Venerdì, 18 Gennaio 2019 00:00

Decreto Sicurezza, migrazione e trafficking 

La tratta degli esseri umani considerata una delle attività illegali più lucrative al mondo: si stima che le persone trafficate nel mondo siano 2,7 milioni, per un mercato che rende complessivamente 32 miliardi di dollari l’anno; questi numeri fanno di questo traffico la terza industria “criminale” più proficua, dopo quello di droga e di armi.

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C’è un concetto fortemente distorto dell’operaismo che viene riproposto da alcuni degli intellettuali sopravvissuti ai Quaderni Rossi, i quali snaturano quel progetto nella sua essenza anticapitalistica. In particolare Toni Negri e i postoperaisti sono convinti che la classe operaia, ormai dispersa nella “società liquida” e divenuta Moltitudine, abbia una sola chance per abbattere il capitale cioè rinunciare al lavoro e presentarsi unicamente come massa di consumatori.

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Venerdì, 03 Novembre 2017 00:00

Il privato è politico

Il privato è politico

Il privato è politico. Nulla di più semplice, diretto, veloce e rapido per comprendere una verità spesso ignorata: non esiste un “mondo fuori” dove funzionano certe idee, lotte, proteste e uno “dentro” il quale segue leggi particolari legate alla coppia, alla genitorialità, alla famiglia. Tutto si basa sui rapporti di classe e di forza che partendo dalla società, condizionano i legami personali. L’operaio politicizzato di Romanzo Popolare, ne è un esempio: compagno attivo nelle lotte, uomo che si reputa moderno, ma pronto a ristabilire la gerarchia nel rapporto di coppia quando la sua compagna esprime la sua infelicità e infedeltà. Questo è solo un piccolo esempio, ovviamente, ma la realtà ci mette davanti a queste storie ogni giorno. Uomini che usando la loro posizione privilegiata e il loro potere, costringono i sottoposti a umiliazioni e abusi. Siamo portati a ritenere che questo sia un problema che riguarda alcune categorie, che a ben vedere certe donne sanno a che vanno incontro, molto probabilmente sono anche complici se non istigatrici. 

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A casa loro: le tante realtà del continente africano

I recenti appuntamenti elettorali europei hanno visto come denominatore comune la retorica intorno all’immigrazione. Un fattore a vantaggio delle forze nazionaliste, che mobilitano la rabbia e il senso di impotenza dell’elettorato contro i numerosi rifugiati che arrivano ogni giorno nel continente. Le gravi conseguenze delle politiche neoliberiste di quest’ultimo decennio hanno concesso il campo a queste pericolose derive fasciste e nazionaliste, che hanno spostato pericolosamente a destra l’asse anche dei partiti del PPE.

Il Premio Nobel sudafricano Desmond Tutu, simbolo della lotta antiapartheid insieme a Mandela, lo scorso giugno in un momento di boom degli sbarchi, ha sollevato un interrogativo importante: "Per una volta, almeno per una volta mi auguro e prego perché i cittadini europei, e i loro governanti, non si chiedano dove vogliano andare gli esseri umani che bussano alle porte, troppo spesso sbarrate, dei ricchi Paesi occidentali. Io spero e prego che almeno una volta ci si chieda da cosa fuggono, e perché, e per responsabilità di chi, i loro Paesi si siano trasformati in un inferno in terra". In questo senso, è utile andare oltre alle degradanti discussioni dei talk show e alle imbarazzanti dichiarazioni dei nostri politicanti e, forse troppo brevemente, tentare di inquadrare la reale situazione di un continente immenso come quello africano. È utile ricordare a noi stessi, contrariamente a quanto riportato dai media, che solamente un terzo dell’immigrazione africana varca il Mediterraneo e i suoi confini continentali. Due terzi della totale immigrazione dell’Africa è interna, come si può vedere analizzando i dati della World Bank del 2016. Negli ultimi anni, si è anche registrato un alto numero di migranti che ritornano nei loro paesi origine, anche dai paesi ad alto reddito dell’area OCSE.

