Martedì, 24 Ottobre 2017 00:00

Guerra Civile e violenza nella storia contemporanea italiana

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Guerra Civile e violenza nella storia contemporanea italiana

Il dizionario di politica della UTET (Bobbio, Matteucci, Pasquino) dedica sei pagine alla definizione del termine 'guerra', passando poi a definire il significato di 'guerra fredda' e 'guerriglia'. Manca la voce 'guerra civile'. Si può inoltre leggere come manchi "una definizione univoca del concetto di guerra". Ogni periodo storico ha il suo orizzonte di senso nel leggere la violenza organizzata ed è evidente come l'assenza nella sinistra del XXI secolo di una riflessione sul potere determini un'inadeguatezza degli strumenti con cui si legge il passato (esemplare forse è il dibattito sulla non violenza che ha attraversato Rifondazione Comunista, durante il suo V Congresso, nel 2002, attraversato dalle suggestioni del Movimento No Global e poi ridotto a una parodia delle sue argomentazioni nel sentire diffuso).

Nel 1991 Carlo Pavone pubblica "Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza", considerato un importante testo della storiografia italiana ma problematizzata dalla retorica neofascista, che cerca di svilire il sacrificio di chi lottò per la libertà della (futura) Repubblica italiana.
Il nostro ultimo Dieci Mani ha sollevato qualche reazione per aver affrontato il tema di Cesare Battisti e, indirettamente, della lotta armata nella seconda parte del Novecento italiano.

Non pretendiamo qui di esaurire un dibattito articolato e che forse neanche ci appartiene propriamente, in senso generazionale (chi ha vissuto quegli anni spesso sottintende dibattiti di un'altra epoca), però vogliamo tentare di iniziare una riflessione a partire da chi usa la categoria di guerra civile in riferimento alla Resistenza e agli Anni di Piombo.


Niccolò Bassanello

Dai movimenti medievali delle Paci di Dio, ai trattati della prima età moderna in cui si vietava, con successo o meno, la guerra privata, esiste (è banale dirlo) un movimento nella storia europea volto a concentrare quello che si può chiamare monopolio della violenza nelle mani di una singola entità ben definita. È una storia che sanno anche i bambini. Come una sorta di contrappunto a questa tendenza storica abbiamo, saltando liberamente tra i secoli, le rivolte cittadine medievali e le ribellioni contadine, le guerre fomentate dalla pretesa di Roma di soffocare le Riforme protestanti, la guerra civile inglese, la guerra d'indipendenza americana (in buona parte una guerra civile tra lealisti nordamericani e ribelli), la guerra della Francia rivoluzionaria contro i federalisti (i girondini), fino agli esempi contemporanei della resistenza italiana e slava e delle guerre postcoloniali. Riconoscere l'evoluzione del meccanismo del potere violento, e quindi della sovranità statale, uno dei compiti che qualunque corso di Storia si dà, al giorno d'oggi. Ma che spesso, evidentemente, incontra una certa sordità selettiva.

Il concetto di guerra civile soffre delle stesse limitazioni del concetto di terrorismo. È troppo facile, quasi umanamente necessario, appiccicare a questi termini un significato assiologico. Di base conviene assumere una definizione molto ampia, che chiami guerra civile qualunque fenomeno veda un numero considerevole di cittadini prendere le armi contro il proprio Stato, legittimo in punta di diritto o meno, ed i suoi difensori civili o paramilitari. Che riconosca, soprattutto, l'innata dialettica di movimenti e contromovimenti della storia. Il problema di una definizione del genere è che urta contro la narrazione egemonica/vincente, che da sempre tenta di degradare il nemico a criminale comune, a bandito, escluso dai diritti e dalle responsabilità spettanti al combattente. È un gioco pericoloso, a cui la storia, però, ha già dato una risposta netta.


