Mercoledì, 16 Novembre 2016 00:00

Elezioni statunitensi: declino e stallo? (2)

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Una domanda che per gran parte dell’estate e dell’autunno ha interrogato i commentatori della politica Usa è stata: Trump trascinerà a fondo con sé anche i candidati repubblicani al Congresso? È accaduto, come ora sappiamo, il contrario: Trump ha trainato dietro di sé anche candidati repubblicani dati per spacciati o comunque molto in pericolo (Johnson in Wisconsin, Toomey in Pennsylvania, Young in Indiana, Blunt in Missouri).

Dietro l’ologramma di Trump, in effetti, il Partito repubblicano resta allo sfascio. Dopo il 2008 la dirigenza è rimasta convintamente neoliberista e reaganiana (“conservatrice”, secondo la terminologia locale), mentre la base si è spostata a destra, sostenendo dapprima il connubio del Tea Party tra demagogia e rigido conservatorismo fiscale, e poi il protezionista e ancor più demagogico Trump. Nelle sue vesti neoliberiste, il Partito repubblicano ha perso definitivamente con le presidenziali del 2012.

All’epoca esso riuscì a imporre alla propria base il presentabile Romney, ma un anno fa la rivolta del Freedom Caucus (il gruppo del Tea Party alla Camera) costrinse alle dimissioni lo Speaker John Boehner e impedì la successione al suo vice, Kevin McCarthy. Nel 2014 il capogruppo alla Camera, il potente falco conservatore Eric Canton, perse a sorpresa le primarie nel suo collegio in Virginia. Il nuovo Speaker, Paul Ryan (già in ticket con Romney per la vicepresidenza), ha cercato in ogni modo (e ovviamente invano) di contrastare Trump.

Ma è il neoliberismo a non essere affatto morto. Tra i primi atti della sua presidenza Trump ha promesso l’abrogazione della legge Dodd-Frank, la riforma varata dai democratici nel 2010 che ha istituito una maggiore sorveglianza finanziaria e nuove limitazioni alla commistione tra banche sociali e banche d’investimento.

Confrontando il patrimonio netto dei candidati repubblicani alla Casa Bianca, si nota una tendenza vertiginosa all’aumento: McCain, considerato a suo tempo particolarmente ricco, 21 milioni di dollari, Romney 250 milioni, Trump 3700 milioni. Per un confronto, la ricchezza di Hillary Clinton è stimata in 31 milioni e quella del Presidente più ricco, John Kennedy, in 1000 milioni a prezzi correnti. Bernie Sanders ha scritto che l’elezione di Trump deriva dalla «rabbia di una classe media in declino, stufa di lavorare più ore per salari più bassi, di vedere buoni posti di lavoro andare in Cina e altri Paesi a basso costo, di miliardari che non pagano alcuna tassa federale sul reddito e di non poter sostenere i costi universitari dei figli – tutto mentre i ricchissimi diventano molto più ricchi». Molto strano quindi che questa classe media così interessata a trasparenza e giustizia sociale abbia deciso di votare l’unico candidato a non aver reso pubbliche le proprie dichiarazioni dei redditi (convenzione che fa data al 1976), probabilmente proprio perché per anni ha pagato $ 0 di tassa federale sul reddito, giovandosi delle numerose insolvenze e bancarotte dei suoi rami imprenditoriali. Strano, ancor di più, che non abbiano votato per il programma democratico, il più radicale dal 1972.

Ma, da un certo punto di vista, chi ha votato Trump in quanto “imprenditore di successo” ha le sue ragioni. Beffando e truffando lo Stato – sia pure, per quanto ne sappiamo, all’interno della legalità – arricchendosi, dando mostra di sfarzo e volgarità e conducendo una vita sessuale disinvolta, Trump ha in effetti incarnato il modello di successo di un certo tipo di elettore. Durante la campagna elettorale è stato messo in luce che, sebbene la Clinton fosse la seconda candidata più impopolare della storia contemporanea, il primo era proprio Trump e in ogni occasione il differenziale di popolarità aveva infallibilmente predetto il vincitore.

La Clinton ha vinto il voto popolare, certo, ma questo non esime dall’indagare le scelte di quegli elettori che negli stati chiave hanno fatto pendere la bilancia a favore del miliardario. Negli exit poll realizzati dalla CNN è stato chiesto agli elettori se ritenessero i candidati qualificati per la Presidenza o onesti. Pressoché nessuno li ha ritenuti tali entrambi; chi riteneva qualificato od onesto soltanto uno dei due ha votato per quello; ma chi ha ritenuto che nessuno dei due fosse qualificato (il 14% - nel 2012 erano solo il 4%) od onesto (31%) ha votato per Trump (69% a 15% nel primo caso, 45% a 40% nel secondo). La fetta qualunquista dell’elettorato ha mandato alla Casa Bianca il suo campione.

Un’altra questione che gli analisti si erano posti durante la campagna era che finalmente avrebbero potuto avere risposta a un quesito scientifico: le campagne e i candidati contano? La prospettiva da cui veniva formulata questa domanda era se un candidato impresentabile, estremista ed eversivo come Trump avesse potuto essere almeno competitivo con la Clinton, grazie a repubblicani che si turavano il naso, oppure sarebbe franato. Anche qui, la risposta può essere data, sebbene specularmente rispetto alle previsioni: le campagne e i candidati contano. Trump è riuscito a far vincere le presidenziali a un partito in crisi proprio stravolgendone il programma (quali saranno poi i rapporti fra Trump e il partito resta da vedere).

Nell’agosto 2015, parlando al Comitato nazionale democratico, Sanders dichiarò: «A mio avviso, i democratici non manterranno la Casa Bianca, non riprenderanno il Senato e la Camera, non avranno la meglio in dozzine di elezioni statali, se non impostiamo una campagna che generi emozione e entusiasmo e che produca una forte affluenza alle urne. […] Abbiamo bisogno di un movimento che attacchi l’establishment economico e politico, non uno che ne sia parte». Ma ha dell’assurdo la scelta di molti operai di abbandonare il partito che ha salvato l’industria dell’auto per votare un miliardario bancarottiere; l’odio delle aree rurali verso le istituzione finanziarie è cupo, oscuro, tutt’altro che progressista; ed è ridicolo etichettare sotto la medesima dicitura “establishment” chi ha varato la riforma sanitaria e chi intende abrogarla. Semmai, la vittoria di Trump, favorita dalle crescenti tensioni razziali degli ultimi anni (con violenze perpetrate dagli stessi gruppi razzisti della coalizione Trump) e dalle interferenze golpiste degli apparati federali deviati, mostra che le soluzioni di “neutro-sinistra” o socialdemocratiche non riescono a evitare l’alternativa radicale tra socialismo e fascismo con cui il mondo occidentale oggi si confronta.

Resta da vedere se il regime razzista di Trump sarà rovesciato dalla mobilitazione del “fronte popolare” invocato in questi giorni dal Partito comunista, e con parole diverse da Robert Reich e Michael Moore, oppure se riuscirà a fondare un suo consenso e quindi la lotta per il socialismo dovrà assumere connotati di populismo mimetico.

Immagine liberamente tratta da www.ceid.hu

Ultima modifica il Martedì, 15 Novembre 2016 08:50
Jacopo Vannucchi

Nato a Firenze nel 1989. Ho conseguito la laurea triennale in Storia con una tesi sul thatcherismo e la magistrale in Scienze storiche con una ricerca su Palazzuolo di Romagna in età risorgimentale. Di formazione marxista, mi sono iscritto ai Democratici di Sinistra nel 2006 e al Partito Democratico nel 2007.

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