Dismessi i panni della classe la forza-lavoro diviene magma umanoide, non è altro che una massa postmoderna fatta di individui atomizzati appagati unicamente dal mercato e che ricavano reddito dalle più svariate fonti, ma non più dal lavoro. Insomma, i produttori non sarebbero più i produttori da cui estrarre plusvalore, siccome «il lavoro immateriale si situerebbe già oltre il capitalismo, poiché sarebbe in grado di valorizzarsi senza aver bisogno del capitale» (Impero, M.Hardt e T.Negri, 2002). L’esaltazione del lavoro immateriale diventa il nuovo Eden postcapitalistico, mentre in realtà è solo una delle ultime frontiere dello sfruttamento capitalistico.
L’abbaglio è sostanzialmente questo. Il punto però è capire come non è dal rifiuto del lavoro che deriva l’emancipazione del proletariato, bensì dalla liberazione del lavoro dal capitale. Il saggio Il senso dello strumento. Lavoro e vita nel pensiero di Karl Marx (Edizioni Unicopli, 2017) di Matteo Edoardo Cucchiani ci ricorda proprio questo: nel modo di produzione capitalistico, in cui per vivere si scambiano merci dietro a un corrispettivo monetario, l’essenza stessa dell’uomo (in quanto homo faber) viene ingabbiata. La ricostruzione filosofica di Cucchiani è impeccabile e condita dei tanti riferimenti che fornirono le basi del pensiero di Marx (Hegel, Ferguson, Schiller e altri). Il nucleo di partenza è la centralità del lavoro in Marx, in quanto «solo grazie all’attività pratica di trasformazione della natura l’uomo può formare ed esprimere pienamente le proprie potenzialità latenti», senza mai perdere di vista la realtà che incatena il lavoratore tramutandolo in merce, per cui pone attenzione particolare alla «necessità di subordinare il lavoro a un fine umano che lo guidi e lo orienti»1. La centralità dell’operaio, in quanto soggetto che esprime la potenza metamorfica del lavoro, viene posta in secondo piano dal processo storico. Infatti, se è vero che l’operaio assoggetta il mondo esterno alla finalità umana, il processo storico pone il capitalista al centro del modo di produzione in quanto soggetto che si impadronisce del mondo naturale e dei mezzi di produzione, assoggettando così anche l’operaio. Il capitalista, appropriandosi del mondo naturale e dei mezzi di produzione, acquisisce un potere di vita e di morte sul lavoratore ponendo un giogo pesante come un macigno sul lavoro.
Il lavoro dovrà quindi svolgersi secondo le esigenze dettate dalla valorizzazione del capitale e non più secondo finalità umane e l’operaio sarà dominato dal prodotto del suo lavoro. L’alienazione è così completata. Il lavoratore espropriato del lavoro stesso, per cui alla fine si lavora per il capitale e non per l’uomo.
È questa la premessa, cioè l’estraniazione che sta alla base dell’alienazione. Il capitale acquista così il diritto di comando sul lavoro vivo che tramite il salario ingabbia il lavoratore. In definitiva, emerge il parassitismo del capitalista che «non svolge alcuna funzione nell’ambito della produzione», se non «garantire la mediazione tra due elementi posti già originariamente in immediata connessione organica»2. Nel modo di produzione capitalistico l’utilitarismo diventa quindi un mero alibi per il parassitismo del capitalista, poiché Marx rivela chiaramente come «il consumo di una classe è reso possibile dal lavoro di un’altra, che trasforma la materia priva di forma in valori d’uso, ossia in oggetti capaci di soddisfare i bisogni umani»3. Il fare concreto che trasforma la materia per soddisfare bisogni umani non è quindi quello del proprietario dei mezzi di produzione e tantomeno quello del banchiere che finanzia l’industriale, bensì quello del lavoratore che produce valori d’uso. Il processo di produzione nel modo di produzione capitalistico deve però rispettare dei precisi criteri per determinare la valorizzazione del capitale, così «il lavoro figura come uno strumento (…) il cui fine intrinseco, il bisogno, è impiegato come un mezzo al servizio di una finalità estranea»4. Il valore d’uso prodotto dal lavoratore viene tramutato in valore di scambio dal capitalista, il quale deve piazzare la merce sul mercato per realizzare profitto e incrementare il capitale. Con il passaggio dal valore d’uso al valore di scambio avviene la sottrazione del lavoro a una finalità propriamente umana, poiché l’unica finalità diventa l’indefinita espansione del capitale. In sostanza, «l’uomo produce oggetti in vista del loro valore d’uso», mentre «la produzione, orientata al valore di scambio» ottiene la «perdita di trasparenza nella relazione che lega l’uomo ai prodotti del suo lavoro e agli altri uomini, poiché da una parte l’oggetto, che esiste come incarnazione della forma astratta del valore, cancella il rimando al bisogno e al consumo»5.
