Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al "tema della settimana". Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).
A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.
Dopo le elezioni siciliane: un commento a caldo
Le elezioni siciliane possono essere commentate a caldo con difficoltà, a causa del lento spoglio con cui arrivano e vengono comunicati i risultati. Nonostante questo, a distanza di almeno 24 ore dalla chiusura dei seggi, appare certa la vittoria del centrodestra e un buon risultato del Movimento 5 Stelle.
Guerra Civile e violenza nella storia contemporanea italiana
Lo scorso 22 Ottobre in Veneto e Lombardia si è tenuto un referendum consultivo sull'autonomia regionale promosso dagli esponenti della Lega Zaia e Maroni. Se il primo ha ottenuto un risultato ragguardevole portando alle urne quasi il 60% degli aventi diritto, il secondo è riuscito a convincere meno del 40% dei lombardi. Il carattere disomogeneo dell' esito referendario si riflette anche sulle rivendicazioni di fondo che sono state sollevate già a poche ore di distanza dalla votazione.
Guerra Civile e violenza nella storia contemporanea italiana
Il dizionario di politica della UTET (Bobbio, Matteucci, Pasquino) dedica sei pagine alla definizione del termine 'guerra', passando poi a definire il significato di 'guerra fredda' e 'guerriglia'. Manca la voce 'guerra civile'. Si può inoltre leggere come manchi "una definizione univoca del concetto di guerra". Ogni periodo storico ha il suo orizzonte di senso nel leggere la violenza organizzata ed è evidente come l'assenza nella sinistra del XXI secolo di una riflessione sul potere determini un'inadeguatezza degli strumenti con cui si legge il passato (esemplare forse è il dibattito sulla non violenza che ha attraversato Rifondazione Comunista, durante il suo V Congresso, nel 2002, attraversato dalle suggestioni del Movimento No Global e poi ridotto a una parodia delle sue argomentazioni nel sentire diffuso).
Italiani e il rapporto con la storia: il caso Battisti
Cesare Battisti fermato al confine con la Bolivia con pochi contanti mentre cerca di fuggire dal Brasile rischia di essere l’epilogo di una lunga storia che attraversa gli anni di piombo della Repubblica italiana. Infatti, lo Stato brasiliano sta compiendo, non casualmente, un’inversione di rotta sulla decisione di dare rifugio a Battisti. Non è difficile pensare che Battisti stesso abbia intuito questo cercando di riparare alla meglio come già aveva fatto nel caso della sua ultima fuga dalla Francia.
Questione catalana e sinistra
Il referendum autoconvocato dalla Catalogna sulla questione dell’indipendenza evoca analogie e differenze con il caso scozzese. Una regione ricca chiede di separarsi per poter avere il controllo completo delle proprie risorse; il governo centrale di Madrid ha risposto però in modo molto diverso rispetto a quello di Londra, negando ogni spazio per un processo legale verso l’indipendenza (e reprimendo ovviamente il processo illegale).
A sinistra si sono avuti giudizi diversi sulla vicenda: per alcuni non vi è differenza tra il governo regionale di Barcellona e l’egoismo fiscale della Lega Nord; per altri la lotta contro Madrid può essere un grimaldello per rompere l’equilibrio costituzionale spagnolo e passare a uno Stato federale e repubblicano.
Logistica e lotta di classe: i pacchi di SDA
SDA (Speditori-Destinatari Autorizzati) è l'azienda di Poste Italiane per la gestione logistica. "Detiene una quota di mercato nella distribuzione dei pacchi intorno al 12% e "nel 2017 l'obiettivo è di raggiungere i 50 milioni di colli" (dati da il Sole 24 Ore del 29/09/2017). Il nome della ditta è noto a chi anche solo occasionalmente ordina qualcosa attraverso internet. Distribuzione e vendita a distanza delle merci sono sempre più al centro del "capitalismo del XXI secolo". Un cambio di appalto è al centro di una mobilitazione con al centro il SI Cobas, tra le realtà più attive in una galassia lavorativa eterogenea, in cui il terziario arretrato su cui poco si concentrano i riflettori del sistema di informazione. Ha fatto eccezione la morte di Abdesselem El Danaf, della ditta GLS, travolto - letteralmente - ed ucciso da un altro pezzo di questo settore economico, quello del trasporto su gomma, in cui si trovano forme di piccola impresa e partite IVA, dove si riscontra con evidenza cosa sia la "guerra tra poveri" (talvolta con sfumature di razzismo, a leggere i resoconti delle organizzazioni sindacali di questi ultimi anni).
Aggressioni, "volontari", impiegati formati velocemente per diverse mansioni rispetto a quelle per le quali sono stati assunti, interventi della questura: i metodi applicati dalle imprese per affrontare la dialettica con i lavoratori sono decisamente poco 2.0...
Al contempo è evidente il problema della frammentazione sindacale, con articolati rapporti tra le realtà "di base" e l'assenza delle sigle confederali in questo tipo di lotte. Si aggiunge un sistema di informazione poco attendo al tema e anzi spesso disponibile a criminalizzare il dissenso, cercando anche di diffamare i protagonisti della conflittualità sociale, come fu nel caso dei titoli eclatanti a gennaio 2017 sulla presunta corruzione di alcuni dirigenti SI Cobas nella logistica.
Nella logistica, ad una indubbia centralità nell'odierno sistema economico fa da contraltare un complesso di relazioni industriali rimasto al capitalismo selvaggio del primo XIX secolo. I loschi figuri inviati a pestare gli scioperanti sono gli ultimi di una serie di fatti simili, tra vigilantismo prezzolato e crumiraggio violento, che hanno lasciato sul terreno anche un morto. La furia senza scrupoli degli strike breakers di ventura e di chi li assolda dimostra abbastanza chiaramente il potere che la pratica dello sciopero continua ad avere. I lavoratori, spesso stranieri in condizioni di ricattabilità, che si ribellano a condizioni inumane rifiutando il lavoro riescono a far paura. L'unità sindacale con i confederali, a cui spetta una buona fetta di responsabilità per il peggioramento devastante di salari e condizioni in tutti i settori, non è granché utile né auspicabile, se vuol dire ridurre le lotte alla palude del compromesso concertativo.
Ciò che sarebbe necessario è semmai un salto di qualità. Le lotte della logistica avrebbero bisogno da un lato di unirsi ad un movimento generalizzato, dall'altro lato di trovare un referente politico classista e credibile (e questo già di per sé esclude i D'Alema e i Pisapia). Merce rara, nell'Italia degli appelli unitari e degli intellettuali di micromega.
È sconcertante assistere a ciò che accade nel settore più avanzato dello sfruttamento di classe. È da un po' che ne seguiamo le vicende, nonostante sia sempre più difficile stupirci per ciò che accade. A un anno dall'assassinio di Abd Elsalam Ahmed Eldanf lo scontro tra il padronato e gli operai che lavorano nella catena di sfruttamento costruita attorno al mercato della logistica non accenna a diminuire.
