Da primavera ad autunno inoltrato non passa giorno che dalla costa africana, rischiando e spesso perdendo la vita, oppure dalle tante rotte di terra che si sono create in Europa, qualcuno, da qualche disgraziatissimo posto non cerchi di venire in Europa (e nessuno di essi o quasi vuole rimanere in Italia e Grecia, i due Paesi in prima linea nell'affrontare i flussi migratori). Sono migranti economici e rifugiati politici ma che differenza sussiste tra le due categorie?
Se si ha il coraggio di sfidare la morte per andare via da dove si vive (e gli scafisti, per quanto malvagi non costringono nessuno a scappare, sono la versione moderna dei passeur piemontesi o liguri) qualsiasi distinzione perde valore. Come affrontare il tema prima che ad affrontarlo sia la signora Le Pen (o domani Salvini e già oggi Orban)?
Il richiamo all'Europa (con alcuni Paesi che, per motivi di ordine economico e non umanitario, come la Germania, hanno per altro fatto molto) appare rituale e stancamente inutile.
È un problema che interessa la stabilità e la crescita economica di decine di nazioni africane ed asiatiche e sono il Consiglio di Sicurezza e le altre agenzie delle Nazioni Unite a dover proporre soluzioni. La prima, la più banale, non rubare risorse e pagarle il giusto (se si vuole veramente chi vive lì non venga qui. Ma lo si vuole veramente?); la seconda, più scomoda, sta nel favorire stabilità politica e nell'aiutare quelle nazioni (in primo luogo la Nigeria e la Siria) che si trovano a contrastare povertà e devastazioni di qualcuno che forse l'occidente non pare determinato a sconfiggere realmente; la terza, la più lungimirante, sta nel coinvolgimento di nazioni fino ad ora non direttamente interessate dal tema: Cina, Russia, Giappone, Vietnam e molte altre.
La speranza è che anche i conservatori liberisti e chi fino ad ora ha coccolato l'estremismo sunnita (spesso, ma non sempre, gli stessi attori politici) se ne rendano conto prima che la rabbia sociale contro il feticcio dello straniero (che quando sbaglia va punito come chiunque altro ed anche questo a sinistra va detto) esploda generando tanti altri Orban e cancelli del tutto la commozione che i bambini con i polmoni pieni di acqua di mare, morti sulle nostre spiagge, ancora provocano (ma per quanto ancora lo faranno?).
Se l’intero globo, al netto dell’incremento demografico, è ormai attraversato da crescenti flussi migratori (vedi qui) diretti dalle zone in cui l’impoverimento è cresciuto esponenzialmente, anche a causa di una crescita economica irresponsabile, verso le zone in cui il tenore di vita è mantenuto - spesso artificialmente - più alto, l’Unione Europea, ma non solo, si vede costretta a fronteggiare il problema con una politica schizofrenica.
Così, barcamenandosi tra un “aiutarli a casa loro” (compiendo sempre maggiori danni) e un’accoglienza controllata (che rischia di rivelarsi solamente occasione di ulteriore sfruttamento, degrado e impoverimento delle masse), l'UE rivela la sua natura di blocco imperialista.
Sappiamo bene che il muro statunitense non è l'unica rappresentazione delle conseguenze dello "sviluppo ineguale", perché abbiamo un Mediterraneo pieno di cadaveri imputriditi a schermarci dall'Africa. Sappiamo altrettanto bene di chi sono le responsabilità politiche. L'unico problema resta la volontà di voler abbattere l'ipocrisia.
In realtà il delirio vero e proprio deriva dal sistema capitalistico che movimenta sì sempre maggiori quantità di merci, persone e capitali, ma nella speranza di rivalutare solo questi ultimi. Siccome, per farla breve, il problema è dato dalla sovraccumulazione di capitale che scatena periodiche crisi di sovrapproduzione, durante le quali lungi dal credo professato dagli economisti borghesi non avviene alcun riassorbimento della manodopera in eccesso, allora la sovrappopolazione relativa resta un problema irrisolvibile all’interno di un mondo basato sul profitto e in cui il lavoro diventa un fattore soggetto al più completo annichilimento.
Fintantoché un tale modo di produzione resterà in piedi, schiere di eserciti industriali di riserva sempre più numerose cercheranno di sopravvivere, divenendo facile strumento di ricatto in mano ai capitalisti. Resta compito dell’internazionalismo cercare di organizzare unitamente una lotta che restituisca libertà e dignità al sottoproletariato e al proletariato.
Negli ultimi anni il razzismo ha iniziato ad emergere anche nel mondo della sinistra radicale italiana. Non che fosse mai mancato. Soprattutto tra i compagni di generazioni del secolo passato è possibile ascoltare frasi dal classico sapore di politicamente corretto andato a male: "se non li aiutiamo a casa loro, non servirà a niente". Recentemente questo tipo di frasi si è però allargato sempre di più, mescolandosi con pulsioni xenofobe, sempre presenti all'interno di ogni comunità.
