Sabato, 15 Ottobre 2016 00:00

13th: prigioni, razzismo e capitalismo

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La cittadinanza degli Stati Uniti d'America rappresenta il 5-6% di quella mondiale, ma il Paese ospita il 25% della popolazione carceraria globale. XIII emendamento (titolo originale: 13th), documentario distribuito da Netflix, si apre con questi dati e le parole di Bryan Stevenson, fondatore di Equal Justice Initiative: «un essere umano su quattro, dietro le sbarre, con le manette, [è] rinchiuso qui, nel paese della libertà».

Partendo dal XIX secolo, per un'ora e quaranta, la regista (Ava DuVernay) ricostruire il percorso che ha portato ad un sistema di incarcerazione di massa su base razziale, con una forte discriminazione sociale. Nell'ordinamento giuridico a stelle e strisce la schiavitù è vietata, ad esclusione di chi si macchia di qualche reato. Secondo le diverse voci che compongono l'opera (la più nota in Italia è quella di Angela Davis) non vi è alcun dubbio su come il sistema abbia mutato le forme di sfruttamento, senza modificare la sostanza di un'ingiustizia da troppi ignorata.

La criminalizzazione degli afroamericani, per garantire manodopera a basso costo, era evidente già ai tempi in cui si poteva essere incarcerati semplicemente per “vagabondaggio”. La paura è stata poi uno strumento politico sfruttato sistematicamente nelle campagne per la Casa Bianca a partire (almeno) dagli anni '70 del secolo scorso.

Le cifre riportate sono impressionanti, se si va a leggere il numero di incarcerati:

- 357.296 nel 1970,
- 513.900 nel 1980,
- 759.100 nel 1985,
- 1.179.200 nel 1990,
- 2.015.300 nel 2000,
- 2.306.200 nel 2014.

Oltre due milioni di persone tagliate fuori dalla società, il cui reintegro non viene favorito e la cui detenzione è fonte di sfruttamento economico.

Il problema non riguarda solo “i neri”, ma il colore della pelle è statisticamente una discriminante innegabile: se 1 bianco su 17 rischia di finire in carcere, nel caso degli afroamericani il rapporto sale ad 1 su 3.

Parlare di carceri è complicato anche in Italia, dato che le persone comunemente tendono a pensare alla galera come ad uno spazio in cui si mangia e dorme “a spese della comunità”, dove è bene venire reclusi per essere puniti, magari “buttando via la chiave” della cella.

Come scritto anche nella nostra Costituzione la pena dovrebbe avere un fine rieducativo, cercando di correggere il comportamento del condannato e reintegrarlo nel tessuto sociale del Paese. Così non è: anzi, nel documentario si ricorda come esistano oltre 40.000 effetti collaterali collegati ad un periodo di detenzione. Fisicamente e psicologicamente l'esperienza detentiva è in molti casi devastante e deviante. Esistono considerazioni generali su come oggi venga guardato uno degli specchi delle contemporanee democrazie (la cui condizione di salute va sempre misurata a partire da come vengono trattati gli ultimi ed i reietti).

In Europa iniziano a essere diffuse pratiche già affermate sull'altra sponda dell'Atlantico, nell'ambito delle privatizzazioni. Il documentario ricorda luogo e data di nascita del primo ente carcerario privato: 1983, Tennessee, la Corrections Corporation of America (CCA, cliccando qui la storia dell'azienda dal loro sito). Oggi l'azienda è leader nel settore e il documentario ci informa che il suo profitto è di 1,7 miliardi di dollari. Sfruttamento dei corpi dei carcerati. Il capitalismo è in grado di reinventarsi continuamente, tanto che di fronte alle critiche sempre più larghe che riceve il sistema di incarcerazione di massa, è già partito il business dei GPS per gli arresti domiciliari. Gli attivisti dei movimenti per i diritti civili denunciano come il rischio sia quello della costruzione di ghetti in cui controllare il "disagio sociale" continuamente, creando un sistema di prigionia diffusa (che si colloca all'opposto delle necessarie pene alternative di cui l'Occidente dovrebbe essere all'avanguardia).

Il neologismo crimmigrazione non vale solo per gli USA. Che i centri di accoglienza rendano la detenzione (chiamata accoglienza) una forma di sfruttamento è evidente anche agli occhi dei cittadini italiani, con recenti scandali discutibilmente affrontati dal sistema di informazione.

Ava DuVernay (regista anche di Selma, film di successo del 2014) tratteggia però la linea di continuità peculiare della patria di Washington: schiavitù, sfruttamento dei condannati (lavori forzati), leggi Jim Crow (segregazione razziale) e oggi il sistema di incarcerazione di massa.

A Ferguson, località nota alle cronache per recenti scontri urbani tra popolazione afroamericana e forze dell'ordine, la media è di tre arresti per famiglia. Rispetto ai messicani derisi ed offesi da Trump, la popolazione di colore statunitense ha una peculiarità storica che la distingue dai fenomeni comuni alle diverse realtà di migranti. Sterminata la popolazione nativa americana, i neri furono trasportati nel continente per essere schiavi e come tali vengono ancora considerati dal sistema produttivo ed economico: questa è una traccia comune a tutto il documentario, da cui emergono numerosi altri spunti interessanti.

Il taglio della lettura di classe e dello sfruttamento razziale è sorprendentemente marcato, per essere un'opera distribuita grazie al successo di Netflix e di una regista candidata all'Oscar, capace di approfondire in modo critico quanto già affrontato sul grande schermo: "nel 2015 a Selma si è recato anche Obama e si è registrata una grande partecipazione, ma nessuno dice che il 30% della popolazione nera dell'Alabama ha perso il diritto di voto per una condanna penale".