L’USB di Melfi, in solidarietà ai facchini SDA di Carpiano ha indetto un’ora di sciopero in tutto lo stabilimento FCA. Nel comunicato si capisce da subito la gravità della situazione laddove si avvisa come non vi sia più spazio per chiedere alle "istituzioni di intervenire per fare giustizia", poiché "la realtà è che i veri responsabili di quanto accade oggi in Italia sono da cercare proprio nelle istituzioni”.
A scoprire le carte è il celebre senatore PD Stefano Esposito che nei giorni scorsi ha chiesto nella Commissione Trasporti del Senato un’audizione urgente dei vertici di Poste. Lo sciopero degli unici sindacati di classe sopravvissuti in questo paese, cioè quelli di base, sta portando una forte preoccupazione proprio dentro le stanze del potere. Questo governo aveva infatti notevolmente investito su un esercito industriale di riserva da mobilitare per abbattere i diritti dei lavotatori e ora se lo vede rivoltarsi contro, ponendo a rischio appalti fondamentali come quello con Amazon, facendo fioccare penali di non poco conto. Abbassare il livello conflittuale dei lavoratori diventa un imperativo per il governo stesso che però si è impegnato a livello politico proprio per incrementarla. Il rompicapo per gli azzeccagarbugli piddini è impossibile da sciogliere poiché schiacciati da un meccanismo più grande di loro che gli impone di fare una politica degli appalti al massimo ribasso incrementando le condizioni di difficoltà dei lavoratori. Il cambio d'appalto che ha interessato per ultimi i facchini dell'SDA di Carpiano è semplicemente lo strumento per esercitare tale compressione salariale che consente di incrementare l'estrazione di plusvalore. Queste condizioni inevitabilmente incrementano malcontento che porta ad un facile innesco di rivolte e scioperi. Infatti, la conflittualità nel mondo della logistica è ormai elevata da anni. Il vero rompicapo per chi è ancora interessato alla lotta della classe operaia semmai è come coagulare tali forze per estendere il movimento di protesta, innescando solidarietà verso tale lotta.
Resta un dato di fatto di non poco conto: con le lotte operaie nella logistica la catena del valore viene colpita nel suo punto più fragile, ossia laddove l'esercito industriale di riserva viene reclutato per trascinare nel baratro della precarietà e della miseria la più ampia massa di lavoratori. Insomma è la chiave di volta che consente di portare a compimento pauperizzazione e sfruttamento anche di lavoratori non direttamente interessati dalle vertenze. Per fronteggiare tali movimenti la legalità borghese viene ampiamente aggirata ricorrendo persino alle squadracce e alle aggressioni dirette. L'impunità è la regola. Le trappole all'ordine del giorno.
Il compito storico resta scoperchiare il vaso di Pandora e rivelare al proletariato di questo Paese come dai bassifondi del mercato del lavoro si parta per destrutturarne sempre di più le fondamenta. Sostenere chi non accetta più di ridursi a carne da macello per sopravvivere è l'unica via per un reale avanzamento dei diritti del lavoro e nella logistica abbiamo una rilevante concentrazione di massa in grado di porsi effettivamente come forza d'impatto.
La logistica non è solo un dettaglio organizzativo. Modifica l'organizzazione produttiva e concorre a definire i cambiamenti della geografia del potere (politico, non solo economico). Raramente il sistema di informazione si occupa dei meccanismi alla base della nostra società, confermando l'idea di un'ipocrisia di fondo della nostra società, incapace di interrogarsi sulle implicazioni di uno sconto presentato come "spese di spedizione gratuite". Il fascino della consegna di un prodotto in giornata, l'impulso ad un servizio personalizzato come quello di Amazon, la possibilità di tracciare il pacco... Lo sfruttamento è alla base della nuova società globalizzata e molti sono i settori in cui le condizioni delle lavoratrici e dei lavoratori si allontanano dalle conquiste del Novecento. Vanno in avanzi i servizi al consumatore, si riducono i diritti del lavoratore.
Nell'ambito della manodopera a bassa specializzazione si paga cara la disattenzione della società. L'organizzazione delle vertenze appare frammentata tra la galassia di sigle extraconfederali e spesso si fatica a comprendere quali equilibri separano un'organizzazione da un'altra (anche se sbaglia chi riduce tutto a banali vicende personali). Non mancano tratti inquietanti rispetto ai "piccoli padroni" (come vengono chiamati i proprietari di furgoni o camion impegnati nel settore del trasporto) o a veri e propri scontri interni alla classe lavoratrice.
Verso la logistica l'atteggiamento diffuso è analogo a quello dei settori progressisti rispetto all'emisfero sud del mondo: qualcuno lo studia con grande attenzione, qualcuno si commuove intorno ad un caso di cronaca, altri preferiscono non guardare. La politica dovrebbe occuparsi in primo luogo dell'economia, essendo oggi il rapporto economico tra i determinanti dell'organizzazione sociale. La logistica è l'ambito prioritario. Però anche in questo ambito la sinistra europea appare drammaticamente assente.
Almeno un paio di titoli consigliati per approfondire: Logistica (Giorgio Grappi, Ediesse, 2016) e Il capitalismo delle piattaforme (Benedetto Vecchi, il manifesto, 2017).
Lo sciopero dei facchini SDA pone in luce tre problemi: l’assenza dei sindacati confederali, i contrasti tra i vari sindacati di base, l’organizzazione produttiva basata sull’esternalizzazione. Quest’ultima è stata introdotta nell’ordinamento italiano come lavoro interinale nel 1997, con il voto favorevole anche di Rifondazione, dal Governo Prodi del rimpiantissimo (dall’allora ministro Bersani, quello che ora chiede l’articolo 17 e ½) Ulivo. Tale tipologia di lavoro in primo luogo applica ai lavoratori un CCNL specifico e distinto quindi dal settore produttivo al quale gli stessi vengono somministrati; in secondo luogo i lavoratori somministrati entrano in concorrenza salariale con i lavoratori del settore; in terzo luogo esiste la concorrenza tra le singole agenzie di somministrazione. Si aggiunga la sostanziale impossibilità di programmazione economico-familiare.
Nel regime lavorativo c.d. post-fordista i sindacati di massa hanno avuto e hanno enormi difficoltà a trovare un proprio insediamento. Ne risulta uno scollamento che manda alla deriva entrambi i soggetti del lavoro: da un lato, tra i sindacati cresce in modo abnorme il peso (numerico, quindi politico!) dei pensionati; dall’altro, i lavoratori (sempre meno qualificati) restano privi di tutela da parte di soggetti con struttura e riconoscimento nazionale. I sindacati di base non riescono a coprire questo vuoto e anzi replicano le medesime mancanze del sistema in cui agiscono, massime la concorrenza intestina. Lo si è visto nel caso SDA in cui una delle due sigle di base ha proclamato lo sciopero dopo che l’altra aveva firmato l’accordo che prevedeva la continuità contrattuale per i lavoratori a seguito del cambio di subappalto.