Alex Marsaglia

L'italia è un Paese che ha un grande problema. Infatti è un Paese che non ha mai avuto una rivoluzione, certamente vi sono stati dei grandi moti rivoluzionari e dei tentativi delle classi subalterne di rovesciare l'ordine costituito di tutto rispetto, ma mai andati a buon fine. Gli ideali di fondo del Risorgimento sono stati traditi e come già ricordava Gramsci si è trattato di una "rivoluzione mancata". In seguito troviamo il più grande tentativo rivoluzionario italiano del Novecento che si è sviluppato sulla spinta propulsiva della rivoluzione bolscevica: il Biennio Rosso. L'occupazione delle fabbriche e gli scioperi dimostrarono la capacità organizzativa della classe operaia, in grado di appropriarsi dei mezzi di produzione e di farli funzionare in autonomia. Fu un vero colpo al cuore della classe borghese che infatti si riorganizzò in fretta e furia scatenando il movimento fascista in tutto il Paese.

Con lo sviluppo dei moderni sistemi di organizzazione del lavoro nelle fabbriche abbiamo visto svilupparsi le fortissime contraddizioni che Marx aveva analizzato scientificamente. Nei vari contesti europei le classi operaie si organizzavano e cercando di impadronirsi dei mezzi di produzione si scagliavano contro l'ordine costituito, facendo tremare il potere. La reazione fu tremenda e il fascismo e il nazismo dilagarono, la classe operaia sbaragliata si ridestò solo con la Resistenza che fu sostanzialmente una lotta difensiva in un contesto politico in cui vi erano molte forze politiche a voler impadronirsi del vuoto di potere lasciato dal fascismo. Le lotte sociali furono fortissime sia durante il Biennio Rosso che durante la Resistenza. A modesto parere di chi scrive in entrambi i casi, e non solo durante la Resistenza, si può parlare di guerra civile. Il Biennio Rosso vide una forte agitazione, oltre che nelle città più industrializzate, anche nelle campagne al tempo densamente popolate.

Il dopoguerra fu sostanzialmente una lotta difensiva in un contesto politico in cui gli assetti post-bellici si erano definiti e l'Italia risultava sotto l'influenza statunitense. Il PCI ritrovò la quadra a fatica sotto la linea della "democrazia progressiva" definita da Togliatti. I mal di pancia di quanti ritennero un errore l'aver posato il fucile di fronte all'invasore americano solo perché quello nazista era stato sconfitto non vennero mai riassorbiti del tutto e, nonostante la grande capacità dei partiti di massa di agglomerare il consenso, delle forti crepe iniziarono ad aprirsi in un'epoca post-fascista costruita in maniera alquanto posticcia.

La vera messa in discussione dell'Italia Repubblicana che incarnava tale ordine avvenne con l'incrinarsi della forza dei partiti di massa. Le schegge impazzite della sinistra e della destra extraparlamentare iniziarono ad affrontarsi a viso aperto per le strade in quella che fu la rivolta del movimento studentesco. Le rivendicazioni di una generazione senza rappresentanza politica erano delle più radicali e nessun partito di massa riuscì a sposarle in toto. Quella rivolta che venne solo parzialmente riassorbita dal consumismo, in realtà conteneva profonde crepe che si aprirono nel corpo sociale con il distaccarsi di una larga fetta della società dell'apparato partitico. Queste crepe sono ancora più evidenti oggi e preoccupano i più sinceri democratici. Non è un caso che questo fenomeno sia al centro delle analisi politiche di chi si interroga del problema postdemocratico. L'apatia e la distrazione di massa continuano a farla da padroni e ciò non può che giocare a favore del potere che si alimenta di un'ignoranza politica diffusa; la guerra civile, per il momento congelata, continua carsicamente tra un popolo anestetizzato e un élite al potere che vive grazie a questa anestesia.


Dmitrij Palagi

Alla fine forse è il problema del percorso di studi in filosofia. Se non si condivide l'uso del linguaggio ogni dibattito rischia di essere fuorviante rispetto al contenuto su cui si vorrebbe confrontarsi (sempre che sia sincera la voglia di mettersi in discussione). O forse è un problema di (mia) natalità, essendo cresciuto con l'idea che ogni sistema, anche se dichiaratamente alternativo, non può prescindere dal nodo del potere e quindi della violenza.

Cosa è una guerra civile? Dipende da come viene vissuto dai contemporanei e da come va a finire.

