Domenica, 24 Novembre 2013 00:00

Tra i guerriglieri curdi - Diario di un viaggio a Qandil #2

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Riceviamo il diario di un viaggio avvenuto tra il 2 e il 3 ottobre nel nord dell'Iraq, inoltratoci da Luigi Vinci.

2 - 3 ottobre 2013 – Verso Kandil

Siamo sulle montagne di Kandil, al limite di tre confini, Turchia, Iran e Iraq.
La zona, denominata Medya, è sotto il controllo della guerriglia kurda. C’è un posto di blocco dei guerriglieri.
Scendiamo nel buio della notte e percorriamo un tratto di strada a piedi, giù per una scarpata ripida, alla luce delle torce elettriche, fino ai bordi di un torrente che attraversiamo passando su un ponte di tronchi.
In una radura, vicino al torrente, c’è l’accampamento; dappertutto, ci sono piccoli gruppi di guerriglieri del Pkk, sono uomini e donne, molti giovani.

C’è un grande fuoco acceso, consumiamo la cena che ci hanno preparato: spaghetti alla, matriciana (!), carne d’agnello, formaggio di capra e olive nere. Tutto molto buono.
Parliamo con i più anziani, c’è un uomo, sulla quarantina, che parla perfettamente il francese, sono molto tranquilli, ridono e scherzano con noi fin verso le 10,00, poi ci invitano ad andare a letto perché la sveglia è all’alba, ma per noi fanno un’eccezione: sveglia alle 6.00!
Passiamo la notte in un rifugio di pietra, ben mimetizzato, divisi, uomini e donne, avvolti in calde coperte, perché di notte fa freddo lassù.
Fuori, il cielo è stellato e pulito, molto bello.

Puntualmente, alle 6,00 del mattino, c’è la sveglia.
Usciamo e ci dirigiamo verso la radura, circondata da alberi di noci selvatici: c’è un bel fuoco acceso, la temperatura si sta alzando, ci portano la colazione: olive, thè e formaggio di capra; il pane non è fresco, ma è buono.
Mentre mangiamo, osserviamo la scena: i guerriglieri stanno in cerchio attorno al fuoco, parlano e scherzano tra loro, sono tutti vestiti con una divisa verde oliva: larghi pantaloni con il cavallo basso, camicia militare, giubbotto, una fascia colorata intorno alla vita e la kefia al collo.
Arriva una giornalista turca che, a tutti i costi, vuole fare un’intervista alla comandante; lei però non è disponibile, dice che c’è una delegazione italiana, non c’è tempo.
Poi i guerriglieri si dispongono in fila e salutano così, con un abbraccio e una stretta di mano, un ospite in borghese del campo
Anche in seguito, con il nostro gruppo, i saluti dei guerriglieri avverranno sempre osservando questa prassi.

Dopo la colazione, con il giornalista del nostro gruppo, facciamo due interviste a due comandanti, un uomo ed una donna.

Il nome di battaglia della donna è Arjin che significa “Il fuoco e la vita”.

Esordisce con un rimbrotto, chiedendoci come mai non c’è nessuna donna nel gruppo che è arrivato fin lassù, se non l’interprete. E’ vero. Incassiamo e promettiamo che la volta prossima, ci sarà una delegazione composta di sole donne.

Poi presentandosi: “Sono nata in Germania nel 1977 – dice - la mia famiglia era emigrata lì nel 1970. Vivevo un conflitto tra la mia vita in Europa e la cultura kurda. In Europa eravamo trattati come cittadini di serie B. Pensavo che mi mancava la mia lingua, la mia cultura, il mio Paese, non potevo dire di essere kurda. Ogni anno, con i miei genitori, venivo in Turchia per passare le vacanze. Forse avrei potuto essere una donna ricca in Europa, ma se non hai un tuo Paese, una tua cultura, una tua lingua, non sei libera. Con questi pensieri, sono entrata in contatto con il Partito nel 1995, ho cominciato a lavorare con loro, poi ho deciso di venire quassù”.

Essere kurdi in Turchia cosa vuol dire?