Da un lato, l’eclatante caso di Ryanair (settore del tutto diverso, ma medesimo principio ispiratore: massimizzazione del profitto tramite la compressione del costo del lavoro) mostra che la ricerca del profitto alla giornata, lasciando da parte i nodi dello sviluppo, tira prima o poi la corda. Dall’altro lato, si sconta l’assenza di un soggetto (sindacale, politico, istituzionale) oggettivamente in grado di farsi carico di questo sviluppo mancato e dirigerlo. Una simile direzione richiederebbe del resto un’uniformità internazionale e un uso di risorse pubbliche tale da essere possibile solo a livello Ue.
I ceti dominanti stanno vincendo la lotta di classe a danno dei subalterni. L’aspetto ideologico e di interiorizzazione di certi valori aziendalistici ha un peso enorme nello squilibrare il rapporto di forze. Ma ancora più a monte stanno elementi strutturali che hanno a che fare con la riorganizzazione del processo produttivo e di distribuzione della merce. Lo sciopero dei lavoratori SDA ma anche di quelli degli aeroporti toscani mostrano come le logiche della specializzazione flessibile abbiano frammentato e scomposto ogni processo lavorativo che si basa sempre più su un sistema enorme di esternalizzazioni e subappalti che parcellizzano e flessibilizzano la filiera produttiva e con essa anche la vita di chi lavora nel settore che si trova in balia di una concorrenza spietata che peggiora drasticamente le condizioni contrattuali contraendo i salari, flessibilizzando gli orari e precarizzando il lavoro.
Ovviamente questo tipo di organizzazione non permette solo di abbassare il costo del lavoro o di deresponsabilizzare le grandi imprese, ma favorisce anche una maggiore capacità di penetrazione delle attività criminali e lavoro nero. Per i proprietari il guadagno però è anche politico, dal momento che la scomposizione lavorativa rende molto più difficile innescare quelle dinamiche di solidarietà di classe che erano invece favorite dall’ambiente della fabbrica fordista. Lo scontro violento a Milano fra i facchini picchettatori e i corrieri, i quali non guadagnano nulla se non si muove la merce (la diffusione di contratti a cottimo è ormai la normalità) sequestrata dagli scioperanti, mostra ancora una volta che la guerra fra poveri è il prodotto di un sistema organizzativo specificamente disegnato per accrescere i profitti e diminuire la forze delle rivendicazioni dal basso mettendo gli strati meno abbienti l’uno contro l’altro. Frammentazione lavorativa si accompagna a frammentazione sindacale che non solo, come si è visto, si concretizza in una dialettica fra sindacati di base e di categoria ma che si sviluppa anche all’interno degli stessi sindacati di base, indebolendo ancora di più le risicate forze degli scioperanti.
Eppure, nonostante tutti i limiti strutturali che abbiamo sopra descritto, nonostante le contromosse padronali, lo sciopero continua a fare paura e soprattutto, nonostante la retorica della digitalizzazione e del “fare tutto con un click” ha ancora la capacità di creare scompiglio, di minacciare seriamente i profitti delle imprese e la loro stessa sopravvivenza. Il meccanismo organizzativo capitalista non è del tutto privo di falle e lo sciopero non è quella forma di lotta anacronistica e superata come molti, anche a sinistra, hanno voluto pensare. La grande sfida resta quella di saper reagire alla riorganizzazione logistica del capitale con una riorganizzazione delle lotte su base solidaristica.
Immagine liberamente tratta da http://www.cxlogistics.com.sg/services/logistic-service/
Elezioni in Germania: un commento a caldo
Dopo le elezioni britanniche e francesi, è il turno delle elezioni tedesche. Un appuntamento che sicuramente merita attenzione, tra i timori di uno sfondamento dell'ultradestra, i dubbi sulle possibili alleanze di governo e gli inevitabili riflessi europei. Ne ragioniamo qui sul Becco, con il Dieci Mani di questa settimana.
I dati delle elezioni tedesche, per il loro valore, sono ormai di dominio pubblico, ed è inutile ripeterli. Vale la pena passare direttamente al commento.
C'è l'avanzata della destra radicale, declinata localmente sotto la sigla dell'AfD. Un fenomeno che riporta la Germania, fino ad oggi unico Paese (oltre al pur lodevole Portogallo) ad aver resistito alle sirene della demagogia, al triste comun denominatore della politica europea degli ultimi trent'anni. Come sempre le analisi che ricostruiscono un rapporto di causazione tra i risultati della destra e il disagio economico si sono sprecate, e sicuramente sono riuscite a catturare una parte non irrilevante del problema. La Germania, a livello di diseguaglianze, statisticamente si colloca nella media, con un Gini del 30.7 (contro il 26.3 di uno Stato poco diseguale come il Belgio, il 31.6 del Regno Unito ed il 32.4 dell'Italia), ma profonde fratture a livello socioeconomico esistono, e ci sono state ampiamente raccontate dalla stampa di questi giorni.
Il materialismo ingenuotto che vede un rapporto di causa-effetto tra voto di destra e problemi economici soffre però di gravi limiti, che diventano evidenti quando si va ad ampliare la comparazione a livello europeo. In Svezia la destra dei Democratici svedesi viaggia attorno al 20% nei sondaggi, la Danimarca è la patria di uno dei partiti della nuova destra storicamente di maggior successo, il Partito del Popolo Danese, mentre in Norvegia il Partito del Progresso – partito sui generis, più vicino alla destra repubblicana libertarian statunitense che al nazifascismo – è stato confermato dalle recenti elezioni nel suo ruolo di partner junior del governo conservatore. Per non parlare dell'Austria o della Svizzera. Tutti Paesi poco diseguali, in gran parte risparmiati dal peggio della crisi economica e dall'auserity “neoliberista” a cui si vorrebbero addebitare tutti i mali dal diluvio universale in poi. Allo stesso modo risulta difficile ricollegare onestamente le fortune delle forze neofasciste nei Paesi dell'ex patto di Varsavia – Germania Est inclusa – alle (reali) sofferenze economiche patite dai popoli esteuropei all'indomani della crisi definitiva del sedicente socialismo reale o nel contesto della recente crisi. Non si capisce, tra l'altro, perché le masse impoverite si dovrebbero affidare a forze che in molti casi (ed è il caso dell'AfD) portano avanti programmi liberisti da lacrime e sangue. Sarebbe forse il caso di indagare meglio, senza sottovalutare il fattore economico ma anche senza che questo diventi il paraocchi incontestabile, gli scontri culturali che hanno fatto a pezzi il tessuto sociale europeo negli ultimi trent'anni. Immigrazione, Stato-nazione, temi “etici” come l'aborto, diritti civili. Dovunque la destra lavora per rompere schieramenti e costruirne di nuovi, all'insegna della reazione sociale. La discriminate di classe si perde o è travisata dagli intruppamenti delle guerre culturali del tardo capitalismo.