Oltre all’immigrazione, l’altra ottica dalla quale viene osservato il continente africano è quello del cosiddetto “afropessimismo”. Ovvero la costante e immediata associazione dell’Africa a tragedie come la fame, le carestie, le epidemie, le guerre ecc. Sicuramente sono alcuni dei problemi che ancora oggi frenano il grande continente, ma non possono essere i punti di partenza per una visione oggettiva della grande realtà africana. Dalla nascita degli stati nazionali africani, soprattutto nell’Africa subsahariana, la timida crescita economica del continente si è bruscamente frenata tra il 1970 e la fine degli anni Ottanta. Condizionata da una serie di fattori quali le forti oscillazioni del prezzo del petrolio, fattori economici riguardanti i tassi di interesse sui debiti pubblici, il forte protezionismo dei paesi dell’Africa settentrionale, mala gestione economica, fattori geopolitici che causano conflitti ecc. Vi è stata una ripresa economica generale del continente a partire dalla metà degli anni Novanta, ma che non è stata omogenea in tutte le regioni. Una crescita determinata da alcuni fattori: forte domanda internazionale di materie prime (petrolio, metalli, gas ecc), calo dell’inflazione, progressi democratici e politici, nuova classe dirigente, timida diffusione della tecnologia ecc. Il problema delle risorse è determinante per capire lo sviluppo del continente: paesi ricchi di risorse e materie prime non hanno avviato una crescita economica sostenibile e non hanno portato a una riduzione della povertà. Paesi come Angola, Camerun, Nigeria e Gabon sono al fanalino di coda del continente negli indicatori internazionali sulla povertà e sulle aspettative di vita, per differenti fattori, eppure sono i maggiori detentori delle risorse petrolifere del continente, i cui i governi nazionali ricevono ingenti guadagni dalla vendita di petrolio. Nonostante la democrazia, e questo è un dato positivo, stia diventando il sistema di governo di riferimento del continente africano (anche nell’Africa subsahariana) la corruzione è uno dei maggiori freni alle politiche di sviluppo.

È migliorato l’indicatore che rileva il grado di qualità della democrazia, essendo aumentati in molti paesi africani gli organi di controllo sulle operazioni di voto e l’accesso della popolazione ai mezzi di informazione. Generando anche un aumento delle proteste democratiche nel continente, come nelle ultime elezioni in Ghana. È anche interessante mettere in relazione lo sfruttamento delle risorse naturali con il fenomeno dell’urbanizzazione, in forte crescita da alcuni anni a questa parte. Normalmente segnale positivo di crescita economica e sociale nei paesi in via di sviluppo, in Africa molte città non sono il luogo dove si produce la ricchezza ma dove viene consumata. È una urbanizzazione completamente diversa ad esempio da quella asiatica, dove grazie ai servizi e alle attività produttive quali il settore manifatturiero sono un luogo dove la ricchezza viene prodotta. Oltretutto questa urbanizzazione in forte crescita non è accompagnata ovunque da politiche di sviluppo sostenibili nelle risorse vitali quale acqua e la terra coltivabile, priva di qualsiasi strategia di pianificazione.

Nonostante la possibilità di avere una popolazione giovane che può comunque beneficiare dei miglioramenti nelle condizioni di vita e dalla riduzione in molte aree del tasso di mortalità, una delle più grandi incertezze del continente è legata alla sua demografia. Meno del 20% delle donne africane hanno accesso a mezzi di contraccezione, il processo di riduzione della fertilità incontrollata è lento, manca una efficace educazione sessuale e nonostante l’aumento dell’età delle donne in cui generano figli il numero di nascite per famiglia rimane alto e stabile. L’Economist nel 2011 ha parlato di un possibile disastro maltusiano del continente africano. Gli ultimi dieci anni hanno inoltre evidenziato un aumento dei conflitti, sia statali che regionali, dopo una riduzione che aveva favorito elementi di crescita economica dalla fine degli anni Novanta. Esempio lampante di questo fattore sono il Mali e lo Zimbawe, considerati poco tempo fa due degli stati africani che avrebbero trainato la crescita del continente (con indicatori classici come il PIL elevati prima delle guerre che li stanno distruggendo).

Non ci sono però solamente questi elementi negativi, nonostante sia disomogenea però il continente, soprattutto i paesi subsahariani, sono andati incontro a uno sviluppo sociale e politico importante. Che hanno favorito in molti paesi la crescita di una classe media, con un ricambio generazionale anche alla guida di molti paesi, una crescita della consapevolezza politica e l’accesso al dibattito democratico. Elementi confermati dai maggiori investitori internazionali nel continente africano, quali Russia, Cina, Brasile e India. L’Italia è uno dei maggiori paesi europei che investe in Africa, soprattutto nelle materie prime.

