotopia: l'ultimo saggio di Zygmunt Bauman
Recensione dell'ultimo lavoro del sociologo polacco

Il ventesimo secolo che si è aperto con il movimento futurista si è chiuso con una epidemia di nostalgia. Di fronte a un futuro che spaventa e un presente gravido di miserie materiali e spirituali, il passato sembra essere per molti cittadini della società liquida globale un rifugio rassicurante. Nel suo ultimo saggio, uscito a settembre per Laterza e scritto poco prima di morire, Zygmunt Bauman prova a tracciare le coordinate di un diffuso sentimento di ritorno a “un passato perduto, rubato, abbandonato ma non ancora morto”. Gli anni della retrotopia prendono svariate forme ma riflettono la perdita di certezze e di punti di riferimento della tarda modernità.

Pubblicato in Umanistica e sociale

In quest’ultimo volumetto di un centinaio di pagine il nostro Tito Boeri, Presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, dà la stura ai peggiori pregiudizi in circolazione sul populismo, motivandoli con argomentazioni da alta élite tecnocratica. La prima impressione che si ha, giungendo all’ultima pagina del libercolo, è di aver appena letto un diario delle giovani marmotte scritto appositamente per mettersi in mostra davanti al capo. E in effetti questo pamphlet edito da Laterza serve proprio per accreditare il nostro Presidente quale responsabile amministratore delle finanze sociali del Paese agli occhi della tecnocrazia europea. Per finanze intendo sempre quelle sociali, beninteso, perché quando si parla di finanze pubbliche in materia bancaria e militare l’unico verbo che i nostri governanti conoscono è scialacquare e le élite tecnocratiche cessano ogni rigidità, dimostrando come anche la loro tecnica sia politica.

Ma approfondiamo un po’ l’analisi del libretto di Boeri. Per chi, come il sottoscritto, sia un discreto appassionato di storia si può notare come già dalla premessa vi sia una forte connotazione ideologica a permeare il Presidente del nostro Istituto. Infatti il nostro parte con la metafora dell’Unione Europea che come il ciclista partito agilmente col crollo del Muro di Berlino è infine giunto negli ultimi anni ad arrancare in maniera bestiale, con la lingua di fuori a rasentare il terreno sbandando da una parte all’altra della carreggiata pur di continuare sulla via del traguardo. Insomma, il messaggio che sin dalla premessa il Presidente vuole trasmetterci è che siamo partiti alla grande abbattendo le frontiere della terribile dittatura sovietica, ma stiamo ancora pagando politiche errate che ci stanno portando a rallentare e a faticare sempre più. In questa salita sempre più eroica verso la perfetta integrazione europea davanti ai nostri occhi si palesa finalmente il vero nemico: il populismo! Nientemeno quale sarebbe, di grazia, la luciferina missione di tale belva? Il Presidente ce lo spiega in poche righe, ossia «la possibile affermazione di partiti che offrono un messaggio semplice quanto pericoloso: interrompere il processo di integrazione europea e chiudere le frontiere agli immigrati, per meglio proteggere le persone più vulnerabili dalle sfide della globalizzazione»1. Descritta così tale missione più che arcigna sembrerebbe vigliacca: prendersela con i più deboli per paura di soccombere di fronte alla globalizzazione. Per fortuna che il nostro Presidente è alquanto impavido ed è disposto a farci affrontare a testa alta le sfide della globalizzazione, sicuro di una vittoria anche per gli ultimi. E infatti, poche righe dopo ci spiega come intende salvare gli ultimi: facendoli emigrare. Infatti, per il nostro, il pericolosissimo messaggio populista «toglie soprattutto ai giovani la migliore assicurazione sociale contro la disoccupazione di cui oggi possano disporre». Quanta grazia Presidente! Forse lei, caro Presidente, non ha mai sentito il detto “dai nemici mi guardo io, dagli amici mi guardi Iddio” ma cotanta preoccupazione per la disoccupazione da parte di un Presidente di un Istituto di Previdenza Sociale statale dovrebbe riverberarsi in ben altre raccomandazioni da codeste: armatevi di bagagli e partite. Magari i contribuenti che hanno versato una parte cospicua del loro salario per tanti anni nelle casse statali speravano che vi fossero forme di assistenza più decorose di un sonoro “arrangiatevi”.