Ma l'ascesa di partiti come l'AfD segna davvero il trionfo dell'estrema destra? Oppure è al contrario il segno della sua definitiva, storica, crisi? In Germania esiste già un partito neonazista, l'NPD, sostanzialmente cancellato dall'avanzata dei cugini “sovranisti” dell'AfD relativamente più presentabili negli ultimi due anni. In Francia il Front National di Marie Le Pen prosegue in una operazione di ripulitura di una facciata politica che già era nata, sotto l'egida di Jean-Marie, col preciso scopo di ripulire rifiuti tossici politici come i reduci dell'Action française e del terrorismo di destra degli anni '60-'70. I Democratici svedesi, per arrivare ai risultati odierni, hanno dovuto espellere un gran numero di vecchi iscritti, giudicati “troppo estremisti” per uno sdoganamento come partito mainstream che ormai sembra a portata di mano.
Il fenomeno resta assolutamente preoccupante, ma la realtà, come sempre, è più complessa dei titoli di giornale. Noi antifascisti dovremmo saperlo.
Le elezioni in Germania hanno rivelato un esito più scontato di quanto ci si aspettasse. La Cdu di Frau Merkel viene confermata, anche se in forte arretramento, e al secondo posto resta il partito socialista Spd che garantisce il bilanciamento di un sistema sostanzialmente bipolare vocato ai governi di coalizione e quindi ancor più difficilmente scardinabile da qualsivoglia populismo. Certo, il babau del populismo è il preferito per la retorica europeista che si bea di un sostegno praticamente unificato delle varie forze politiche alla ricerca di facili scranni parlamentari. In realtà in Germania il voto del popolo in sofferenza è relativamente ridotto viste le capacità economiche di un paese che ha fatto dell'unione economica il suo punto di forza e oggi vive di rendita.
Insomma, il populismo che sembra comunque in arretramento su tutto il continente, in Germania pare non aver mai sfondato per semplici ragioni economiche. È vero che esiste un ampio settore di mercato del lavoro destabilizzato dai minijobs, ma parliamo del paese che ha risentito meno di tutti nell'area euro delle ricadute economiche della crisi. Afd entra in parlamento, ma se analizziamo con realismo il fenomeno ci accorgiamo di una forza politica che stenta a decollare e che vede restringersi la sua base di consenso potenziale, poiché i flussi in uscita dal partito socialista si dirigono verso forze politiche di sistema e il mondo dei disoccupati e sotto-occupati da cui un partito populista dovrebbe raccogliere i consensi a piene mani sembra più sfiduciato e impegnato in un voto di protesta e nelle classiche forme di militanza leggera che nella costruzione di una reale alternativa all'Unione Europea. Insomma, si tratta della solita raccolta voti dei delusi dalla politica in nome dell'euroscetticismo (di destra in questo caso, viste le praterie lasciate dalla Linke sul tema).
In definitiva si può comunque prendere atto dell'esistenza anche in Germania di un processo di destrutturazione delle vecchie forze politiche, detto questo però non si può andare molto oltre. Infatti questo processo sembra avanzare meno che altrove nel paese egemonico dell'Unione Europea che viaggia verso il quarto mandato consecutivo di colei che rappresenta la vera lady di ferro dell'Unione Europea. Angela Merkel dai primi anni duemila si è dimostrata una guida sicura per una Germania che dal processo di unificazione monetaria ha saputo trarne solo vantaggi, scaricando sugli altri partecipanti all'Unione tutti gli oneri.
Nell'analizzare i risultati elettorali bisogna sempre stare attenti a non guardare strumentalmente ai dati, per trovare conferme impossibili da riscontrare, specialmente all'estero. Il fenomeno AFD spaventa in maniera tragicomica la stampa liberale e progressista europea. Nonostante la Germania possa vantare una classe dirigente caparbiamente cinica, capace di piegare l'europeismo agli interessi nazionali, a danno di altre nazioni del vecchio continente, l'elettorato tedesco non si allinea alla narrazione di un'UE in ripresa, dopo la vittoria di Macron.
Gerhard Schröder è ancora oggi intervistato come il coraggioso riformista, sfortunato nel pagare in termini di consenso scelte unanimamente riconosciute come epocali e giuste, da parte dello stesso sistema di informazione disorientato nel vedere la barbarie culturale affermarsi in sempre maggiori paesi.
L'SPD ci dice molto dei nostri "socialisti" (categoria tornata ad essere utilizzata in Movimento Democratici e Progressisti, in particolare da Enrico Rossi). Così come era stato per Zapatero, Hollande ed Obama, anche Schulz è apparso un novello rivoluzionario, al pari di Sanders e Corbyn. Non importano i contenuti, l'importante è una narrazione in cui il rosso "torna di moda", con qualche accento di giustizia sociale e sfumature di redistribuzione delle ricchezze. Al centro del dibattito deve essere posto il lavoro, ma non il modello di produzione ed il tipo di economia.
Anche la Linke parla della sinistra italiana, suo malgrado e indipendentemente dalla sua volontà. La formazione tedesca esprime oggi la presidenza della Sinistra Europea e ricerca in modo significativo (con un forte interesse da parte di Tsipras) accordi con il PSE. L'accusa "da sinistra" mossa all'SPD è di non accettare un'alleanza rossa. Nel frattempo in Spagna qualcosa si muove, mentre in Portogallo prosegue un esperimento ignorato da troppi e per questo sorprendentemente privo di critiche da parte di una sinistra italiana sempre pronta a regalare patenti di tradimento, o assegnare fiaccole della salvezza.
Dalle elezioni tedesche può essere tratta una conferma anche per chi ritiene che oggi balbetti un progetto europeista, interrogandosi su come sopravvivere a contraddizioni che non riesce a sanare (lo scontro tra Draghi e alcuni ministeri di Berlino meriterebbe di essere approfondito), mentre le alternative suono vuote di progettualità, sia a sinistra (in fondo interessata a ricucire con la socialdemocrazia dove si pone il problema del governo) che a destra (i sovranisti sono certi di non avere speranze e in fondo va bene così, fino a un decennio fa non avevano praticamente nemmeno diritto di parola).
Sgombriamo anzitutto il campo da una leggenda metropolitana, ovvero il presunto ingresso della destra radicale nel Parlamento tedesco per la prima volta dopo il 1945. Formazioni di estrema destra e apertamente composte da “post”-nazisti ottennero seggi nel 1949, 1953, 1957. Cosa ancor più importante, laddove si guardi alle politiche e non alle sigle, il democristiano Adenauer condusse una politica revanscista denunziando gli accordi di Potsdam, mentre reduci del Terzo Reich, civili e militari, sedevano nelle istituzioni di Bonn.
Detto questo, il voto pare disegnare ancora una volta due Germanie lungo la ex cortina di ferro, ma la differenza è solo nei toni: l’aumento di Linke e AfD all’Est viene recuperato dagli altri partiti ad Ovest: in entrambe le zone destre e sinistre replicano il loro aggregato nazionale di 56% e 39%. Lo stesso risultato di AfD pare dovuto assai poco a motivi economici – gli elettori avrebbero altrimenti premiato la Linke o lo stesso Schulz che ha impostato la campagna sulla giustizia sociale – e molto al razzismo. I soli collegi in cui AfD è la prima lista sono nell’estremo sud-est della Sassonia, incuneati tra Polonia e Cechia del cui clima xenofobo paiono risentire.