Per superare la demagogia sull’immigrazione, è necessario partire da una profonda analisi dei fattori cambiamento e sviluppo nel continente africano e accompagnare gli investimenti e le opportunità economiche con una crescita sostenibile. L’Europa non può continuare a ignorare il dinamismo e le problematiche di un continente come l’Africa a cui è storicamente legata. È un elemento cruciale e fondamentale per risolvere la tragedia quotidiana dei morti nel Mediterraneo, la tratta degli scafisti e i tanti problemi legati al rapporto tra continente europeo e continente africano. La forte crescita economica che molti paesi africani stanno sperimentando, non accompagnata da una redistribuzione della ricchezza e da miglioramenti delle condizioni di vita, è un problema che può essere affrontato. In un momento storico in cui le economie avanzate sono in recessione o in stagnazione economica, l’Africa è la nuova frontiera degli investimenti e alcune economie hanno i tassi di crescita più elevati al mondo. È importante investire e lavorare in Africa per una crescita sostenibile, favorendo un aumento delle qualità delle politiche pubbliche dei governi accompagnato da una lotta alla corruzione. Per fare ciò è necessario uno scambio dinamico e forte tra i due continenti, che non si limita allo slogan “aiutiamoli a casa loro” ma un programma di aiuti internazionali e di scambi funzionale al progresso dei paesi africani e a una politica sostenibile di sfruttamento delle risorse e materie prime. Soprattutto favorendo la formazione di una nuova classe dirigente, in una popolazione molto giovane come quella del continente africano. La crescita e lo sviluppo del continente africano sono un’opportunità non solo europea, ma per il futuro globale. Ad oggi l’Europa, pur essendo uno dei più grandi donatori in termini di ONG e aiuti internazionali, insieme ad accordi economici con molti paesi africani, non sembra essere in grado di elaborare una politica capace di interpretarne ed aiutarne lo sviluppo. Generalizzando nella macchina di propaganda politica europea le complessità e le differenze di un enorme continente a cui siamo strettamente legati dalla storia, a cominciare da quella scia di sangue che si perde nelle acque del Mediterraneo.

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Non è lavoro, è sfruttamento (Marta Fana): il saggio del momento

Potremmo definirlo il saggio del momento. Almeno a sinistra, ma l’ambito pare troppo delimitante, se si dà un occhio ai dati delle vendite (seconda edizione dopo una settimana, ci informa Laterza).

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Martedì, 03 Ottobre 2017 00:00

Logistica e lotta di classe: i pacchi di SDA

Logistica e lotta di classe: i pacchi di SDA

SDA (Speditori-Destinatari Autorizzati) è l'azienda di Poste Italiane per la gestione logistica. "Detiene una quota di mercato nella distribuzione dei pacchi intorno al 12% e "nel 2017 l'obiettivo è di raggiungere i 50 milioni di colli" (dati da il Sole 24 Ore del 29/09/2017). Il nome della ditta è noto a chi anche solo occasionalmente ordina qualcosa attraverso internet. Distribuzione e vendita a distanza delle merci sono sempre più al centro del "capitalismo del XXI secolo". Un cambio di appalto è al centro di una mobilitazione con al centro il SI Cobas, tra le realtà più attive in una galassia lavorativa eterogenea, in cui il terziario arretrato su cui poco si concentrano i riflettori del sistema di informazione. Ha fatto eccezione la morte di Abdesselem El Danaf, della ditta GLS, travolto - letteralmente - ed ucciso da un altro pezzo di questo settore economico, quello del trasporto su gomma, in cui si trovano forme di piccola impresa e partite IVA, dove si riscontra con evidenza cosa sia la "guerra tra poveri" (talvolta con sfumature di razzismo, a leggere i resoconti delle organizzazioni sindacali di questi ultimi anni).

Aggressioni, "volontari", impiegati formati velocemente per diverse mansioni rispetto a quelle per le quali sono stati assunti, interventi della questura: i metodi applicati dalle imprese per affrontare la dialettica con i lavoratori sono decisamente poco 2.0...