Ma diamine che pretese! Del resto ce lo spiega lei a suon di grafici che il contesto è mutato e dal welfare state si è passati al workfare state, dunque al bando i sogni populisti e sotto a fare i camerieri a Londra se non volete restare dei laureati disoccupati. Non pensiate, per carità, che il Presidente stia svolgendo arcigni ragionamenti. In verità è mosso da bontà di cuore perché sa di dover fronteggiare esodi. Ce lo dimostra con i grafici degli italiani emigrati in seguito alla crisi del 2008.

Egli però è altrettanto consapevole della gravità degli esodi in ingresso e da buon internazionalista ci tiene a non far mancare la solidarietà ai nuovi arrivati, relegandoli e sussidiandoli. L’integrazione perfetta, mica per niente il buon Boeri è un economista che guida un Istituto Sociale, tiene sempre un’occhio al portafoglio e uno alla comunità.
Siccome poi è uomo di cultura che ha letto Aristotele, Tocqueville e Montesquieu ci delizia di quanto sia pericolosa una democrazia diretta rivolta ad annientare i corpi intermedi, quindi votate i populisti e avrete l’oclocrazia sentenzia tra le righe Boeri. Il problema postdemocratico ovviamente neanche lo sfiora, lui è preoccupato dai totalitarismi e anche restassero in tre a votare per lui la situazione sarebbe perfetta poiché si avrebbe comunque un vincitore a maggioranza semplice.
Il volumetto si conclude con una proposta costruttiva del Presidente, una grande proposta progressista rivolta a salvare il tragico destino dell’Europa. Siccome nel suo delirio liberista l’immigrato non è solo un poveraccio in fuga, ma una risorsa umana che cerca di rivalorizzarsi e con l’aiuto della mano invisibile di Smith ci riesce, allora l’immigrazione acquista una funzione salvifica anche per le imprese in crisi rendendole più competitive. Peccato che tale competitività si sia manifestata con la compressione salariale e dunque l’ottimo paretiano sia lungi dall’esser raggiunto.

Egli è pur sempre un Presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale responsabile in cerca di accreditamento verso le élite tecnocratiche europee, quindi la sua primaria preoccupazione è costituire una valida «assicurazione contro la disoccupazione» in questo mercato imperfetto detto volgarmente capitalismo. Dunque, quale migliore assicurazione alla disoccupazione che il «cercare lavoro nei paesi che offrono migliore opportunità d’impiego»? Come ci spiega accuratamente, con un ragionamento da vero Presidente dell’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale: «è un’assicurazione contro la disoccupazione che ha, peraltro, il vantaggio di alleggerire la pressione fiscale sui bilanci nazionali. Chi si sposta e trova lavoro altrove rende il finanziamento dello stato sociale meno oneroso, non rendendo più necessari i trasferimenti destinati a chi perde il lavoro». Tutto molto giusto Presidente, però a questo punto il ragionamento, senz’altro populista, porterebbe a dire che occorrerebbe rimuovere l’aggettivo Nazionale dall’Istituto che presiede. Infatti, il Presidente che di logica lineare se ne intende arriva a proporre nell’ultimo capitolo una vera e propria «infrastruttura europea per i contributi». Allora sì che avremo l’unità europea tanto auspicata: dopo l’unione monetaria senza l’unità politica anche una bella unione contributiva.

1 T. Boeri, Populismo e Stato Sociale, Roma-Bari, Laterza, maggio 2017, p. 1

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Martedì, 04 Luglio 2017 00:00

Di banche italiane e intervento pubblico

Di banche italiane e intervento pubblico

Il ministro Padoan dopo averci ripetuto all'infinito quanto il sistema bancario italiano fosse solido si è trovato a dover gestire la risoluzione monster delle banche venete. Tuttavia, molto più interessanti e significative sono le modalità di questa.

