Mercoledì, 23 Novembre 2016 00:00

Trump: il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera

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Trump: il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera

Nel 1928 il Partito democratico statunitense candidò alla Casa Bianca Al Smith, governatore del New York. Smith era il primo cattolico a correre per la Presidenza e la sua nomination fu accolta con profondo sospetto dagli elettori rurali, che lo consideravano un pericoloso papista. L’animosità fu ancora più forte nel Sud, dominato dai democratici locali che avevano raccolto l’eredità della Confederazione e dal Ku-Klux-Klan, che oltre ai neri perseguitava anche cattolici, comunisti ed ebrei. Per evitare una fuga di voti, il governatore democratico del Mississippi, membro del Klan, mise allora in giro la voce che il candidato repubblicano, Herbert Hoover, aveva ballato con una donna nera. Smith, rispetto ai precedenti candidati del suo partito, perse gli stati dell’Alto Sud, con minore popolazione nera (che comunque non poteva votare); mantenne invece quelli del Profondo Sud, in cui i bianchi erano spaventati dall’integrazione razziale ancor più che dal cattolicesimo.

Otto anni dopo, alla convention che ne sancì la ricandidatura a un secondo mandato, Franklin D. Roosevelt fece recitare la tradizionale preghiera inaugurale a un pastore afroamericano. Con ciò egli, un illuminato dell’alta borghesia newyorkese, volle segnalare la propria vicinanza a una comunità che però non poteva aiutare sui diritti civili perché bloccato dai parlamentari sudisti del suo partito. (Le ricadute del New Deal in termini occupazionali portarono comunque i neri, per la prima volta in settant’anni, a votare democratico.) Il potente senatore della South Carolina Ellison Smith uscì dalla sala durante la preghiera e disse che «dalla sua grande piantagione in cielo» lo schiavista John C. Calhoun, suo conterraneo e uno dei maggiori politici americani del primo Ottocento, si era complimentato con lui.

Nel 2016 la campagna elettorale di Trump ha ricordato a molti quella di George Wallace nel 1968, anch’essa fondata su antipolitica, estremismo di destra, razzismo, paleoconservatorismo e anticomunismo. (Quest’ultimo può sembrare un anacronismo, ma nel 2012 il deputato Tea Party Allen West sostenne che 78 deputati democratici – di cui ovviamente in pieno stile maccartista non fece i nomi – erano segretamente iscritti al Partito comunista e pochi giorni fa Newt Gingrich, già Speaker della Camera negli anni Novanta e chiacchierato per il Segretariato di Stato, ha chiesto di re-istituire la Commissione d’inchiesta sulle Attività Anti-Americane.) Candidatosi nel 1958 alle primarie per il governatorato dell’Alabama, Wallace le perse perché ostile al KKK e appoggiato invece dalla NAACP (l’Associazione nazionale per l’avanzamento delle persone di colore); quando invece fu eletto governatore, nel 1962, volle giurare nel punto esatto in cui nel 1861 Jefferson Davis aveva giurato come Presidente della Confederazione. L’anno successivo bloccò personalmente la porta d’ingresso all’Università dell’Alabama per impedire l’accesso dei primi studenti di colore e degli agenti dell’FBI schierati a loro protezione. Nei suoi ultimi anni di vita ammise candidamente di non essere mai stato razzista e di aver sostenuto la segregazione perché «era sbagliata, ma la gente nel Sud ci credeva, in Alabama ci credevamo, per cui io la sostenevo».

I contorni sono stati quelli della campagna di Wallace, ma le parole d’ordine di Trump sono state riprese anche da un altro candidato del ’68, Nixon, il quale si basò all’epoca su tre pilastri: law and order, silent majority, Southern strategy. Quest’ultima si riferiva, allora, alla volontà di portare al Partito repubblicano gli elettori bianchi del Sud infuriati con l’integrazionista Johnson; oggi Trump l’ha generalizzata in una più generale “white strategy”, tesa a eccitare il risentimento bianco anche capitalizzando sulle crescenti violenze razziali. In questo campo la sua propaganda ha fatto largo uso del cosiddetto “fischio per cani” (dog-whistle, per analogia con il fischio a ultrasuoni udibile dal cane ma non dall’uomo), ovvero una comunicazione mirata a promuovere, attraverso l’uso di un linguaggio allusivo, eufemistico e indiretto, posizioni politiche estremiste la cui espressione aperta è considerata inaccettabile. Il tono antisemita della sua crociata contro il mondo finanziario è stato ad esempio definito dal senatore ebreo Franken “fischio per pastore tedesco”.

I “richiami per cani” usati da Trump – law and order, inner cities (per indicare i centri cittadini abitati da afroamericani e ispanici, in contrapposizione ai sobborghi bianchi) – fanno riferimento alle campagne di Nixon del ’68 e del ’72, così come ad esse richiama lo slogan Make America Great Again: laddove la grande America che gli elettori di Trump rimpiangono – secondo un sondaggio del Public Religion Research Institute – è quella degli anni Cinquanta, in cui vigeva la segregazione razziale, i diritti delle donne non esistevano e l’omosessualità era un infamante tabù. A condividere questa visione sono, secondo la medesima indagine, soprattutto la classe operaia bianca e gli evangelici: tra questi ultimi il giorno delle elezioni Trump ha superato l’80%, un dato migliore persino di quello di Bush nel 2004. Per questi settori, una donna Presidente pone un rischio culturale molto maggiore di un miliardario sessualmente aggressivo.