La Resistenza ha riscattato l'Italia dalla vergogna della Ventennio, ma attraverso la Svolta di Salerno e il sempre troppo contestato Togliatti ("bisognava fare come in Grecia"). La narrazione del secondo dopoguerra ha garantito ai fascisti di recuperare piena agibilità solo con l'avvento di Berlusconi e la "svolta di Fiuggi". Siamo finiti a vedere la Polverini governare la Regione Lazio e un nostalgico missino allungare le mani su Roma (senza lo scandalo che ha accompagnato i 5 Stelle, per onestà intellettuale). Mi è quindi difficile capire, probabilmente per un limite personale legato alle mie idee antifasciste, perché dopo qualche decennio non si può mettere sotto discussione lo stratificarsi di categorie storiografiche tranquillamente aggiornabili, laddove si abbia a cuore il mantenimento degli anticorpi repubblicani ed antifascisti (tutto l'opposto della vuota propaganda dai governi sulle foibe...).

Non ho mai trovato nessuno che abbia vissuto il periodo degli Anni di Piombo parlare con tranquillità, tra chi li ha attraversati. Una linea profonda ha attraversato questo paese, messa in ridicolo troppo spesso, ignorando ogni riflessione sulla violenza, creando dei cortocircuiti per i quali gli eredi dell'allora PCI sono talvolta schiacciati sulla repressione istituzionale (Minniti), talvolta convinti che basta andare ad una manifestazione militare con la spilla della pace (Bertinotti, da Presidente della Camera).

Nel parlare del Caso Battisti parte della Redazione ha esplicitamente parlato dell'ipotesi di dedicare un cartaceo a questi temi. In tante settimane di Dieci Mani è tra le poche volte in cui emerge così "naturalmente". Per usare un'espressione di contemporaneo uso complottista: "vorrà dire qualcosa".


Jacopo Vannucchi

Iscritto da anni all’Anpi, confesso che mi ha sempre stupito l’idiosincrasia del mondo partigiano (almeno quello ufficiale) verso la definizione di guerra civile per quanto riguarda la Resistenza: al congresso Anpi 2011 fui testimone delle bordate di fischi indirizzate a un partigiano che disse: “la Resistenza fu una guerra di liberazione nazionale contro i tedeschi e una guerra civile contro i fascisti”. Un dibattito simile era stato aperto e presto chiuso in Germania Est riguardo la guerra di Spagna, il primo teatro in cui tedeschi antifascisti avessero combattuto in armi contro la Wehrmacht nazista: si stabilì che non si poteva parlare di guerra civile in quanto i franchisti, avendo tradito la lealtà alla Repubblica, non rappresentavano il popolo spagnolo. Fu quindi adottata come definizione ufficiale “Guerra nazionale-rivoluzionaria del popolo spagnolo”.

Allo stesso modo i fascisti, avendo tradito le Forze armate italiane ed essendosi posti al servizio dell’occupante tedesco, non erano ritenuti italiani dagli italiani che li combattevano. Una simile lettura ha evaso per anni il tema del consenso al fascismo, affrontato da Togliatti negli anni Trenta ma poi messo in sordina e risollevato, sappiamo con quali polemiche, solo più tardi da De Felice. In realtà riconoscere che una parte dell’Italia abbia combattuto per la libertà nazionale e che un’altra parte abbia combattuto per la servitù non osta affatto ad un giudizio valoriale: i fascisti furono certamente anti-italiani, ma non per questo meno italiani per nazionalità.
Risulta invece improprio parlare di guerra civile riguardo agli anni di piombo, in cui la violenza armata restò confinata a pochi gruppi clandestini: per quanto diffuse potessero essere simpatia o indulgenza verso i terroristi, la partecipazione attiva non assunse dimensioni tali da poter giustificare il ricorso a definizioni belliche.

Si può invece certamente parlare di guerra civile in senso lato riguardo tutta la storia nazionale italiana, se con “guerra” s’intende un conflitto, anche non armato, riguardo la legittimazione delle strutture politiche. Il primo esempio è il conflitto tra patrioti del Risorgimento e reazionari cattolici. In seguito i campi politici che si sono contesi il governo del Paese hanno sempre teso a una delegittimazione totale dell’avversario, in assenza di una reale identificazione con le istituzioni unitarie e, alla radice, di una sutura tra Paese reale e Paese legale. La violenza fascista, dallo squadrismo alla Liberazione, è stato soltanto la fase più acuta di questo lungo conflitto.