La costruzione di qualsiasi "noi" prevede una distinzione. I toscani sanno bene quanta leggerezza c'è nel campanilismo di chi non sopporta "i pisani", "i senesi", "i fiorentini", et cetera. Certo è che per come si è struttura la repubblica italiana negli ultimi decenni, appare improbabile proiettare sui propri corregionali il malessere individuale. Persino l'identità nazionale si è oggi indebolita e gli europei occidentali sono accomunati da un avversione verso le istituzioni con sede a Bruxelles che poche volte si declina in ostilità per altre nazionalità, come quella dei tedeschi o dei francesi. Il confine identitario ha maglie più ampie: la religione, l'immaginario che accompagna una determinata cultura nel mondo.
Si innestano oggi almeno due problematiche, per chi "fa politica" in Italia: da una parte il timore per l'altra sponda del Mediterraneo (con la percezione di un'invasione), dall'altra la difesa impaurita di quel che resta dei diritti sociali.
Basterebbe pensare al diritto dell'abitare, a quanti oggi, pur avendo più immobili di proprietà nel proprio nucleo familiare, ritengano ingiusto che nelle liste di attesa per le case comunali le prime posizioni siano occupate dagli stranieri (sempre che questo sia effettivamente vero).
Il problema è l'insoddisfazione, giusta e condivisibile, per ciò che offre la società e la politica. Purtroppo troppo spesso la sinistra si è mascherata dietro un "non è vero", difendendo i processi della globalizzazione e cercando di minimizzare le nuove problematiche. Oggi il tema dei cambiamenti demografici (che spostano gli equilibri tra i diversi continenti anche in termini quantitativi) si accompagna allo smantellamento dell'impianto conquistato in Europa nel secondo dopoguerra.
A troppi fa comodo ignorare che senza i contributi dei lavoratori migranti lo stato finirebbe per non poter più sostenere il sistema pensionistico.
Recuperare cifre, documenti, metodi di analisi almeno ispirati a modelli di ricerca scientifici: ricominciare a ragione sul medio periodo e tentare di costruire un senso comune su giusti presupposti è l'unico modo per non rimanere nell'angolo di fronte alla rabbia del diverso, ricordando (come ha fatto Paolo Favilli su il manifesto di qualche giorno fa) che la prima internazionale coordinò l'opposizione all'importazione di manodopera francese in Inghilterra con funzione di crumiraggio.
Un tempo si parlava di "eserciti di riserva", oggi è necessario quanto meno rimettere al centro un'analisi su come funziona il sistema economico, senza far mai venire meno l'elemento della solidarietà di classe (che di confini conosce solo la detenzione dei mezzi di produzione).
Nell’agosto 2010 il colonnello Gheddafi, in visita di Stato in Italia, chiese all’Unione Europea cinque miliardi di euro per bloccare il flusso di migranti prima del Mediterraneo e impedire che l’Europa diventasse «nera». Queste dichiarazioni generarono molto scandalo, mentre l’affermazione che in Libia le donne fossero più rispettate che in Occidente fu presa sul ridere.
A marzo 2016 l’Unione Europea ha firmato un accordo che prevede la concessione di sei miliardi di euro alla Turchia in cambio del rimpatrio forzato dei migranti approdati in Grecia e della garanzia di bloccare i migranti dalla Siria in campi presso il confine. La Libia di Gheddafi non aveva l’esperienza di pluralismo partitico della Turchia – forse anche per questo la distruzione della Giamahiria ha trasformato il Paese africano col più alto indice di sviluppo umano in un covo di Daesh – ma dopo il fallimento del colpo di Stato del 15 luglio anche in Turchia l’atmosfera è sempre più repressiva: due settimane fa sono stati arrestati dodici deputati del curdo Partito Democratico del Popolo, tra i quali i suoi capi. Anche sul versante dei diritti della donna si registra qualche problema, con l’introduzione di un disegno di legge per istituire il matrimonio riparatore nei casi di stupro ai danni di una minorenne. Già dopo la repressione del golpe i sostenitori di Erdoğan aveva esultato chiedendo l’imposizione del velo alle donne.
Ma quanti sono questi migranti che l’Europa teme al punto di chiudere entrambi gli occhi sulle violazioni dei diritti umani in corso da mesi in Turchia – mentre Gheddafi viene ricordato come «dittatore feroce»?