Da questo punto di vista l’ottimizzazione del processo produttivo avvenuta nei secoli, con la divisione del lavoro è semplicemente l’accentuazione della condizione di dipendenza dell’uomo6. In quanto con tale ottimizzazione si ottiene la «svalorizzazione relativa della forza lavoro», poiché avviene «l’arricchimento dell’operaio collettivo, e perciò del capitale» parallelamente`«all’impoverimento dell’operaio in forze produttive individuali»7. L’affondo di Cucchiani nei confronti di A. Smith è tanto pesante quanto opportuno, poiché se aveva ben compreso l’alienazione, non aveva assolutamente capito come la divisione del lavoro avesse un doppio movimento: da un lato aveva sì «l’aumento esponenziale della capacità produttiva» che incrementa la ricchezza sociale (posta in risalto ne La ricchezza delle Nazioni, A. Smith, 1776); dall’altro produceva impoverimento per la classe operaia in termini di libertà, sviluppo personale e condizioni materiali. Insomma, come riassume bene Cucchiani: «Lo scotto dell’ignoranza non è bilanciato, come credeva Smith, dalla crescente prosperità del lavoratore, perché la ricchezza materiale, pur essendo prodotta da lui, appartiene di diritto al capitalista e dunque l’operaio esce dal rapporto di produzione più povero di quando vi è entrato»; in ogni caso come già aveva inteso Schiller: «quand’anche gli appartenesse, quella ricchezza non costituirebbe un risarcimento adeguato per la perdita della sua piena umanità»8.
Anche il non-lavoro, contrariamente alle derive di Negri e in sintonia con i Quaderni Rossi, viene inteso da Marx come «abolizione del lavoro salariato», ma non nell’attuale modo di produzione, come blaterano i sociologi sguaiati come De Masi, bensì in un modo di produzione in cui i mezzi di produzione siano di proprietà dei lavoratori stessi. L’attività lavorativa sul piano filosofico ha quindi un significato altamente positivo che diventa negativo solamente quando si scende sul piano storico dove si scontra con un modo di produzione che ingabbia il lavoro, legandolo ai valori di scambio e schiavizza il lavoratore con il salario.
Tuttavia, l’essere umano è l’unico essere vivente capace di storia e il lavoro resta una necessità naturale dell’uomo. Il fatto che questo lavoro possa continuare ad essere remunerato da un salario è una questione di storia della tecnologia e in ultima analisi dipende dall’avanzamento del progresso tecnologico in grado di abolire integralmente il «lavoro salariato» dell’uomo. Così, quella che è una necessità naturale dell’uomo potrebbe, in un futuro non troppo lontano, venire soddisfatta da forme non immediatamente naturali, liberando il lavoratore dal salario. Ovviamente questo determinerà problemi di autosostentamento del capitalismo, ma questi non sono problemi che ci riguardano in quanto l’obiettivo marxiano non è come tenere in vita questo modo di produzione bensì come abbatterlo. In un mondo in cui il lavoro vivo sta sparendo sempre più e le crisi da sovraccumulazione si moltiplicano resta la stella polare di Karl Marx giunto a 200 anni dalla sua nascita a guidarci, essendo ancora oggi l’unico pensatore ad aver posto il lavoro quale essenza specifica eterna e immanente della vita dell’uomo finalizzata al soddisfacimento di bisogni umani.
1 M. E. Cucchiani, Il senso dello strumento. Lavoro e vita nel pensiero di Karl Marx, Edizioni Unicopli, Milano, 2017, p. 11.
2 Ivi, p. 91
3 Ivi, p. 92.
4 Ivi, p. 329.
5 Ivi, p. 257.
6 rif. p. 244.
7 Ivi, pp. 247-248.
8 Ivi, p. 250.