Al contempo è evidente il problema della frammentazione sindacale, con articolati rapporti tra le realtà "di base" e l'assenza delle sigle confederali in questo tipo di lotte. Si aggiunge un sistema di informazione poco attendo al tema e anzi spesso disponibile a criminalizzare il dissenso, cercando anche di diffamare i protagonisti della conflittualità sociale, come fu nel caso dei titoli eclatanti a gennaio 2017 sulla presunta corruzione di alcuni dirigenti SI Cobas nella logistica.


Niccolò Bassanello

Nella logistica, ad una indubbia centralità nell'odierno sistema economico fa da contraltare un complesso di relazioni industriali rimasto al capitalismo selvaggio del primo XIX secolo. I loschi figuri inviati a pestare gli scioperanti sono gli ultimi di una serie di fatti simili, tra vigilantismo prezzolato e crumiraggio violento, che hanno lasciato sul terreno anche un morto. La furia senza scrupoli degli strike breakers di ventura e di chi li assolda dimostra abbastanza chiaramente il potere che la pratica dello sciopero continua ad avere. I lavoratori, spesso stranieri in condizioni di ricattabilità, che si ribellano a condizioni inumane rifiutando il lavoro riescono a far paura. L'unità sindacale con i confederali, a cui spetta una buona fetta di responsabilità per il peggioramento devastante di salari e condizioni in tutti i settori, non è granché utile né auspicabile, se vuol dire ridurre le lotte alla palude del compromesso concertativo.

Ciò che sarebbe necessario è semmai un salto di qualità. Le lotte della logistica avrebbero bisogno da un lato di unirsi ad un movimento generalizzato, dall'altro lato di trovare un referente politico classista e credibile (e questo già di per sé esclude i D'Alema e i Pisapia). Merce rara, nell'Italia degli appelli unitari e degli intellettuali di micromega.


Alex Marsaglia

È sconcertante assistere a ciò che accade nel settore più avanzato dello sfruttamento di classe. È da un po' che ne seguiamo le vicende, nonostante sia sempre più difficile stupirci per ciò che accade. A un anno dall'assassinio di Abd Elsalam Ahmed Eldanf lo scontro tra il padronato e gli operai che lavorano nella catena di sfruttamento costruita attorno al mercato della logistica non accenna a diminuire.
L’USB di Melfi, in solidarietà ai facchini SDA di Carpiano ha indetto un’ora di sciopero in tutto lo stabilimento FCA. Nel comunicato si capisce da subito la gravità della situazione laddove si avvisa come non vi sia più spazio per chiedere alle "istituzioni di intervenire per fare giustizia", poiché "la realtà è che i veri responsabili di quanto accade oggi in Italia sono da cercare proprio nelle istituzioni”.

A scoprire le carte è il celebre senatore PD Stefano Esposito che nei giorni scorsi ha chiesto nella Commissione Trasporti del Senato un’audizione urgente dei vertici di Poste. Lo sciopero degli unici sindacati di classe sopravvissuti in questo paese, cioè quelli di base, sta portando una forte preoccupazione proprio dentro le stanze del potere. Questo governo aveva infatti notevolmente investito su un esercito industriale di riserva da mobilitare per abbattere i diritti dei lavotatori e ora se lo vede rivoltarsi contro, ponendo a rischio appalti fondamentali come quello con Amazon, facendo fioccare penali di non poco conto. Abbassare il livello conflittuale dei lavoratori diventa un imperativo per il governo stesso che però si è impegnato a livello politico proprio per incrementarla. Il rompicapo per gli azzeccagarbugli piddini è impossibile da sciogliere poiché schiacciati da un meccanismo più grande di loro che gli impone di fare una politica degli appalti al massimo ribasso incrementando le condizioni di difficoltà dei lavoratori. Il cambio d'appalto che ha interessato per ultimi i facchini dell'SDA di Carpiano è semplicemente lo strumento per esercitare tale compressione salariale che consente di incrementare l'estrazione di plusvalore. Queste condizioni inevitabilmente incrementano malcontento che porta ad un facile innesco di rivolte e scioperi. Infatti, la conflittualità nel mondo della logistica è ormai elevata da anni. Il vero rompicapo per chi è ancora interessato alla lotta della classe operaia semmai è come coagulare tali forze per estendere il movimento di protesta, innescando solidarietà verso tale lotta.