Di certo l’asse politico tedesco si è spostato a destra: a destra hanno perduto consensi la CDU (verso FDP e AfD) e la Linke (verso AfD), mentre i socialdemocratici hanno sofferto verso entrambi i lidi (Linke, Grünen, FDP e AfD in misure simili). A mobilitarsi chiaramente sono stati anche gli ex astenuti: si stima che 1,2 milioni di essi abbiano votato per l’estrema destra, un flusso secondo solo a quello CDU-FDP (1,36 milioni).
La SPD, in coerenza con dieci anni di sbandamento, ha reagito d’impulso dichiarando la morte della Grosse Koalition per “non lasciare l’opposizione alla AfD” (la tesi che fu ed è di Bersani, con più successo per Grillo e Salvini che per lui). E tuttavia l’87,4% dei votanti – sette su otto – ha rifiutato l’estrema destra. Chiamandosi fuori dalla maggioranza i socialdemocratici lasciano la cancelliera sotto il ricatto dei falchi liberali e bavaresi, con ricadute sulla politica monetaria europea non troppo difficili da immaginare. Accettando di sedere al tavolo, invece, potrebbero reclamare un governo di unità nazionale che isoli la AfD e ponga le basi per l’unione della sinistra, magari rilanciando tramite la richiesta di una Assemblea Costituente, attesa dal 1990.
Le larghe intese, lungi dall’essere demonizzate, devono dunque essere estese, perché solo un blocco popolare unitario è in grado di contendere i ceti medi e popolari all’integrazione nell’unica alternativa: il blocco reazionario.
Alla fine lo stallo che si paventava si è effettivamente prodotto. In una tornata elettorale che ha visto i pronostici della vigilia sostanzialmente rispettati, Angela Merkel rimarrà con ogni probabilità cancelliera ma avrà grosse difficoltà a formare una coalizione di governo. La soluzione più logica sarebbe stata quella di riproporre la grande coalizione con l’SPD di Schulz che però, dopo aver rimediato una batosta terrificante, non è disposto a perdere ulteriori consensi e legittimità per qualche poltrona. L’ipotesi “Giamaica” (CDU+FDP+Verdi) è l’alternativa più tangibile anche se pare già molto forzata. Il problema non è tanto la lontananza che separa i liberali o i verdi dalla Merkel, distanza che non pare incolmabile, ma proprio fra i due possibili alleati minori della Merkel: da una parte l’FDP di Lindner ha un profilo nettamente anti-immigrazione e professa un'Europa dell’austerity e a due velocità, dall’altra i verdi che su questi aspetti hanno posizioni decisamente diverse e quasi opposte. Con Merkel che ha promesso una stretta sull’immigrazione da una parte e una apertura sul versante della fine del regime di austerità in Europa, i margini per un accordo a tre sono veramente risicati.
Sebbene siano state elezioni per certi versi dalla portata storica, quelle tedesche sono l’ennesima dimostrazione della presenza di alcune dinamiche politiche in atto in Europa già da diversi anni. Da una parte la crisi della socialdemocrazia tedesca sembra ormai cronico-degenerativa e segue quella di Grecia, Spagna, Francia. Proprio come in questi paesi, l’SPD non ha saputo presentarsi come credibile proposta politica per risolvere i problemi concreti dei meno abbienti e ha finito per diventare la brutta copia della CDU di Merkel. Dall’altra si assiste alla crescita di forze politiche di estrema destra dal carattere spiccatamente xenofobo. L’AFD ha un carattere peculiare (un confuso programma che unisce il peggio del neoliberismo col peggio del nazionalismo) ma è chiaramente in sintonia con il FN francese e la Lega italiana (per non parlare degli omologhi in Austria, Polonia, ecc…).
La sinistra arranca e non può far altro che rimanere marginale e settaria. Gli appelli all’unità dei “democratici” contro il pericolo dei nuovi fascismi non può essere colta da forze politiche come la Linke: sono le politiche neoliberiste ad aver generato le condizioni per il malcontento che nutre la destra xenofoba, cooperare per attuarle non farebbe altro che alimentare ancora di più i sentimenti fascistoidi che pervadono le nostre società. Per questo fa bene la Linke a tenersi fuori da qualsiasi coalizione di governo che con la scusa di ergersi come baluardo contro il fascismo, lavora ogni giorno per produrre quelle politiche che lo alimentano.
Immagine liberamente tratta www.lettera43.it
Magistratura e politica: un rapporto complicato
In Italia lo scontro fra potere politico e giudiziario ha una lunga storia. Da Craxi a Berlusconi, passando per Tangentopoli, il problema dei confini dell’esercizio del potere fra i vari organi statali ha caratterizzato profondamente la storia politica del nostro paese. Se da una parte molti partiti ed esponenti politici hanno denunciato il tentativo dei magistrati di voler assumere un ruolo politico ipotizzando, in taluni casi, persino la presenza di un vero e proprio disegno eversivo, dall’altra parte molti magistrati lamentano il rischio di violazione dell’indipendenza della magistratura da parte dei governi interessati ad accrescere il loro controllo sulle toghe. L’alto tasso di inchieste giudiziarie legate alla corruzione e al malaffare nel mondo della politica hanno a più riprese esacerbato lo scontro e avuto una grandissima risonanza mediatica.
Nonostante il declino del berlusconismo, continuano a registrarsi notevoli frizioni fra la politica e la magistratura. Solo recentemente la polemica fra l’ex presidente dell’ANM Davigo e il Ministro Olando sembra aver riaperto vecchie ferite mentre è di pochi giorni fa il duro attacco di Salvini nei confronti dei magistrati del Tribunale di Genova che hanno disposto il sequestro cautelativo dei fondi della Lega, misura che il leader leghista interpreta come un tentativo di ostacolare politicamente il Carroccio. Il tutto mentre il caso CONSIP rischia di sollevare l’ennesimo polverone.
C'è un fatto basilare, che dall'abolizione dei Parlamenti francesi (sorta di corti supreme il cui assenso era necessario per rendere esecutivi gli atti della Corona) dovrebbe essere condiviso: la politica dovrebbe prescindere dalle aule dei tribunali. Ciò significa prima di tutto che la politica, il processo legislativo in primis ma anche le vicende dell'esecutivo, dovrebbe prescindere dalle persone dei politici, dalle loro eventuali vicende giudiziarie e dalle loro eventuali personali responsabilità penali. Che significa a sua volta che i partiti dovrebbero esistere come contenitori di ideali ontologicamente più grandi delle persone, non come comitati d'affari di singoli capibastone e conventicole di potere.
Purtroppo, in Italia, un sistema di partiti sano non esisteva più nel periodo in cui Tangentopoli ha travolto la Prima Repubblica né tantomeno esiste oggi. All'imbarbarimento della politica corrisponde un imbarbarimento della società. La retorica della "casta" e delle manette, tra le altre, è stata assorbita da una massa disillusa e a corto di ideali significativi. Il canone della reazione populista è stato popolarizzato e sdoganato da quasi tutti i media, mainstream e di nicchia, come sostanzialmente tutti i partiti - dall'IdV alla Lega all'M5S, dal centrosinistra dei girotondi e dell'antiberlusconismo al PD di Renzi, fino all'estrema sinistra - dell'intero arco parlamentare. Marketing del consenso a basso costo, nel breve periodo. Pronto a trasformarsi in pericolosa involuzione, voltato l'angolo.