The silent majority stands with Trump” recitava un cartello spesso mostrato dai suoi sostenitori ai comizi. La prima volta che quella di Trump si dimostrò una candidatura da prendere sul serio fu nell’agosto 2015, quando trentamila persone accorsero allo stadio di Mobile, in Alabama, per ascoltare un suo delirante intervento contro gli immigrati. Questa sorta di “maggioranza” è silenziosa, ora come ai tempi di Nixon, non tanto soggettivamente poiché estranea ai grandi movimenti sociali, ma soprattutto oggettivamente poiché questi movimenti intende ridurli al silenzio (il silenzio, ad esempio, al quale erano costretti i neri prima del movimento per i diritti civili).

Seguendo questo principio, dopo l’ondata repubblicana alle elezioni di mid-term del 2010, numerosi stati hanno introdotto leggi elettorali che limitano di fatto la capacità di voto degli afroamericani; il Dipartimento di Giustizia, guidato allora da Eric Holder (il primo nero a ricoprire tale carica), pose il veto o citò in giudizio alcune di queste disposizioni negli stati del Sud (come il Texas o la South Carolina). Su questi stati, infatti, il Voting Rights Act del 1965 assegnava al livello federale un potere di controllo. 

Nel giugno 2013, tuttavia, la Corte Suprema federale, pronunciandosi in favore della contea di Shelby in Alabama che aveva citato in causa Holder, pur confermando il potere di vigilanza del Dipartimento di Giustizia ha però abrogato la sezione del VRA che specifica quali stati sono sottoposti a tale potere. La motivazione ufficiale fu che le condizioni storiche da cui tale specificazione aveva originato, negli anni Sessanta, sono da considerarsi non più attuali. In attesa che il Congresso (ora a maggioranza repubblicana!) approvi una nuova formula di copertura legislativa, quindi, il potere del Dipartimento di Giustizia resta tale solo sulla carta.

All’epoca questa orrenda mutilazione del Voting Rights Act, che portava la condizione dei neri americani indietro di mezzo secolo, passò sotto uno sconcertante silenzio in Occidente. Teneva banco, semmai, una diversa sentenza con cui nella medesima sessione la Corte Suprema aveva esteso agli omosessuali il diritto al matrimonio federale…

Michael Hill, presidente del gruppo neo-confederato “Lega del Sud”, ha dichiarato che «la Presidenza Trump non mostrerà pietà per gli ebrei e le minoranze» (e anche gli omosessuali, pare). Quanto attendibili possano essere queste parole lo dimostra la scelta del futuro Presidente proprio per il Dipartimento di Giustizia: il senatore per l’Alabama Jeff Sessions, l’unico tra i suoi colleghi ad aver sostenuto Trump già fin dalle primarie.

Con una carriera in magistratura iniziata nel 1975, Sessions ha in passato definito il movimento per i diritti civili anti-americano e ispirato dai comunisti, accusandolo di aver «ficcato i diritti civili giù per la gola alla gente». Definì un avvocato bianco impegnato in cause per i diritti civili e il diritto di voto «una vergogna per la sua razza», mentre del Ku-Klux-Klan disse «pensavo fossero a posto, poi ho scoperto che fumano marijuana». Per queste ragioni quando Reagan lo nominò giudice distrettuale nel 1986 la Commissione Giustizia del Senato – all’epoca presieduta da Joe Biden –  negò il via libera a un esame dell’Aula e costrinse il Presidente a ritirarne la nomina.

Tre giorni prima del grande raduno di Trump in Alabama, Hillary Clinton dopo un incontro con gli elettori in New Hampshire si confrontò con attivisti del movimento Black Lives Matter, nato per denunciare pubblicamente gli omicidi di cittadini neri da parte delle forze di polizia, che contestavano a Bill Clinton l’adozione di dure leggi carcerarie che avevano penalizzato la comunità afroamericana. Durante questo incontro la Clinton, rispondendo all’interlocutore che parlava di «cambiare l’animo dei bianchi», disse: «Io non credo che si cambino gli animi. Io credo che si cambino le leggi, che si cambi l’allocazione delle risorse, che si cambi il modo in cui il sistema funziona». L’ex first lady fu allora molto criticata per questa narrazione fredda e poco entusiasmante.

Una battuta veritiera, per quanto di dubbio gusto, circolata negli Stati Uniti già durante la campagna elettorale recita che Trump sarebbe stato (sarà) il primo miliardario a occupare un alloggio pubblico lasciato da una famiglia nera. E come gli eventi recenti hanno dimostrato, davvero pochissimo è cambiato nell’animo di molti americani negli ultimi decenni in materia di questione razziale. Tutto il progresso acquisito è stato dovuto appunto a interventi legislativi – oltre naturalmente alle massicce mobilitazioni sociali che hanno reso tali interventi inevitabili. Questo progresso viene ora radicalmente minacciato mentre, come alla fine della Germania di Weimar, arriva al potere un’area politica che chiede la schedatura, l’internamento o l’espulsione sulla base della nazionalità o della fede di appartenenza.

Immagine liberamente tratta da i.huffpost.com

Ultima modifica il Mercoledì, 23 Novembre 2016 10:50
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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