Resta un dato di fatto di non poco conto: con le lotte operaie nella logistica la catena del valore viene colpita nel suo punto più fragile, ossia laddove l'esercito industriale di riserva viene reclutato per trascinare nel baratro della precarietà e della miseria la più ampia massa di lavoratori. Insomma è la chiave di volta che consente di portare a compimento pauperizzazione e sfruttamento anche di lavoratori non direttamente interessati dalle vertenze. Per fronteggiare tali movimenti la legalità borghese viene ampiamente aggirata ricorrendo persino alle squadracce e alle aggressioni dirette. L'impunità è la regola. Le trappole all'ordine del giorno.

Il compito storico resta scoperchiare il vaso di Pandora e rivelare al proletariato di questo Paese come dai bassifondi del mercato del lavoro si parta per destrutturarne sempre di più le fondamenta. Sostenere chi non accetta più di ridursi a carne da macello per sopravvivere è l'unica via per un reale avanzamento dei diritti del lavoro e nella logistica abbiamo una rilevante concentrazione di massa in grado di porsi effettivamente come forza d'impatto.


Dmitrij Palagi

La logistica non è solo un dettaglio organizzativo. Modifica l'organizzazione produttiva e concorre a definire i cambiamenti della geografia del potere (politico, non solo economico). Raramente il sistema di informazione si occupa dei meccanismi alla base della nostra società, confermando l'idea di un'ipocrisia di fondo della nostra società, incapace di interrogarsi sulle implicazioni di uno sconto presentato come "spese di spedizione gratuite". Il fascino della consegna di un prodotto in giornata, l'impulso ad un servizio personalizzato come quello di Amazon, la possibilità di tracciare il pacco... Lo sfruttamento è alla base della nuova società globalizzata e molti sono i settori in cui le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori si allontanano dalle conquiste del Novecento. Vanno in avanzi i servizi al consumatore, si riducono i diritti del lavoratore.

Nell'ambito della manodopera a bassa specializzazione si paga cara la disattenzione della società. L'organizzazione delle vertenze appare frammentata tra la galassia di sigle extraconfederali e spesso si fatica a comprendere quali equilibri separano un'organizzazione da un'altra (anche se sbaglia chi riduce tutto a banali vicende personali). Non mancano tratti inquietanti rispetto ai "piccoli padroni" (come vengono chiamati i proprietari di furgoni o camion impegnati nel settore del trasporto) o a veri e propri scontri interni alla classe lavoratrice.

Verso la logistica l'atteggiamento diffuso è analogo a quello dei settori progressisti rispetto all'emisfero sud del mondo: qualcuno lo studia con grande attenzione, qualcuno si commuove intorno ad un caso di cronaca, altri preferiscono non guardare. La politica dovrebbe occuparsi in primo luogo dell'economia, essendo oggi il rapporto economico tra i determinanti dell'organizzazione sociale. La logistica è l'ambito prioritario. Però anche in questo ambito la sinistra europea appare drammaticamente assente.

Almeno un paio di titoli consigliati per approfondire: Logistica (Giorgio Grappi, Ediesse, 2016) e Il capitalismo delle piattaforme (Benedetto Vecchi, il manifesto, 2017).


Jacopo Vannucchi

Lo sciopero dei facchini SDA pone in luce tre problemi: l’assenza dei sindacati confederali, i contrasti tra i vari sindacati di base, l’organizzazione produttiva basata sull’esternalizzazione. Quest’ultima è stata introdotta nell’ordinamento italiano come lavoro interinale nel 1997, con il voto favorevole anche di Rifondazione, dal Governo Prodi del rimpiantissimo (dall’allora ministro Bersani, quello che ora chiede l’articolo 17 e ½) Ulivo. Tale tipologia di lavoro in primo luogo applica ai lavoratori un CCNL specifico e distinto quindi dal settore produttivo al quale gli stessi vengono somministrati; in secondo luogo i lavoratori somministrati entrano in concorrenza salariale con i lavoratori del settore; in terzo luogo esiste la concorrenza tra le singole agenzie di somministrazione. Si aggiunga la sostanziale impossibilità di programmazione economico-familiare.