Il gigante Banca Intesa si è appropriato al prezzo simbolico di un caffè degli ultimi crediti rimasti di Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Lo Stato – cioè la collettività, noi cittadini in parole povere– si è occupato di liquidare la parte “tossica”. Dunque da un lato lo Stato si è impegnato a coprire la gestione scellerata dei conti delle banche venete intervenendo con una spesa di 5,3 miliardi di euro, con la possibilità di arrivare fino a 17 miliardi, una spesa pro-capite di 300 euro per ripianare i passivi, mentre Banca Intesa si è presa tutti gli attivi.

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Al degrado della politica americana che traspare ormai in mondovisione con l’ultima campagna elettorale corrisponde un eguale degrado sociale che anche alcuni conservatori come Nicholas Eberstadt non rinunciano a indagare. Anche questi studiosi sono ormai seriamente preoccupati per la pessima piega presa dall’economia americana che, nell’inseguire una crescita economica sempre più difficile e asfittica, si sta lasciando dietro buona parte della Nazione in quello che viene definito un “esercito di invisibili” confinati nell’inattività.

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La Germania, come potenza imperialista egemone in Europa, unisce alla vocazione al mercantilismo una spiccata propensione al colonialismo come principale metodo per assicurarsi ulteriori materie prime da espropriare e mercati di sbocco per le proprie merci. Così, dopo Renzi e Hollande, anche la cancelliera Merkel non si è astenuta dal tour africano. Il suo tour di tre giorni si è svolto tra il Mali, il Niger e l’Etiopia. Stati scelti non a caso anche da Renzi e che vedono sul proprio territorio una forte presenza militare straniera in continuo incremento. Le ragioni di questa militarizzazione dell’Africa stanno proprio nel crescente dominio da parte dell’imperialismo su quella che resta una periferia scomoda, da sottomettere e difficile da gestire per la propensione crescente all’emigrazione in Europa dei propri abitanti. Infatti, L’UE come principale politica di contenimento dei flussi migratori sta puntando proprio sul ritorno del colonialismo come metodo per “aiutarli a casa loro”, come dice la destra e tenta di fare la sinistra di governo.

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Mercoledì, 22 Giugno 2016 00:00

Fascismo ed antifascismo

Fascismo ed antifascismo

In Austria, al recente ballottaggio per l’elezione del Presidente della Repubblica, il candidato che non fa mistero di avere simpatie nazionalsocialiste ha preso la metà dei voti espressi, tra l’altro è stata registrata un’alta affluenza. Le analisi del voto hanno evidenziato che il 75% dei lavoratori manuali hanno votato per l’estrema destra; se guardiamo altri significativi esempi in giro per l’Europa siamo oltre il segnale d’allarme, prossimamente governeranno ampie aree strategiche; in Francia recentemente le zone tradizionalmente rosse hanno votato il fronte nazionale (tra l’altro mi piacerebbe capire in che misura lo stesso Fronte Nazionale si rapporta con l’attuale mobilitazione sociale in Francia, personalmente non ho strumenti conoscitivi).

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Di Luca Reggiani dal numero cartaceo di settembre

Niti e Nyaya possibili strumenti di lettura della crisi europea?

La crisi economica, acuitasi negli ultimi mesi, che ha colpito la Grecia - portando con sé momenti di tensione politica e sociale - ha riportato al centro del discorso pubblico la natura stessa dell'Unione Europea. Da molte parti si sono levati i cori di europeisti (convinti della necessità di un’Europa unita) e di anti-europeisti, (convinti che l’Unione sia la causa di tutti i mali). Anche molti economisti hanno preso, in maggiore o minore misura, posizione.

Ha una sua utilità, ai fini del dibattito su tema dell'Unione Europa e su quella che viene definita teoria della giustizia, anche la riflessione di un economista - europeo per cittadinanza ma non per origine - premio Nobel nel 1998: l'anglo-indiano Amartya K. Sen.