Siamo in pre-campagna elettorale e sembra che tutto si muova nella direzione della preparazione del terreno a ciò che avverrà tra pochi mesi. Siamo evidentemente ai colpi bassi giocati nelle segrete stanze del potere.
Che il CONSIP fosse luogo di corruzione penso sia un segreto di pulcinella. I magistrati però svelano il contenuto di intercettazioni e interrogatori, da cui emerge come un certo imprenditore Romeo avrebbe provato a ottenere una serie di appalti da CONSIP corrompendo nientemeno che il padre di Matteo Renzi. Insomma, il PD verrebbe travolto da un nuovo scandalo giudiziario di dimensioni tali da inficiare il progetto politico del PD renziano.
Parallelamente, anche l'altro polo politico non passa indenne questo periodo, anzi. Infatti, uno scandalo nato nei primi mesi del 2012 è giunto ai suoi tragici risvolti proprio in questi ultimi giorni. Belsito, il tesoriere della Lega Nord, venne indagato per la sua gestione dei rimborsi elettorali ricevuti dal partito e trasferiti in alcuni casi all’estero dove erano stati investiti in varie attività, tra cui l’acquisto di diamanti. La storia era di una tale gravità da aver portato alle dimissioni di Bossi dalla carica di segretario. Questa storia oggi viene riesumata e dopo che a luglio il tribunale di Genova aveva condannato per truffa ai danni dello Stato il fondatore della Lega Nord, Umberto Bossi, suo figlio e l’ex tesoriere del partito Francesco Belsito si è giunti al sequestro preventivo e provvisorio di diversi conti correnti del partito.
Nulla di nuovo, siamo un paese corrotto, ma l'orologio del conto alla rovescia alle elezioni inizia a ticchettare in modo insistente e le forze politiche si trovano al centro di scandali tutt'altro che sorprendenti. Nessuno mette in dubbio la legittimità di tali procedimenti, ci mancherebbe, è però certo che vi sia in atto uno scontro di potere di non poco conto tra due blocchi pronti ad attivare ogni risorsa pur di risultare vincenti. Il M5S cercherà di trarre giovamento da queste nuove turbolenze giudiziarie e staremo a vedere se riuscirà realmente a raccogliere i voti di un elettorato sempre più apatico e sfiduciato anche nei suoi confronti.
Esistono le categorie ed i processi reali. Le seconde servono a garantire un minimo di oggettività al contesto sociale in cui si è chiamati a muoversi. L'idea di eleggere direttamente i giudici "con il popolo" è devastante, in linea con il delirio pronunciato da Matteo Salvini a Pontida. Anche se tra una cultura politica che promuove di lasciare "mano libera alla Polizia" (eleggiamo anche i vertici delle forze dell'ordine) ed una figlia del "legalitarismo alla Mani Pulite" non c'è grande differenza.
Il migrante tiene ancora larga distanza rispetto al politico corrotto, nella classifica delle figure più invise all'opinione pubblica, ma non è detto che la Lega Nord paghi lo scandalo in cui si ritrova. In secondo piano è passata la marginalizzazione di Umberto Bossi, impensabile fino a qualche anno fa, che invece molto dice di un tentativo identitario da destra lepenista in cerca di spazio in una terra sempre più "riciclata" dal/nel Movimento 5 Stelle.
In fondo della legalità, nella cultura italiana, non frega poi molto a nessuno. Si ammette con tranquillità che i giudici in materia di lavoro si esprimono anche a seconda dei rapporti di forza attorno a loro, così come la Corte Costituzionale tiene conto di elementi concreti rispetto al contesto in cui deve esprimersi. Piace l'idea di poter dare la colpa ad altri. Ma la Lega Nord è in una fase (forse conclusiva) di massima colpevolizzazione di altri, difficile che il suo elettorato ed il suo tessuto militante non viva questa nuova difficoltà come una conferma del complotto ai loro danni.
Anche perchè, contrariamente a quanto pensavano molte e molti, non è con il Movimento 5 Stelle che si è recuperata l'astensione degli ultimi anni. La delusione, la rabbia che gira a vuoto, spesso, finisce per creare delusione e disinteresse. Meglio così, se l'alternativa è andare a destra. Manca, come spesso capita, una sinistra di classe in grado di saper distinguere la giustizia dalla legalità, aprendo un ragionamento sull'interlocuzione tra il sistema di cose presenti e quello da affermare con il suo superamento.
Certamente una tale analisi difficilmente potrà essere letta sul Fatto Quotidiano...
Il sequestro di alcuni conti correnti della Lega a sei mesi dalle elezioni non può non rievocare altre due vicende. Una, per prossimità temporale, è il proscioglimento di Giorgio Orsoni che nel giugno 2014 si dimise da sindaco di Venezia perché arrestato, con altre trentaquattro (!) persone, in una maxi-operazione condotta tra primo e secondo turno delle elezioni amministrative. L’altra, per affinità di vicende, è l’inchiesta sui fondi neri leghisti che a marzo 2012 azzoppò il consenso del partito, l’unico a non aver votato la fiducia iniziale al Governo Monti (l’Italia dei Valori, che pure avrebbe ceduto sotto simili colpi di “Report”, passò all’opposizione dopo la fiducia iniziale). Il Movimento 5 Stelle fu proiettato da questo colpo oltre la soglia del 3%, dando inizio all’ascesa che lo avrebbe portato in primavera ad affermarsi come rilevante forza politica.
La neutralità politica degli organi di Stato è apparsa messa in discussione anche dalle rivelazioni riguardanti le finalità antidemocratiche che avrebbero ispirato alcuni piloti dell’inchiesta Consip. Del resto proprio la Lega ha beneficiato, nell’autunno 2014, di un’intensa grancassa di propaganda gentilmente concessa dalle reti televisive (Rai, perché Mediaset sosteneva la concorrenza berlusconiana!) basata sull’istigazione dell’odio razziale contro i rom. Il M5s era ammaccato dopo la batosta delle europee e la Lega, che aveva superato di poco il 6%, fu il nuovo coniglio reazionario dal cilindro.
Non stupisce, ovviamente, la disposizione della Procura di Genova. Né stupiscono le ruberie fameliche di un partito che ha accozzato la melma di una società civile anarcoide e gretta, idiosincratica verso lo Stato e le regole sociali (non per niente Salvini a Pontida ha ancora difeso l’ideologia fascista, incluse le teorie sulla razza).
Desta semmai perplessità la tempistica, utile alle scadenze elettorali del principale beneficiario di un nuovo scandalo-Lega: il M5s. Davigo chiese ironicamente a Renzi un calendario di giorni fasti e nefasti per celebrare i processi, ma gli ultimi anni sono densi di inchieste eccellenti poi finite nel nulla – non prima di aver aizzato la folla che, ovviamente, crede a ciò che conferma l’idea malvagia dei “politici disonesti” (un avviso di garanzia vale per costoro ben più di un’assoluzione). Si ricordi l’inchiesta Tempa Rossa durante la campagna referendaria contro lo “Sblocca Italia”.