Nel regime lavorativo c.d. post-fordista i sindacati di massa hanno avuto e hanno enormi difficoltà a trovare un proprio insediamento. Ne risulta uno scollamento che manda alla deriva entrambi i soggetti del lavoro: da un lato, tra i sindacati cresce in modo abnorme il peso (numerico, quindi politico!) dei pensionati; dall’altro, i lavoratori (sempre meno qualificati) restano privi di tutela da parte di soggetti con struttura e riconoscimento nazionale. I sindacati di base non riescono a coprire questo vuoto e anzi replicano le medesime mancanze del sistema in cui agiscono, massime la concorrenza intestina. Lo si è visto nel caso SDA in cui una delle due sigle di base ha proclamato lo sciopero dopo che l’altra aveva firmato l’accordo che prevedeva la continuità contrattuale per i lavoratori a seguito del cambio di subappalto.

Da un lato, l’eclatante caso di Ryanair (settore del tutto diverso, ma medesimo principio ispiratore: massimizzazione del profitto tramite la compressione del costo del lavoro) mostra che la ricerca del profitto alla giornata, lasciando da parte i nodi dello sviluppo, tira prima o poi la corda. Dall’altro lato, si sconta l’assenza di un soggetto (sindacale, politico, istituzionale) oggettivamente in grado di farsi carico di questo sviluppo mancato e dirigerlo. Una simile direzione richiederebbe del resto un’uniformità internazionale e un uso di risorse pubbliche tale da essere possibile solo a livello Ue.


Alessandro Zabban

I ceti dominanti stanno vincendo la lotta di classe a danno dei subalterni. L’aspetto ideologico e di interiorizzazione di certi valori aziendalistici ha un peso enorme nello squilibrare il rapporto di forze. Ma ancora più a monte stanno elementi strutturali che hanno a che fare con la riorganizzazione del processo produttivo e di distribuzione della merce. Lo sciopero dei lavoratori SDA ma anche di quelli degli aeroporti toscani mostrano come le logiche della specializzazione flessibile abbiano frammentato e scomposto ogni processo lavorativo che si basa sempre più su un sistema enorme di esternalizzazioni e subappalti che parcellizzano e flessibilizzano la filiera produttiva e con essa anche la vita di chi lavora nel settore che si trova in balia di una concorrenza spietata che peggiora drasticamente le condizioni contrattuali contraendo i salari, flessibilizzando gli orari e precarizzando il lavoro.

Ovviamente questo tipo di organizzazione non permette solo di abbassare il costo del lavoro o di deresponsabilizzare le grandi imprese, ma favorisce anche una maggiore capacità di penetrazione delle attività criminali e lavoro nero. Per i proprietari il guadagno però è anche politico, dal momento che la scomposizione lavorativa rende molto più difficile innescare quelle dinamiche di solidarietà di classe che erano invece favorite dall’ambiente della fabbrica fordista. Lo scontro violento a Milano fra i facchini picchettatori e i corrieri, i quali non guadagnano nulla se non si muove la merce (la diffusione di contratti a cottimo è ormai la normalità) sequestrata dagli scioperanti, mostra ancora una volta che la guerra fra poveri è il prodotto di un sistema organizzativo specificamente disegnato per accrescere i profitti e diminuire la forze delle rivendicazioni dal basso mettendo gli strati meno abbienti l’uno contro l’altro. Frammentazione lavorativa si accompagna a frammentazione sindacale che non solo, come si è visto, si concretizza in una dialettica fra sindacati di base e di categoria ma che si sviluppa anche all’interno degli stessi sindacati di base, indebolendo ancora di più le risicate forze degli scioperanti.

Eppure, nonostante tutti i limiti strutturali che abbiamo sopra descritto, nonostante le contromosse padronali, lo sciopero continua a fare paura e soprattutto, nonostante la retorica della digitalizzazione e del “fare tutto con un click” ha ancora la capacità di creare scompiglio, di minacciare seriamente i profitti delle imprese e la loro stessa sopravvivenza. Il meccanismo organizzativo capitalista non è del tutto privo di falle e lo sciopero non è quella forma di lotta anacronistica e superata come molti, anche a sinistra, hanno voluto pensare. La grande sfida resta quella di saper reagire alla riorganizzazione logistica del capitale con una riorganizzazione delle lotte su base solidaristica.