La fase più debole, invece, fu probabilmente proprio quella del periodo post-Jalta, nel quale la gabbia di ferro del sistema internazionale si rivelava in grado di far resistere le istituzioni alle varie crisi di delegittimazione. Il venir meno di questa gabbia ha rinfocolato i rischi di guerra civile non soltanto in Italia, dove scontiamo le note lacune del processo di unificazione, ma anche in altri Paesi europei apparentemente più coesi: anche senza citare la radicalizzazione dei musulmani autoctoni, il Primo Ministro francese Valls ammonì che il Fronte Nazionale (erede, difatti, di una tradizione che va dalla Vandea a Vichy) avrebbe potuto condurre la nazione alla guerra civile.


Alessandro Zabban

Il processo rivoluzionario pertanto viene promosso per il miglioramento materiale e spirituale del popolo: un sacrificio oggi per un avvenire più glorioso domani. Contro il pericolo di estetizzazione e mitizzazione della rivoluzione, occorre sempre avere la consapevolezza che essa porta con sé il rischio di una degenerazione in guerra civile. Questo avviene soprattutto quando la rivolta è promossa solo da alcuni settori della società che non detengono una superiorità schiacciante dal punto di vista del consenso e della forza politico-militare, generando una situazione di stallo che si protrae a lungo nel tempo. Il drammatico caso della Siria a questo proposito è emblematico. Ed è proprio da questo punto di vista che si può credo affermare che la rivoluzione vada fatta per il popolo e col consenso del popolo, per limitare al massimo le possibilità di una degenerazione senza via d'uscita.

L'Italia non ha mai avuto un vero processo rivoluzionario. Ci sono state molte fasi di conflitto esacerbato mosse da forze che sono però state di volta in volta duramente represse o incanalate e riassorbite. Neanche la Resistenza si è mai concretizzata come processo rivoluzionario ma piuttosto è stata una Guerra Civile atipica, fortemente condizionata dall'occupazione nazista e in misura minore dall'avanzata da sud degli Alleati. Mentre la Resistenza è stato un fenomeno fatto dal popolo, per il popolo e col consenso del popolo, non si può dire altrettanto per il movimento rivoluzionario post-sessantottino che ha segnato gli Anni di Piombo. Quella lotta era destinata a fallire per la mancanza di un diffuso appoggio popolare e non ha potuto così tramutare la violenza in energia positiva per la liberazione. C'era però una bacino sociale non maggioritario ma comunque rilevante che pur non approvando i mezzi di lotta dei brigatisti, ne appoggiava le idee di fondo. In quegli anni si è sicuramente rischiato di andare incontro alla guerra civile, una guerra civile nel senso stretto del termine. Lo stragismo nero e la strategia della tensione dimostrano come fosse avvertito in molti ambienti il rischio di una frattura sociale insanabile, da prevenire facendo ricorso a qualsiasi mezzo. Se siamo andati vicini a un colpo di Stato neofascista è anche perché il timore del dilagare del conflitto di classe era palpabile. Il terrorismo rosso era la risposta disperata a uno stallo socio-politico. I suoi mezzi hanno però di fatto dato il colpo di grazia in termine di legittimità e consenso proprio a quel movimento al quale loro volevano dare una scossa. Il caso Moro fu un danno di immagine enorme e simbolicamente rappresenta l'inizio del riflusso che culminerà negli anni ottanta col trionfo di un'ideologia del disimpegno e dell'interesse individuale.


 Immagine liberamente tratta da www.linkiesta.it

Ultima modifica il Martedì, 24 Ottobre 2017 09:04
Dieci Mani

Ogni martedì, dieci mani, di cinque autori de Il Becco, che partono da punti di vista diversi, attorno al "tema della settimana". Una sorta di editoriale collettivo, dove non si ricerca la sintesi o lo scontro, ma un confronto (possibilmente interessante e utile).

A volta sono otto, altre dodici (le mani dietro agli articoli): ci teniamo elastici.

www.ilbecco.it/diecimani.html
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