In un antico poema epico indiano in sanscrito, la Mahabharata, in particolare nella parte chiamata Gita, va in scena un importante scambio di opinioni fra due personaggi, Arjuna e Krishna. Arjuna è il glorioso e invitto guerriero dalla parte dei giusti, Krishna è l’auriga di Arjuna, ma è anche ritenuto un’incarnazione, in forma umana, divina.
In questo scambio di battute, che si svolge alla vigilia di uno scontro fondamentale per il risultato di una guerra in corso, Arjuna esprime le proprie perplessità sul fatto che prendere parte alla battaglia sia per lui la cosa giusta da fare. Il guerriero, che non ha dubbi sulla bontà della causa né che si tratti di una guerra giusta e che alla fine la sua fazione, grazie soprattutto alla sua forza, trionferà, ma quella battaglia sarà una carneficina e molti di quelli che perderanno la vita non hanno commesso nulla di male ma solo deciso di appoggiare l’altra fazione. Arjuna è quindi angosciato sia dalla consapevolezza della tragedia che si abbatterà su quelle terre, sia dalla responsabilità che egli assumerà uccidendo altri uomini, incluse persone a lui legate e per molte delle quali prova affetto.
Arjuna giunge ad affermare che, forse, sarebbe meglio non combattere e lasciare il regno agli usurpatori. Krishna si oppone violentemente alle argomentazioni del suo amico e compagno affermando l’importanza di fare il proprio dovere senza guardare alle conseguenze.
Arjuna perderà lo scontro verbale e sarà convinto da Krishna ad adempiere ai propri obblighi scendendo in guerra.

Questo racconto è stato utilizzato da Amartya Sen per illustrare ciò che a suo avviso sono i due tipi di giustizia che possono caratterizzare le società: Niti e Nyaya. Queste due parole sanscrite significano entrambe giustizia, ma con due accezioni differenti.
Il Niti esprime l’adeguatezza di un’organizzazione, delle istituzioni, la correttezza di comportamento e delle leggi. Il Nyaya corrisponde al concetto generale di giustizia realizzata. In termini di Nyaya il ruolo delle istituzioni, delle leggi e dell’organizzazione, per quanto importante, deve inserirsi in una prospettiva più ampia e comprensiva legata alla vita delle persone e al mondo così com’è fatto realmente.
Il dato cruciale è che per realizzare la giustizia in termini di nyaya non è sufficiente valutare istituzioni e regole, ma occorre giudicare le stesse società.
Per l’economista indiano è auspicabile l'affermarsi di un’idea di giustizia che si basi sulle persone e sulla loro vita. L’esigenza, cioè, di inquadrare la giustizia a partire dalla realtà concreta bandendo l'indifferenza rispetto al tipo di vita che ogni persona è in grado di vivere.
Per esprimere questo concetto con le parole di Sen: “Chiedersi come stiano procedendo le cose, e se sia possibile migliorarle, costituisce invece un impiego costante e ineludibile nella ricerca della giustizia”.

L’economista applica, poi, la sua impostazione teorica alle attuali istituzioni e politiche europee: queste hanno fallito, non perché le istituzioni fossero sbagliate (Sen si esprime favorevolmente alle istituzioni europee) ma per il fatto che le istituzioni e le politiche economiche del vecchio continente non hanno tenuto conto della vita delle persone, che, soprattutto a seguito alla crisi economica del 2008, è notevolmente peggiorata. L’Europa ha perciò costruito le proprie istituzioni solo in termini di Niti, mentre guardando dall'ottica del Nyaya ha fallito.
Con queste premesse, per Sen, appare chiaro capire perchè la crisi economica del 2008 abbia portato l’Unione alla situazione attuale.
Tralasciando le cause che hanno portato allo scoppio della crisi, possiamo notare come essa abbia danneggiato la vita concreta di un, incredibilmente alto, numero di europei. Ciò è stato dovuto, in gran parte, da una gigantesca operazione di trasferimento del debito privato - in massima parte delle banche - caricato sulle finanze pubbliche. Per ovviare ai deficit - a questo punto pubblici - in Europa sono stati effettuati tagli al welfare, cioè, ad uno dei capisaldi del modello europeo costruito nel dopoguerra dalla gran parte degli Stati del continente.