Nel 2015, l’anno della grande ondata migratoria, secondo Frontex sono stati circa 1,8 milioni. La popolazione europea ammontava a oltre 500 milioni di individui, per cui l’impatto è stato inferiore al mezzo punto percentuale. Per giunta, la crisi degli arrivi si è concentrata su un numero limitato di nazioni di confine (Italia, Grecia, Ungheria), a loro volta meri punti di ingresso per raggiungere gli Stati di richiesta di asilo (Germania o Svezia). La ripartizione dei migranti, che ha gravato spropositatamente su pochi stati mediterranei, ha condotto a una ingiustificabile reazione di chiusura nel Gruppo di Visegrád, i cui governi – reazionari e anticomunisti quelli di Budapest e Varsavia, di sinistra nazionalista quelli di Praga e Bratislava – hanno concordemente respinto il progetto di riallocare proporzionalmente in tutte le nazioni Ue i richiedenti asilo. Nell’estate 2015, a pochi mesi dalle elezioni, il governo liberale polacco (poi sconfitto) accettò 2000 migranti sui 60mila da riallocare (la Ue ne aveva proposti 4mila, comunque inferiori alla quota di popolazione polacca sul totale europeo).
Le nazioni europee che rifiutano le quote dei migranti hanno due tratti in comune: non hanno una rilevante popolazione straniera e sono molto omogenee dal punto di vista etnico; sono beneficiari netti del bilancio europeo, dal quale ottengono più di quanto contribuiscono.
A giudicare dall’atteggiamento della Commissione nei loro confronti pare che essa non abbia colto tutti gli insegnamenti della Brexit: in particolare, di porre pubblicamente la questione se ha più bisogno la Ue dell’Ungheria (o Polonia, o Slovacchia…) oppure l’Ungheria della Ue. La risposta a queste domande sarebbe da applicare con spietate conseguenza e immediatezza, anche forzando le norme previste dai Trattati. La vittoria di Trump segnala non solo che il mondo brucia, ma che la Ue deve uscire dalla sua culla e iniziare almeno a gattonare: con la prima potenza nucleare in mano a una coalizione che comprende il Ku-Klux-Klan, il primo produttore di Pil non può paralizzarsi per i capricci della Slovacchia.
Le migrazioni hanno accompagnato la modernità e lo sviluppo capitalistico fin dai suoi albori. L’accumulazione di capitale crea ovunque un forte disordine sociale che si traduce nella produzione di “scarti” e “rifiuti” sociali. Si tratta di un numero crescente di persone in esubero, cioè inutili per il mercato del lavoro, a seguito di processi di riorganizzazione del sistema produttivo, che migrano alla ricerca disperata di un posto dove poter essere riciclati, riassorbiti nel processo capitalistico.
Quando queste distruttive modalità di gestione economica sono trasposte su scala globale, anche le migrazioni diventano fenomeni globali. Non è mai esistita nella storia umana una società che abbia prodotto un tale ammontare di “spazzatura” a una tale velocità. L’epoca attuale si differenzia però dalla prima modernità per il fatto che ormai non esistono più “wastelands”, luoghi dove abbandonare, sbarazzarsi dei rifiuti, in una parola: discariche (ghetti, favelas, periferie, sobborghi). Ci siamo resi conto che il mondo è ormai pieno e non c’è più possibilità di rigenerare, smaltire i rifiuti della modernità semplicemente abbandonandoli in qualche angolo del globo.
La xenofobia che sembra sempre più farsi largo fra l’opinione pubblica mondiale è alimentata dalla sensazione che si stia soffocando sotto una valanga di rifiuti che non sono più riciclabili quanto piuttosto facciano ormai parte della nostra quotidianità. È in questo contesto di prossimità che la scintilla di odio, paura ed esasperazione esplode, finendo però per incolpare il rifiut(at)o piuttosto che il sistema organizzativo che lo ha prodotto e messo là. È sufficiente ribadire l’ovvietà che il migrante è un rifiuto solo per il sistema che lo produce e non per noi che continuiamo a vederlo nella sua vivida umanità? No, per combattere razzismo e xenofobia occorre mettere in discussione l’intera macchina di costruzione sociale della spazzatura. Il motto dell’accoglienza indiscriminata si scontra con la consapevolezza che questi reietti dell’accumulazione capitalistica sono quasi sempre costretti a vivere una vita miserabile anche nel paese d’accoglienza, fra sfruttamento selvaggio , caporalato, precarietà totale. Il bene degli ultimi lo possiamo fare solo sovvertendo le logiche sistemiche e mettendo fine alla produzione sociale dello scarto.
L’amarezza sta nel constatare, nell’immobilismo politico che caratterizza la fase attuale, quanto appaia del tutto utopico anche solo pensare a un sistema che non produca una tale massa di rifiuti, di disordine sociale. Quel che è certo è che non si può parlare di migrazioni senza parlare di capitalismo. (Si consiglia vivamente la lettura di “Never was trash so beautiful” di J.L. Pario, qui).
Immagine liberamente ripresa da www.coe.int