“Molti anni fa – dice – i kurdi non potevano dire di essere kurdi. Le famiglie non potevano dare un nome kurdo ai loro figli. C’era molta repressione, autoritarismo, esecuzioni extragiudiziarie, massacri... Ad esempio, quando un ragazzino kurdo andava a scuola e non parlava bene il turco, l’insegnante lo picchiava, lo umiliava.
Nel lavoro, tutti i lavori più umili erano per i kurdiMa con lo sviluppo della lotta, le cose sono cambiate. Abbiamo pagato molto, ma le cose sono cambiate: vedo in televisione che adesso i kurdi parlano la loro lingua madre, riscoprono le proprie tradizioni culturali, affermano la loro dignità.
Ora ci sono molte persone in carcere in Turchia: politici, amministratori, gente comune, giornalisti, il cui crimine è raccontare la realtà del nostro popolo.
Tutto questo deve finire. Noi vogliamo essere uguali agli altri popoli e vivere in pace con loro. Noi abbiamo pagato molto, abbiamo avuto molti martiri. Ora c’è un negoziato aperto, annunciato dal palco del Newroz di Amed. Il messaggio del nostro leader, Ocalan, è stato quello di lasciare le armi e lavorare politicamente. Ma le cose stanno ferme, sono ad un punto morto. Il primo Ministro, Erdogan, ha annunciato un pacchetto di cosiddette “riforme”, ma in questo pacchetto non c’è nulla per noi. Niente. Per cui, la lotta continua”.

Avresti voglia di scendere giù dalle montagne?

“Non ho voglia di scendere giù – ci dice – Giù non c’è sicurezza, ci sono massacri di donne, ci sono violenze e stupri. Qui c’è la libertà.
Questa vita quassù in montagna è molto, molto bella. Qualche volta abbiamo solo un pezzo di pane da mangiare, ma lo dividiamo e lo condividiamo tutti assieme. E’ una rivoluzione culturale, da qui parte la costruzione di una società nuova”.

La seconda intervista è ad un comandante guerrigliero, Heval Harun, è il suo nome di battaglia.

Cosa vuol dire lottare per i diritti dei kurdi? Come è cambiata la lotta in questi anni?

I kurdi lottano da quarant’anni – ci dice – Abbiamo pagato molto. I kurdi oggi non hanno ancora vinto, non hanno riconoscimenti a livello internazionale.
Se però voi leggete solo in questo modo la nostra storia, non potrete mai capire la lotta di liberazione del popolo kurdo. Nei prossimi anni, ci saranno risultati. La realtà kurda è quella di un popolo che lotta sempre per i suoi diritti. I kurdi oggi sono il popolo più libero del Medio Oriente. Se la libertà è lottare sempre senza fermarsi, i kurdi sono i più liberi del Medio Oriente. Se si ferma la lotta, il potere occupa questo spazio. Il nostro sogno è quello di unire tutto il Medio Oriente, al di là dei vari pezzi di Kurdistan. I turchi, gli arabi, i kurdi, gli ebrei, altre entità, sono presenti in tutti i Paesi del Medio Oriente. Non vogliamo fare solo il Kurdistan, vogliamo l’unione democratica di tutti i popoli del Medio Oriente.
Ma il più importante risultato della lotta di questi quarant’anni, è lo sviluppo del movimento delle donne. Ne vedrete i risultati concreti in un prossimo futuro.
Le donne hanno abbattuto il sistema patriarcale e sono più libere”.

A che punto è il processo di pace?

“Sul negoziato in corso, c’è da dire che, da parte nostra, sono stati fatti molti passi avanti nella trattativa in questi otto mesi, ma l’altra parte, il governo, non ha fatto la stessa cosa.
Se il processo di pace si blocca, noi riprenderemo le nostre azioni. Vogliamo l’amnistia generale, vogliamo la liberazione dei prigionieri politici, vogliamo il riconoscimento dei nostri diritti fondamentali e l’educazione in lingua madre, vogliamo una legge per l’autonomia dei kurdi e la liberazione del nostro leader, Abdullah Ocalan
Ocalan ha criticato molto i nazionalismi: noi non vogliamo dominare gli altri popoli. Vogliamo la libertà politica, culturale, sociale per tutte le comunità etniche e religiose che compongono il mosaico mediorientale. Vogliamo convivere e partecipare con tutti i popoli del Medio Oriente, rispettando culture, tradizioni, lingue, religioni”.