Le politiche europee conseguenti, come ad esempio quelle inerenti il taglio del deficit, presentate come sensate e giuste, hanno finito col non produrre istituzioni stabili nel lungo periodo né una vita migliore per la maggioranza dei lavoratori europei.
In questa cornice si inserisce la moneta unica. L’euro, potenzialmente, un grande vantaggio e un punto di forza nella competizione con le altre grandi macro-aree economiche, è, per molti versi, diventato uno svantaggio. L’Unione Europea si è caratterizzata come un’unione, unicamente, monetaria, fallendo nell'unificazione fiscale e politica e non centrando l'obiettivo di una unità fattuale tra i popoli dei diversi Stati nazionali.
La crisi di consenso delle istituzioni europee ha creato un distacco fra queste ed i cittadini. Crisi ampliata da una morsa rigorista che ha tolto potere a Stati come l'Italia, la Grecia ed il Portogallo di poter operare aggiustamenti espansivi alle proprie economie.
L’austerità, originata dai parametri di Maastricht, ha messo un ulteriore freno a Stati in situazioni di debolezze economiche strutturali. I continui tagli, invece che aiutare queste economie, non hanno prodotto altro che ulteriori contrazioni del PIL.

L'esclusione, dunque, di politiche espansive ha prodotto, tanto per i privati che per gli Stati, una spirale, diretta verso il basso.
L’austerità ha bloccato processi di crescita al fine di ripagare un debito, che, per alcuni Paesi, ha raggiunto dimensioni enormi.
Le lodi sperticate dei rigoristi verso i Paesi nordici per essere riusciti ad andare incontro ai loro auspici, e le richieste di tagli ai paesi dell'Europa meridionale per giungere allo stesso risultato, non tengono in conto del fatto che un Paese come la Svezia è riuscito a ripagare il proprio debito in un tempo di grande crescita economica ed altri Stati hanno visto i propri debiti tagliati o ristrutturati, beneficiando anch'essi di periodi di crescita e non di recessione
L’Unione Europea ha promosso pacchetti di riforme congiuntamente ai cosiddetti tagli. L'establishment europeo ha, volutamente, confuso riforme, con austerità.
Una politica riformista avrebbe distinto le prime dall'altra, generando una crescita utile a ripagare il debito.
Nello stesso ambito di riflessione, di critica alla moneta comune ed alle politiche applicate dall’Unione, si pongono anche altri economisti fra i quali i Nobel Stiglitz, Mirrless, Pissarides, Krugman. Questi economisti spingono per una riforma dell’Europa insieme ad una parte dei cosiddetti europeisti.
Parte degli studiosi europeisti rimangono invece convinti che l’unica via di sviluppo sia rappresentata dall’austerità.
In quest'ultima posizione, per Sen, si consegue il Niti (portando avanti, per inciso, interessi di classe), che non sono però gli interessi contemplati dal Nyaya.
Significativa in tal senso è situazione della Grecia, messa in ginocchio dalla crisi, affossata dalle politiche di austerità chieste dall’Unione e diventata un terreno di scontro e giochi di potere fra gli Stati.

Nel novero delle posizioni troviamo, oltre ad i sostenitori dell’austerità, europeisti riformisti ed euroscettici, che vogliono l’uscita dall’euro e dall’Europa. La recente scissione di Syriza può essere inquadrata proprio sulla base di queste diverse posizioni: da una parte chi chiede all’Europa di cambiare e per questo è disposto a sacrifici, dall’altra chi, invece, dopo anni di sacrifici non è più disposto a perseguire, ad ogni costo, la strada dell'integrazione europea.
Quello che sembra mancare nel pensiero di Sen, e di altri economisti, è però una parte propositiva contenente la necessaria concretezza.
Come sostenuto da molti economisti, la chiave di salvezza per l'Europa sta nel processo di unificazione bancaria e finanziaria, oppure in una radicale trasformazione del Fondo salva-Stati in un vero e proprio Fondo monetario europeo.
In tale ambito di discussione si dovrebbero riformare i trattati al fine di dotare l’Eurozona di strumenti anti-ciclici efficaci, come un bilancio comune, e di istituzioni politiche pienamente legittimate a gestire quel bilancio.
L’altra soluzione, auspicata dagli anti-europeisti, è quella dell’uscita dall’euro, con i costi e i rischi che ciò comporta.