Immagine liberamente tratta da http://www.cxlogistics.com.sg/services/logistic-service/

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Elezioni statunitensi: declino e stallo? (A dieci mani)

I morti dei quali periodicamente parlano i telegiornali e le micro-rivolte (dalla provincia di Ferrara a via XX Settembre a Genova) sono due facce di un problema, quello delle migrazioni (per fame o per guerra) con le quali chi ha avuto la fortuna di nascere in questa parte di mondo deve confrontarsi oggi e dovrà farlo ancora per i prossimi decenni.

Vogliamo provare, questa settimana, ad affrontare razionalmente il tema rifuggendo da narrazioni che, tutte, sembrano mostrare ipocrisia ed inefficacia alla prova pratica.

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Sabato, 15 Ottobre 2016 00:00

13th: prigioni, razzismo e capitalismo

La cittadinanza degli Stati Uniti d'America rappresenta il 5-6% di quella mondiale, ma il Paese ospita il 25% della popolazione carceraria globale. XIII emendamento (titolo originale: 13th), documentario distribuito da Netflix, si apre con questi dati e le parole di Bryan Stevenson, fondatore di Equal Justice Initiative: «un essere umano su quattro, dietro le sbarre, con le manette, [è] rinchiuso qui, nel paese della libertà».

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Mentre in una Grecia circondata da muri, al molo di Chios, i militanti di Alba Dorata tentano di annegare i profughi, evidentemente ancora non contenti delle deportazioni organizzate dall'Unione Europea ed effettuate da un'agenzia creata appositamente per “gestire le frontiere esterne” come Frontex (per il video vedi qui), i problemi alla base dei movimenti migratori non sembrano certo arrestarsi, bensì acuirsi.

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Mercoledì, 02 Marzo 2016 00:00

Sgomberare e sfruttare. A Calais come qui.

Sgomberare e sfruttare. A Calais come qui.

400.000 lavoratori sfruttati nei campi a 2,50 euro l'ora per 12 ore giornaliere, con tanto di pagamento dei costi di trasporto sui luoghi di lavoro e affitto delle baracche, in condizioni abitative, sanitarie e umane al limite della sopravvivenza (clicca qui). La notizia delle condizioni di lavoro di queste persone è arrivata il giorno in cui era programmato lo sgombero di oltre metà del campo di Calais (in foto), ribattezzato "giungla" dal gergo giornalistico che ha dunque già ridotto a subumani i suoi abitanti.

Per quantificare questo esercito di riserva che i capitalisti attraggono e gli Stati accolgono così confortevolmente lasciandolo alla mercé di padroni sempre più vicini allo status di schiavisti potete prendere come unità di misura proprio l'accampamento di Calais. Un campo che è diventato il modello di chi vuole le ruspe sugli abusivi come sfogatoio legalitario-politico e di un'Europa che disegna l'immigrazione come una piaga biblica da cui difendersi, il Belgio stesso d'altra parte ha ripristinato i controlli alla frontiera francese non appena è venuto a conoscenza dell'intenzione di disperdere i migranti accampati.

Questo campo del resto assomiglia ai tanti sparsi per l'Italia e presi di mira dalla destra nazionalista. La retorica, ormai è risaputo nella politica che abbiamo davanti, fa il resto. Ecco quindi che proprio nella Francia dei Je Suis Charlie lo sgombero di un accampamento di migranti diventa nientemeno un'"operazione umanitaria". Ma si sa, i francesi erano umanitari pure nelle loro colonie, non sanno limitarsi ad un intervento singolo, l'estetica dell'atto (reazionario) a loro non piace, son ben più pratici e metodici. Quindi, facendo un rapido riepilogo degli ultimi interventi umanitari sul campo di concentramento di Calais da parte delle forze dell'ordine francesi, si possono contare all'incirca una ventina di operazioni con cadenza quasi settimanale che hanno portato a ridurre il numero della popolazione dagli 8000 di novembre ai 6000 attuali. Ovviamente le immagini degli sgomberi delle tendopoli e delle baracche non sono edificanti per la retorica democratica, quindi raramente vediamo le immagini sui mass media. Tantomeno veniamo a conoscenza delle bastonature.

