Stati Uniti: catastrofe post Obama? (a dieci mani)
Il 10 gennaio, a quasi dieci anni dall’annuncio della candidatura alle primarie (10 febbraio 2007), Obama ha tenuto a Chicago il discorso di commiato alla nazione. Alla porta della Casa Bianca lo accompagnano 75 mesi di espansione occupazionale, un tasso di approvazione che sfiora il 60% e lo colloca al medesimo gradimento di fine mandato di altri popolari Presidenti (Eisenhower, Reagan e Clinton) e la convinzione – espressa poche settimane fa – che se la Costituzione gli avesse consentito un terzo mandato avrebbe potuto ottenerlo battendo Trump.
Questa convinzione è riecheggiata nel grido «Four more years» scandito a Chicago una folla ben più vasta di quella radunata in campagna elettorale da Hillary Clinton.
Ancora una volta il Presidente uscente ha tentato di salvaguardare il rispetto istituzionale ed evitato qualsiasi polemica verso il suo successore, cui ha assicurato «una transizione il più agevole possibile, proprio come il Presidente Bush fece per me», nonostante decine di parlamentari democratici stiano contestando la legittimità di Trump come Presidente.
Ma in effetti, oltre a difendere la propria eredità, Obama ha messo in guardia contro i quattro pericoli che a suo avviso minacciano la democrazia: l’iniquità sociale, il razzismo, il fanatismo politico e, soprattutto, la separazione tra cittadini e partecipazione politica.
Il quadro mediorientale ha preso da qualche settimana a cambiare tutta la sUa parametratura; al tempo stesso le sue prospettive continuano ad apparire indeterminate. L'evoluzione di tale quadro ha il suo evento decisivo nella vittoria di Aleppo da parte del regime siriano, della Russia, dell’Iran e dei loro alleati minori.
A essa ha corrisposto una serie di fatti politici di grande portata, su iniziativa della Russia. la capacità di iniziativa degli stati Uniti, di converso, dato anche il risultato delle lezioni presidenziali, che già era debolissima e incoerente è precipitata a zero, essi sono stati addirittura esclusi da parte russa, finché sarà presidente Obama, dalla discussione in avvio sulle sorti politiche e istituzionali della Siria.
“(…) riafferma che la costituzione da parte di Israele di colonie nel territorio palestinese occupato dal 1967, compresa Gerusalemme est, non ha validità legale e costituisce una flagrante violazione del diritto internazionale e un gravissimo ostacolo per il raggiungimento di una soluzione dei due Stati e di una pace, definitiva e complessiva”
Questo è il primo punto della risoluzione numero 2334 (leggi qui) con la quale il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha condannato in modo ferreo l’atteggiamento colonialista di Israele nei confronti della Palestina, vietando ogni ulteriore sviluppo di insediamenti nei territori occupati. La risoluzione è stata approvata con 14 voti favorevoli e, dato che ha “fatto scandalo”, un’astensione, quella degli Stati Uniti.
Viviamo all’interno di un gigantesco vuoto di potere in Occidente ed è sempre più difficile girarci attorno, anzi direi che è divenuto ormai impossibile. In Europa si è passati per il declino del socialismo reale e delle socialdemocrazie, mentre negli Stati Uniti si assiste chiaramente all’estremizzazione dello spettro politico.
Trump: il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera
Nel 1928 il Partito democratico statunitense candidò alla Casa Bianca Al Smith, governatore del New York. Smith era il primo cattolico a correre per la Presidenza e la sua nomination fu accolta con profondo sospetto dagli elettori rurali, che lo consideravano un pericoloso papista. L’animosità fu ancora più forte nel Sud, dominato dai democratici locali che avevano raccolto l’eredità della Confederazione e dal Ku-Klux-Klan, che oltre ai neri perseguitava anche cattolici, comunisti ed ebrei. Per evitare una fuga di voti, il governatore democratico del Mississippi, membro del Klan, mise allora in giro la voce che il candidato repubblicano, Herbert Hoover, aveva ballato con una donna nera. Smith, rispetto ai precedenti candidati del suo partito, perse gli stati dell’Alto Sud, con minore popolazione nera (che comunque non poteva votare); mantenne invece quelli del Profondo Sud, in cui i bianchi erano spaventati dall’integrazione razziale ancor più che dal cattolicesimo.
Il grande dilemma a stelle e strisce: la paura di uno stato federale forte e ricerca del welfare
La vittoria di Donald Trump alle ultime presidenziali ha scatenato il panico. Si sono spese in questi ultimi giorni analisi dense di emozioni, enfatizzando una situazione che a uno storico statunitense può forse apparire meno fosca.
… e se, … e se Trump alla fine mancasse l’obiettivo della presidenza!? Si lo so è fantapolitica, un’ipotesi incredibile, ma non per questo impossibile. Il copione di questa storia è già scritto e porta il titolo di Costituzione degli Stati Uniti d’America. Procediamo con ordine.
Una domanda che per gran parte dell’estate e dell’autunno ha interrogato i commentatori della politica Usa è stata: Trump trascinerà a fondo con sé anche i candidati repubblicani al Congresso? È accaduto, come ora sappiamo, il contrario: Trump ha trainato dietro di sé anche candidati repubblicani dati per spacciati o comunque molto in pericolo (Johnson in Wisconsin, Toomey in Pennsylvania, Young in Indiana, Blunt in Missouri).
Elezioni statunitensi: declino e stallo? (A dieci mani)
Quando ci si riferisce agli Stati Uniti lo si fa spesso in termini altisonanti quali “la più longeva democrazia del mondo”, la quale troverebbe le ragioni della sua sopravvivenza proprio nella sua capacità di autorigenerarsi spontaneamente con la sola forza della dialettica.
Questa narrazione si scontra con tutte le analisi di coloro che hanno intravisto una decadenza dell’Impero americano che, come ogni altro impero del passato, è destinato a fare il proprio tempo, lasciando spazio a nuove potenze. Le ultime elezioni presidenziali del post-Obama sono un esempio della difficoltà di questo impero nell’esercitare le proprie capacità di autorigenerazione. La crisi economica e sociale ininterrotta, riducendo all’osso i margini di scelta elettorale, ha messo in crisi intellettuale anche il fior fiore della cultura antagonista. Gli esempi portati da un Noam Chomsky adeguatosi al voto per Hillary Rodham Clinton come voto antifascista e di Slavoj Žižek che in una delle sue celebri giravolte postmoderniste è riuscito ad appoggiare Trump, potrebbero essere sintomatici di uno stallo nel pensiero occidentale che, anche nei suoi elementi più radicali, fatica a metabolizzare l’idea di un’effettiva lacuna democratica nel paese che continua a costituire il riferimento culturale imprescindibile.
Le elezioni presidenziali 2008-2012-2016 presentavano alcune affinità con quelle 1932-1936-1940. Nella prima consultazione un Presidente democratico veniva eletto per reazione a una grave crisi economica prodotta sotto un’amministrazione repubblicana; il nuovo Presidente nel primo mandato provvedeva a invasive riforme finanziarie e sociali e veniva rieletto contro ogni aspettativa dei repubblicani, che lo consideravano un sovvertitore della libertà individuale. Infine, per il terzo mandato, il Presidente si ricandidava (Obama per interposta persona, non potendo farlo personalmente: ma il legame ereditario era chiaro) mentre il Partito repubblicano, piombato nel caos, nominava un imprenditore invece di un politico. Nel 1940 Roosevelt stravinse ancora; nel 2016, invece, ha vinto il fascismo.
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