Dal punto di vista del Niti e del Nyaya, si può muovere una critica all’utilizzo che si fa dello strumento del PIL. Questo, infatti, pur essendo un indicatore facilmente misurabile, non può essere utilizzato per valutare correttamente lo sviluppo di una società.
In primo luogo, il PIL non riesce a valutare nel complesso le attività economiche di una società, non considerando, ad esempio, il lavoro domestico e le attività di autoproduzione. Il PIL, inoltre, essendo una misura aggregata, non tiene conto delle disuguaglianze, anche enormi, fra i cittadini di un dato Paese.
In secondo luogo, quando si utilizza una misura come il PIL, si valuta la crescita economica di uno Stato, ma non la condizione materiale dei suoi abitanti, né se vi sia uno sviluppo umano conseguente. Lo sviluppo umano, infatti, oltre a comprendere la crescita economica, considera altri fattori legati alle condizioni di vita degli individui.

Proprio per questo motivo, soprattutto negli ultimi anni, si sono studiati nuovi indici per valutare la qualità della vita delle nazioni.
Uno di questi è l’Indice di Sviluppo Umano (ISU), che è un indicatore di sviluppo macroeconomico realizzato dall’economista pakistano Mahbub ul Haq nel 1990 (anche sulla base del lavoro portato avanti da Sen). L’ISU dal 1993 è utilizzato dalle Nazioni Unite, proprio per valutare lo sviluppo umano dei paesi membri. L’indice di Sviluppo Umano è calcolato mediante la media aritmetica di tre indici: l’indice di aspettativa di vita, l’indice di istruzione e l’indice del PIL pro capite. Esistono anche altri indici, che tengano conto di altri fattori e dati, ma spesso questi dati sono difficili da reperire e riportare in una scala comune.
La “classifica” delle nazioni secondo l’ISU è consultabile sul sito del Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP). Appare subito evidente come, confrontando i dati sul PIL con quelli dell’ISU, le posizioni di alcuni Paesi siano completamente diverse nelle due “classifiche”.

Per concludere, riassumendo il pensiero di Sen, si può affermare che la situazione in cui si trova oggi l'Europa, sarebbe stata ampiamente evitabile qualora i legislatori europei avessero perseguito più il Nyaya che il Niti.
Oggi per ricostruire un’Europa che appare vicina al proprio crollo, le soluzioni proposte all'orizzonte del dibattito pubblico sono due: una uscita dall’euro od una inversione di rotta volta a ricostruire il modello tradizionale di welfare europeo.
Quale soluzione sia più agevole, meno dolorosa, e possa dare veri risultati di miglioramento della vita di gran parte della popolazione europea è oggetto di dibattito. Nessuna soluzione sembra, ad oggi, essere risolutiva. Certo è che una strada diversa vada intrapresa.

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Quando esplode la polenta: il ritorno delle proteste in Romania

C'è un aforisma particolare che utilizzano i rumeni per definire sé stessi: " Mămăliga nu a explodat" ("la polenta non esplode"). Quest'espressione indica l'attitudine alla pacatezza e alla remissione del popolo rumeno: proprio come la polenta continua a bollire sul fuoco, scoppietta pian piano ma non esplode mai tutta insieme, così i rumeni, pur vivendo sotto regimi opprimenti, continuano a non ribellarsi, a preferire le scappatoie individuali piuttosto che quelle collettive.
La polenta, che ha continuato a borbottare per anni, è esplosa nel dicembre 1989, quando la ribellione di una minoranza etnico-religiosa del paese innescò una sommossa che nel giro di pochi giorni portò alla fine della repubblica socialista governata da Ceaușescu.

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