La campagna elettorale è ai blocchi di partenza, e non è dato sapere se gli “anticorpi” evocati da Gentiloni basteranno a garantirne uno svolgimento ordinato e democratico.
La magistratura non ha quasi mai svolto in Italia un ruolo progressista. Essa si configura piuttosto, dal punto di vista sistemico e al di là delle concezioni del singolo giudice, come strumento nelle mani delle classi dominanti. Come ricorda Livio Pepino, in Italia gli interscambi fra ordine giudiziario, parlamento e governo sono sempre stati frequenti. Almeno fino agli settanta, i confini fra potere politico e giudiziario erano molto più sfumati di oggi. La forte politicizzazione dei magistrati era considerata normale poiché questi esprimevano una giustizia di classe, a favore cioè della élite borghese. Senza bisogno di scomodare Marx, anche solo la repressione degli ultimi anni da parte della magistratura nei confronti di movimenti della sinistra, a partire dal NO TAV, la dice lunga sulla reale natura del potere giudiziario.
Si dovrebbe interpretare Mani Pulite e tutti i grandi processi per corruzione non come il tentativo da parte della magistratura di scardinare il sistema bensì di estirpare gli elementi nocivi all’interno di quella che si vorrebbe una sana società liberale a economia capitalista. Eppure c’è chi è riuscito a far passare l’idea che questo paese sia in balia del potere delle “toghe rosse”, espressione berlusconiana ripresa anche da Salvini per apostrofare i magistrati rei, a suo dire, di aver preso la sacrosanta e dovuta decisione di bloccare i conti della Lega. Quando si tratta di reprimere il dissenso i magistrati politicizzati non costituiscono mai un problema, quando però non rispecchiano e non si piegano agli interessi egemonici di qualcuno, allora sono “toghe rosse” di una magistratura comunista che vuole sovvertire lo stato di diritto.
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Dopo le violenze sessuali di Rimini
Nell'ultima settimana un grave fatto di cronaca ha particolarmente colpito l'opinione pubblica, tornando a solleticare i più biechi istinti razzisti che nell'epoca postmoderna si moltiplicano con facilità.
Si tratta di una bambina di 4 anni morta per complicanza cerebrale causata dalla malaria a Trento. La Procura che sta ricostruendo la vicenda ha identificato in una famiglia del Burkina Faso, ricoverata presso il medesimo ospedale per malaria, la possibile via di trasmissione del virus. Il problema resta come in un reparto malattie infettive abbia potuto propagarsi la malaria.
L'analisi fredda, lucida e razionale dovrebbe suggerire la fatalità o al massimo la gravità per il mancato rispetto delle basilari procedure di quarantena.
Sembra dunque che nonostante il progresso scientifico non sia sparito del tutto il pericolo di epidemie anche per malattie un tempo debellate, anzi esiste ed è crescente (si veda ad esempio il rifiuto vaccinale). Questo pericolo deriva da pluralità di cause tra le quali i cambiamenti climatici in atto che conducono alla maggior diffusione di specie in grado di trasmettere virus. Inoltre, un mondo sempre più globalizzato vuol dire maggior movimento di beni e persone con nuovi agenti patogeni trasmessi tra uomini e animali in circolazione. Una serie di malattie infettive sembra quindi destinata a formarsi e propagarsi. E se si prova a fare una breve rassegna delle malattie diffuse nel globo negli ultimi anni per numero di morti questo fatto sembra essere confermato.
La crescita della popolazione umana ed il restringersi della maglia della rete logistica mondiale comportano rischi nuovi dal punto di vista della sanità pubblica e per la sopravvivenza stessa della specie umana. Dalle malattie respiratorie covate negli allevamenti intensivi in Asia ai devastanti salti di specie di cui ci narra un ottimo libro come Spillover di David Quammen, dalle specie animali alloctone che devastano gli ecosistemi che hanno la sfortuna di esserne invasi (vedi gambero killer) alle malattie delle piante di cui ci nutriamo, il catalogo delle possibili minacce è tale che anche un assoluto profano, senza alcuna preparazione in epidemiologia, può farsi un'idea e allarmarsi.
Purtroppo quello che succede è che invece che attivarsi per chiedere un maggior investimento in prevenzione e regole più stringenti sulle pratiche pericolose, di gran lunga concentrate nell'industria e nel commercio capitalistici, l'assoluto profano fonde quel poco che riesce a capire di un problema reale con una ributtante narrazione razzista vecchia quanto il razzismo europeo stesso, quella che vede nel diverso l'untore, l'agente esotico pronto a infettare e contaminare la sana comunità patriarcale bianca.
È così che invece di parlare di sanità pubblica diffusa e di qualità, della necessità di finanziamenti massicci alla ricerca di base e applicata, dello scandalo del continuo rinvio del bando di accesso alle scuole di specializzazione medica che sta tenendo migliaia di giovani medici laureati in Italia materialmente fuori dalla professione e dallo stadio più importante della loro formazione, l'elettore medio parte lancia in resta per "dargli all'untore", per cercare il capro espiatorio su cui scaricare le proprie paure malamente indirizzate. Paure che nascono dall'ignoranza, o dalla cattiva informazione. Basta prendere in mano proprio un libro di divulgazione come appunto Spillover, per capire che la prossima epidemia è più probabile che venga diffusa da un maiale o da un pollo. E che, in caso, le frontiere chiuse non servirebbero a nulla.
Dopo la preoccupazione globale per la Sars e Zika sembra che anche l'Italia sia finita nella lista di paesi a rischio diffusione di malattie trasmissibili tramite punture di semplici zanzare. Dopo il caso di malaria a Trento sono sorti tre casi di Chikungunya ad Anzio. Tuttavia è impressionante notare come immediatamente la fobia collettiva diventi una vera e propria caccia all'untore, subito identificato nei migranti. Ammesso e non concesso che la diffusione di tali malattie sia legata all'arrivo dei migranti non è assolutamente un buon motivo per abbassare la guardia dal punto di vista medico, altrimenti anche tubercolosi, scabbia e altre malattie un tempo debellate tornerebbero endemiche. Il vero problema è quindi scientifico e la realtà che sembra emergere è una sempre maggior leggerezza e superficialità di fronte ai pericoli che si moltiplicano. Oltre a ciò si aggiungono le difficoltà economiche e gli scarsi investimenti in basilari e indispensabili attività di prevenzione che innescano casi che poi vanno ad allarmare l'opinione pubblica portandola all'isteria.
Le paranoie collettive si riversano poi in nuove fobie per cui dalla caccia all'untore immigrato si giunge al rifiuto dei vaccini, contribuendo alla difficile prevenzione dei fenomeni.