Il funzionamento delle lobby e di un ente come l'ALEC emerge con l'assurda legge della difesa ad oltranza approvata in Florida, secondo la quale si può sempre uccidere se ci si sente minacciati. Allo stesso modo si riassumono nel documentario quei processi di indignazione morale che hanno portato, ad esempio, Victoria's Secret a recedere i contratti con i fornitori che producevano all'interno delle carceri.

La violenza della polizia e le drammatiche storie di innocenti uccisi perché poveri (oltre che di colore) accompagna le diverse voci, senza mai prevalere. Non si cerca solo di commuovere, ma si vuole spiegare come tutto sia fonte di profitto, in un sistema dove il "disagio" e il dissenso vengono governati attraverso la repressione. Esiste persino uno scandalo su una compagnia che gonfiava le tariffe delle telefonate dei detenuti. Orange is the new black è chiaramente solo una parte della denuncia necessaria. Per completare il quadro è utile riportare un altro dato inquietante: in un Paese dove il 95% dei pubblici ministeri "è bianco", pochissime persone accettano di andare a processo. Il sistema non reggerebbe se la maggioranza degli imputati non accettasse il patteggiamento. Chi è innocente è spaventato dalla pena minima obbligatoria (di cui parleremo a breve) e preferisce non rischiare un percorso economicamente non sostenibile. Kalief Browder è un ragazzo di 22 anni che si è suicidato dopo aver passato tre anni in carcere (tra condizioni di isolamento e violenza), dopo essere stato liberato perché innocente: aveva scelto di non patteggiare.

Le responsabilità politiche suonano terribilmente familiari. Nixon ha aperto il processo soffiando sulla paura e conquistando l'elettorato democratico degli stati del sud (sovrapponendo i movimenti dei diritti civili al significativo cambiamento demografico che interessò gli Stati Uniti d'America in quegli anni). La “guerra nella lotta al crimine” fu principalmente un elemento retorico, nella sua fase iniziale, tesa ad identificare la cultura hippie con la marijuana e le comunità afroamericane con l'eroina. L'impostazione di base scelta, ovvero affrontare le tossicodipendenze come una questione criminale, anziché sanitaria, è valida ancora oggi, come le legislazioni di troppi paesi ci ricordano.

Sotto Reagan la “crociata nazionale” contro le droghe accompagnò la disuguaglianza sociale e l'attacco alle tutele sociali. Persino le pene per le sostanze stupefacenti rivelano l'impostazione classista del suo governo: 1 grammo di crack equivaleva ad una pena per 100 grammi di cocaina (il consumo del primo era diffuso tra “i neri”, la “polvere bianca” si consumava principalmente tra la borghesia).

Dopo continue sconfitte da parte dei repubblicani, la nuova generazione democratica (Bill Clinton e Al Gore) sposa la retorica securitaria, promuovendo i principali cardini del sistema carcerario di massa contemporaneo: dopo tre condanne non si può più uscire di galera, esiste una pena minima obbligatoria, almeno l'85% della pena deve essere scontata. Nel 1994 vengono aumentai i fondi per costruire la costruzione di nuove prigioni e nel XXI secolo persino Clinton ha dovuto ammettere l'errore delle leggi da lui promosse, dati i risultati odierni. Hillary ha dovuto difendersi più volte dalle accuse mosse alle leggi promosse dal marito (con il suo sostegno). Eppure, rispetto a Sanders, più volte il sistema di informazione ha segnalato che la comunità afroamericana non ha sostenuto il senatore del Vermont nelle ultime primarie democratiche statunitensi. Il motivo? Secondo alcune delle voci del documentario la causa è la sistematica eliminazione del gruppo dirigente formatosi all'interno dei movimenti civili contro la discriminazione razziale e la scarsa capacità di autonomia politica di queste realtà.

L'impianto è efficace anche per la visione di insieme che riesce a trasmettere: il sistema di incarcerazione di massa che colpisce ogni persona ai margini della società, negli USA, è possibile proprio perché si è sviluppato come eccezione rispetto al divieto di schiavitù.

Il sistema è stato capace di inserire una clausola rispetto allo sfruttamento dell'uomo sull'uomo: il criminale non ha alcun diritto, perde di fatto la dignità di essere umano. Si parte dagli ultimi per difendere se stessi, perché a guardare il mercato del lavoro di oggi viene da chiedersi come sia possibile essere arrivati ad accettare lo stato di cose presenti. Come ci ricorda 13TH, ogni giorno, di fatto, accettiamo nuove (o vecchie) forme di schiavitù e neghiamo dei diritti universali pure retoricamente riconosciuti da tutti.

Il crimine ai tempi del capitalismo non è solo una forma di controllo ma, come tutto, è anche occasione di profitto. Fino a che punto si è disposti a tollerarlo?

Cliccando qui il trailer in inglese (ma il documentario è disponibile su Netflix anche in traduzione italiana).

Ultima modifica il Venerdì, 14 Ottobre 2016 16:59
Dmitrij Palagi

Nato nel 1988 in Unione Sovietica, subito prima della caduta del Muro. Iscritto a Rifondazione dal 2006, subito prima della sconfitta de "la Sinistra l'Arcobaleno". Laureato in filosofia, un dottorato in corso di Studi Storici, una collaborazione attiva con la storica rivista dei macchinisti "ancora IN MARCIA".

«Vivere in un mondo senza evasione possibile dove non restava che battersi per una evasione impossibile» (Victor Serge)

 

www.orsopalagi.it
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