Tuttavia, negli ultimi giorni si è fatto un gran parlare di Brexit e nonostante si parlasse quasi solo più della mobilità dei capitali da e verso la city, a quanto pare le persone contavano ancora. Infatti il vero spirito europeista è emerso immediatamente quando il Presidente inglese ha annunciato trionfante l'accordo anti-Brexit con un solidale "abbiamo riconquistato il controllo sulle frontiere, riuscendo a bloccare gli abusi dei lavoratori europei che sfruttano il nostro sistema di welfare". E se gli europei abusano del sistema di tutele britannico, che è noto dai tempi della lady di ferro per essere il meno esteso in Europa, pensate un po' cosa potrebbero fare le orde barbariche accampate a Calais! Ben altri epiteti di ben più antica memoria rispetto a quelli austeritari sarebbero spuntati dalla civilissima dialettica anglo-europea. Poi si è venuto a sapere che in realtà l'obiettivo era la fusione tra quelle che un tempo erano le due più grandi piazze d'affari dopo Wall Street e che oggi devono essere unificate in un'unica grande Borsa europea e l'entusiasmo dell'ideale europeista è svanito e si è tornati agli affari.

Ebbene, tornando invece al problema migranti che nel campo di Calais giustamente sconvolge le ultime coscienze democratiche rimaste in Europa che si preoccupano dell'ultimatum annunciato dal governo francese si scopre che, se si volesse per scrupolo misurare questo esercito di riserva che lavora quotidianamente nell'Italia del post-Expo in fase di ritorno alla pastorizia come unica alternativa programmata alla deindustrializzazione, dovremmo moltiplicare per 66 la popolazione del campo e distribuirla nelle campagne da Nord a Sud e concentrarla in particolare nelle cascine più industrializzate del Made in Italy di qualità. Si scoprirebbe così che l'80% dei lavoratori del settore agorindustriale è composto da manodopera straniera sottoposta a livelli di sfruttamento che l'Occidente benestante aveva dimenticato da oltre un secolo. Lavoratori che sono per lo più intrappolati da un'Europa che non solo ha trasformato i propri confini in barriere naturali contro cui far schiantare popolazioni in fuga, ma che ha iniziato ad erigere barriere materiali sempre più diffuse e numerose al suo interno. Dapprima generosamente offerte agli stati lungo i quali si snodava il flusso migratorio e ora in voga pure in quelli virtuosi come l'Austria.

Ed ecco che, un'altra volta, il destino della Grecia, in procinto di essere circondata dai recinti, sembra diventare sempre più un destino comune al netto delle ultime mosse dell'Austria e della Francia (giusto per non dimenticarci gli involucri umani avvolti nei teli antigelo a Ventimiglia). E questi 400.000 reietti del mondo del lavoro, che neppure la destra osa attaccare più di tanto per le evidenti convenienze, vengono semplicemente dimenticati e lasciati galleggiare o annegare a seconda della forza rimasta ai singoli in un altro mare, fatto questa volta di lavoro, salario e condizioni socio-sanitarie inumane, proprio come a Calais, solo che qui nessun magistrato si sdegna più di tanto e pochi giornalisti vi affluiscono. Vuoi vedere che forse è questa la ragione per cui è meglio evitare le grandi concentrazioni? Oggi abbiamo l'equivalente di 66 campi come quello di Calais, di lavoro questa volta e non di concentramento, dislocati in tutta Italia, ma nessuno li vede. Escono rapporti che presto cadono nel dimenticatoio. Un bel paradosso che tuttavia non fa altro che rappresentare l'economia capitalista in cui la forza-lavoro si vende e si compra liberamente sul mercato, ormai quasi tutto nero. Sarà difficile ottenere maggior flessibilità e produttività di così, ma senz'altro questo limite resta un obiettivo politico da abbattere da parte di chi ci governa, possiamo scommetterci. Si assume esattamente quel paradigma per erodere i diritti rimasti: una maggiore produttività, un minor salario, incrementi di merci vendibili e acquistabili sul mercato. Così esattamente come Cameron individua negli europei in Inghilterra degli indebiti sfruttatori del welfare inglese ridotto all'osso nonostante gli incrementi dei livelli di sfruttamento, oggi possiamo vedere il volto degli indebiti sfruttatori del nostro welfare in qualcun altro, purché non sia identificabile nel padrone ma in un altro il più possibile simile a noi e in quest'ottica rimane ancora molto da erodere: a livello sanitario, abitativo, salariale. Cameron lo sa bene, resta da vedere se quanti festeggiano per gli sgomberi a Calais l'hanno capito.

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