La guerra in Siria...

“In Rojava (Kurdistan occidentale), è in atto una guerra mondiale. Sono tutti lì. I kurdi sono autonomi, hanno inaugurato una terza via, senza schierarsi”.

Com’è la vita qui?

“Non tutti i giorni sono uguali, la vita quassù in montagna è molto bella.
Noi leggiamo, facciamo vari lavori in comune, ci spostiamo, siamo liberi, finalmente. Non c’è niente che ci manca. Noi siamo saliti quassù, sapendo bene che genere di vita abbiamo lasciato. Se dovessi scendere, mi mancherebbero gli amici, i compagni, il fiume, l’inverno e la primavera, la tranquillità… quando i compagni scendono giù, vogliono tornare immediatamente quassù. Prima le famiglie erano contro le nostre scelte, partire per la montagna significa partire per la guerra e recidere ogni legame.  Oggi le famiglie kurde hanno preso coscienza e sostengono le nostre scelte”.

 

Visita agli ospedali di Medya

Un fuoristrada ci porta a visitare gli ospedali dell’area di Medya. Il nostro autista è salito in montagna all’età di dieci anni, oggi ne ha trentadue.
Ci spiega, attraverso l’interprete, che la strada che stiamo percorrendo è stata costruita dai guerriglieri in collaborazione con gli abitanti dei villaggi. Durante il percorso, ci fa vedere un ospedale bombardato da aerei turchi: con il bombardamento, sono stati distrutti tutti e tre i padiglioni dell’ospedale ed uno dei trentotto ricoverati ha perso una gamba.
Alla fine del percorso, arriviamo in una bella vallata, qui c’è un piccolo ospedale civile. Sparsi intorno, greggi di capre e pecore.
Questo ospedale è stato voluto dal figlio di un uomo assassinato dal regime di Saddam Hussein che ha intitolato la struttura alla memoria del padre “Mohammed”.
Qualche volta aerei turchi bombardano la vallata, ma la struttura ospedaliera non è mai stata bombardata. L’ultimo bombardamento è avvenuto nel 2011.
Lo visitiamo.
Si entra senza scarpe, pulitissimo, consta di un laboratorio analisi, uno studio dentistico, un medico generico, sei posti letto. Il personale sanitario è di due persone, più una coordinatrice tedesca, dottoressa Medya, la quale, approfittando della nostra visita, avanza la richiesta di avere dei medici italiani per una breve formazione degli infermieri. La cittadina più vicina si trova a pochi chilometri.

Visitiamo anche un piccolo ospedale militare costruito sottoterra, una scelta obbligata dopo i bombardamenti turchi.
La nostra guida ci dice che ogni zona dei monti Kandil ha un ospedale sotterraneo e un centro medico per preparare i medicinali con il metodo tradizionale, con le erbe.

 

Visita alla Casa dei Martiri

Ci riceve una lunga fila di guerriglieri in divisa, uomini e donne, che ci salutano e ci stringono la mano.
“Mehmet Korasungur”, si chiama il cimitero dei martiri, dal nome del fondatore del Partito, il primo ad essere arrivato su queste montagne, in seguito fatto assassinare da Barzani.
Il nostro accompagnatore ci dice che ogni zona di Kandil ha il suo cimitero dei martiri; in questo che visitiamo, ci sono 300 martiri provenienti dalle varie zone in cui è suddiviso il Kurdistan.
Tombe pulite ed ordinate, fiori e piante ben curate, tombe tutte uguali.

Dopo la visita, ci salutiamo.
Prima di partire, il nostro accompagnatore conclude dicendo: “Il Pkk è il più grande movimento rivoluzionario del mondo: tra le sue fila, ci sono comunisti, socialisti, kurdi, turchi, arabi, armeni, cristiani, internazionalisti.. nostri riferimenti sono il pensiero del nostro leader, Abdullah Ocalan, quello di Che Guevara e di Rosa Luxemburg”.
Ancora un saluto e poi via verso Suleymaniye, dove ci aspetta il resto della delegazione.

Immagine tratta da: www.guerrenelmondo.it

Ultima modifica il Sabato, 23 Novembre 2013 13:07
Beccai

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