Indubbiamente la globalizzazione ci ha esposto a maggiori rischi che però andrebbero fronteggiati con maggiori investimenti in attività di prevenzione e non viceversa, purtroppo in un contesto di sistematico taglio alla sanità pubblica questo non avviene e si assiste ad un preoccupante degrado sanitario. I soliti opportunisti poi ovviamente colgono la palla al balzo e soffiano sul fuoco creando l'untore di turno e lucrando politicamente su tali fatti senza affrontare radicalmente problematiche che meriterebbero una serietà ben maggiore.
L'informazione salvi questo Paese. Peggio di così, l'anno prossimo, rischiamo di leggere un dibattito sul caldo portato con i barconi nel periodo estivo... Le conoscenze scientifiche diffuse sono inadeguate alle sfide dei tempi, così tutto appare possibile con l'avvento delle nuove tecnologie e l'avanzamento delle scoperte mediche. Il diverso, lo straniero, è in fondo per molte e molti una forma di virus, in grado di apportare devastanti danni al corpo della società. La fantasia quindi vola sul racconto di un episodio di cronaca adeguato alla peggiore propaganda razzista.
Non riusciamo a gestire la paura della morte, il rischio della malattia e in generale la debolezza (di conseguenza anche la povertà è un'anomalia, se poi associata ad una malattia o ad un paese di provenienza diverso da quello in cui risiede...). Con l'aumento della interconnessione globale muta anche il contesto ambientale e quello sanitario, è evidente e normale.
Ad ogni cambiamento si accompagnano altri cambiamenti. Purtroppo alla barbarie sempre più egemone si accompagna l'assurdità delle affermazioni di Salvini, in un alimentarsi a vicenda. Il problema è che a nessuno interessa niente di salute e benessere, importa solo assecondare i peggiori impulsi, seguendo le cronache delle principali testate del sistema di informazione.
Non c'è nemmeno da discutere con chi pensa ad un legame tra barconi e malaria, si tratta però di capire come destrutturare quell'impianto culturale che porta a concepire certe assurdità.
L’odio istigato contro gli immigrati anche sul decesso per malaria di una bambina di Trento denuncia una grave deficienza di raziocinio: se davvero fossero i migranti da aree malariche a veicolare il morbo in Italia, registreremmo allora ben più dei 3600 casi verificati tra 2011 e 2015, di cui solo 7 (sette) autoctoni. 3600 che comunque non sono affatto pochi per una malattia di fatto debellata sul suolo italiano: parliamo infatti di due contagiati al giorno.
Chi sono questi pazienti malarici? Per l’80% cittadini stranieri. La grande maggioranza di essi importa la malaria al ritorno da un viaggio nel Paese d’origine. Con molta probabilità questa incidenza è dovuta all’assenza di una profilassi antimalarica, alla quale i viaggiatori non ricorrono o per ignoranza o per scarsa dimestichezza con la sanità italiana. In altre parole, perché poco integrati nel tessuto sociale del Paese. È sufficiente un errore umano, quale quello che sembra essersi profilato nel contagio della bimba di Trento, per infettare una vittima del tutto ignara e che, preda di forti febbri, non penserà certo alla malaria.
Favorire una maggiore integrazione dei residenti stranieri aiuterebbe a prevenire casi di contagio e a risparmiare inutili morti. Ma c’è un punto che non va altresì trascurato: il ruolo del cambiamento climatico e l’aumento delle temperature che rende l’Italia un ecosistema più attraente che in passato per insetti vettori di malattie infettive. Cinque giorni dopo il caso mortale di Trento l’Istituto Superiore di Sanità ha reso noto l’accertamento di tre contagi di chikungunya (probabilmente di più) ad Anzio. Presente in Italia dal 2007, è veicolata dalla zanzara tigre che, importata nel 1990, si è diffusa capillarmente nell’estate 2003. Negli ultimi anni gli inverni miti non sono riusciti a decimarne la popolazione, causandone una più estesa presenza nei mesi estivi.
Come sulla violenza di Rimini (ma rigorosamente solo quella ai turisti polacchi, non alla transgender peruviana) anche sulla malaria di Trento i costruttori di odio hanno cercato di aizzare la guerra tra poveri, facendo leva inoltre sull’incultura scientifica delle masse.
Si richiede dunque un ragionamento di carattere generale: per quale motivo hanno diffusione ancora oggi, in una popolazione istruita, le menzogne che esaltavano le plebi sanfediste contro il vaccino antivaiolo (ops!) e contro l’illuminazione a gas? Molto ha a che vedere con il venir meno della sensazione emotiva del pericolo: pochi e molto anziani sono ormai coloro che ricordano i rastrellamenti nazisti, la morte per tubercolosi della propria mamma, le cene a base di erba per via del razionamento annonario…
Il buonismo (questo sì) diffuso dalle destre negli ultimi quindici anni a partire dall’insegnamento elementare sta dando i suoi frutti promessi.
A pochi giorni di distanza dagli stupri di Rimini, anche il caso della bambina morta di malaria a Trento è stata direttamente collegata dalla narrazione di destra al problema dell'immigrazione. Si tratta ovviamente del solito sciacallaggio ignobile di chi non ha alcun interesse ad analizzare le questioni con giudizio ma solo a provare a incrementare il proprio consenso politico a fini elettorali. Stavolta gli sproloqui leghisti (e non solo) oltre ad attuare una semplificazione imbarazzante sono anche delle sciocchezze del punto di vista scientifico dato che gli esperti concordano nel dire che il pericolo nell'importare la malaria non riguarda tanto i barconi dei migranti quanto molto più frequentemente i turisti che tornano da aree a rischio, anche perché le zanzare portatrici della malaria possono infilarsi nelle loro giacche e nelle valigie e sopravvivere a un viaggio in aereo o su dei container.
In Italia ogni anno si registrano diversi casi di malaria, alcuni di essi mortali. Per quanto resti una tragedia, il decesso della bambina non rappresenta nell'immediato un campanello d'allarme di eccessiva gravità ma deve comunque spingere a una riflessione di medio periodo sul sistema-paese. Se è infatti vero che di malaria si può morire anche nei paesi industrializzati, dobbiamo però anche registrare l'intrecciarsi di due processi preoccupanti: da una parte, la tropicalizzazione del clima dovuta ai cambiamenti climatici renderà presto l'Italia un paese più adatto ad ospitare le zanzare Anopheles, vettori del plasmodio della malaria; dall'altra i tagli alla sanità rendono maggiormente difficile attuare le dovute misure di prevenzione e controllo che sarebbero opportune per prevenire eventuali incrementi dei casi. Invece di accusare senza cognizione di causa i migranti, si dovrebbe reclamare una sanità migliore e programmi di salvaguardia ambientale più severi.
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Dopo le violenze sessuali di Rimini
Nella notte tra 25 e 26 agosto un branco di quattro persone ha aggredito una coppia di turisti polacchi appartatasi in una spiaggia di Rimini, violentando ripetutamente la donna. Nella medesima notte i quattro si sono spostati sulla Strada Statale, aggredendo con la stessa ferocia una prostituta transessuale. Dato che sono stati immediatamente descritti come maghrebini, prevedibilmente si è scatenata ancora una volta la caccia alle streghe sul tema immigrazione, quando ancora non si era placato l’eco delle intimidazioni a don Biancalani a Pistoia.
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