Nel frattempo, il ministro della Giustizia brasiliano Torquato Jardim ha accusato Battisti di aver “rotto il rapporto di fiducia” con il Paese sudamericano. Temer si è pronunciato favorevolmente verso l’estradizione, cogliendo il giubilo dei politicanti italiani. Il 24 ottobre la Suprema Corte brasiliana si riunirà per decidere sull'habeas corpus richiesto dagli avvocati dell'ex terrorista, ma il logorarsi della situazione politica sembra condurre ad un rapido calpestamento dei più basilari elementi dello Stato di diritto.
La narrazione mediatica della violenza politica negli Anni di Piombo vede sempre coloro che all'epoca a sinistra scelsero la lotta armata come pochi debosciati, nichilisti usciti da "I Demoni" di Dostoevskij, tragicomici personaggi isolati assetati di un sangue che possa colmare la vuotezza etica e politica.
La realtà storica è molto differente. Il cosiddetto terrorismo rosso non fu che il prodotto estremo dell'esasperato livello dello scontro dell'epoca, che aveva già trascinato gli apparati statali in una spirale di furore omicida che non ha paragoni nell'Europa occidentale. Fu un fenomeno relativamente di massa quello della lotta armata, con migliaia di partecipanti e fiancheggiatori e decine di gruppi. Ne restituisce un buon quadro l'editore Sensibili alle foglie, in una serie di libri purtroppo passata sotto silenzio.
Lo Stato decise all'epoca di stroncare un'intera area politica, quella Autonoma, ritenuta contigua con il terrorismo rosso. Le leggi speciali e processi di massa come quello che coinvolse il dott. Antonio Negri rimangono come un'oscena macchia sul pedigree democratico del nostro Paese.
L'amnistia per i coinvolti nei fatti di quegli anni non è solo giusta, non solo metterebbe una pietra tombale su fantasmi che turbano tuttora la nostra democrazia, non solo garantirebbe finalmente una pace equa tra vincitori e sconfitti di quella che fu quasi una guerra civile, ma permetterebbe di avvicinarci ad una verità storica che manca da troppo tempo. Nel Paese dell'armadio della vergogna non si può continuare ad invocare una giustizia di cui non si conoscono nemmeno i lineamenti.
Il Brasile, vittima dell’imperialismo statunitense è ormai da oltre un anno sotto la dittatura di Temer, impadronitosi del potere con un Colpo di Stato. Ovviamente la narrazione del potere si dimentica di ricordarci che la democrazia brasiliana che oggi si accinge a collaborare con l’Italia è sostanzialmente una dittatura. Lo Stato italiano insieme ai suoi poteri occulti, pur di chiudere i conti con gli ultimi militanti dei nuclei armati comunisti, è disposto a chiudere entrambi gli occhi su qualsiasi punto e farebbe carte false pur di rinchiudere al 41 bis un personaggio come Cesare Battisti.
Il caso Battisti nasce dagli eventi terroristici degli anni Settanta, conseguenza di quella che fu una vera e propria guerra civile in cui il Paese sprofondò in una legislazione d’emergenza che minò alle fondamenta lo Stato di diritto il quale non resse alle tensioni sociali montanti in quegli anni, i liberali si mettano pure l’anima in pace. La carcerazione preventiva all’epoca fu la regola, non l’eccezione, ma questo è scomodo da ricordare. Come è scomodo da ricordare che molte confessioni vennero estrapolate tramite tortura. E i processi collettivi utilizzarono tali confessioni come prove.
La condanna stessa di Battisti è quindi quantomai discutibile, come in pochi osano ricordare (merito a Evangelisti che qualche anno fa pubblicò un appello in sua difesa), in quello che è un linciaggio ormai decennale del movimento comunista. È particolarmente indicativo dei tempi cupi in cui stiamo sprofondando l’alta probabilità di estradizione del rifugiato politico Cesare Battisti. L’imperialismo ha rovesciato gli ultimi governi progressisti in America Latina e inizia a rivendicare il sangue dei suoi oppositori.
In questo Dieci Mani sono già state segnalate le importanti fonti a difesa della verità per quanto riguarda il Caso Battisti. Mi limito quindi qui a evidenziare due elementi.
Il sistema di informazione non informa. Distorce la memoria e riporta menzogne per quanto riguarda il presente. Il Paese ha un pessimo rapporto con la sua storia ed un malsano senso di giustizia, teso a proiettare su qualche "mostro" problemi generali, per rimuovere ogni difficoltà. Non c'è interesse per la ricerca di verità condivise, non si cerca di ricostruire un tessuto sociale sempre più provato dalle lacerazioni imposte dal sistema economico e politico egemone.
Manca ogni curiosità, ogni capacità di indignazione, a livello diffuso.
Alle nuove generazione gli anni del secondo dopoguerra sono raccontati come una favola della Prima Repubblica, una società pacificata in cui comunisti e democristiani superavano il fascismo in armonia e concordia.
Battisti fa paura perché è una vittima sacrificale scampata al sacrificio. Attorno a lui tutto si fa isterico, ogni discorso diventa quasi inutile.
Insistere con la voglia di attenersi alle informazioni, smontare ogni falso ragionamento impulsivo, continuare ad approfondire e leggere: resistere alla barbarie, nei casi come quello di Battisti è complesso ma necessario.
Gli argomenti addotti in solidarietà del latitante Battisti, rapinatore convertitosi in carcere alla violenza armata politica, fanno riferimento alla legislazione eccezionale antiterroristica e tradiscono, oltre al fastidio per quest’ultima, una malcelata fascinazione per la lotta armata. Le ragioni di questa fascinazione sono pressappoco le medesime che spinsero alla lotta armata stessa negli anni di piombo: il gusto di uccidere, che serpeggia nelle periferie (si ricordino i deliranti slogan inneggianti a Luciano Liboni); la noia per la vita; l’odio verso una società che ha riservato solo degrado. Questi ultimi due sono le facce di una sola medaglia e certamente l’ultimo è il motivo che più merita di essere studiato e risolto.
Ciò che non è accettabile è l’indulgenza al giustificazionismo per chi ha preso le armi contro la democrazia italiana e si è reso esecutore o complice di atti efferati e, talvolta, di grave impatto politico. Ogni 16 marzo ricordo la strage della scorta di Aldo Moro come un monito a combattere le sirene dell’odio antidemocratico che ancora oggi viene purtroppo proposto da movimenti eversivi.
Battisti ha beneficiato della c.d. “dottrina Mitterrand”, che ha fornito protezione a elementi terroristici considerati alla stregua di perseguitati politici: un’orrenda legittimazione della via violenta alla lotta politica; via che, se risulta obbligata in alcuni contesti storici, è disumana se condotta contro un quadro democratico. Chi contro questo quadro ha imbracciato le armi e ha potuto sottrarsi lungamente alla giustizia, godendo dell’appoggio di Stati esteri, non può pretendere un’indifferente clemenza dallo Stato italiano.
Certamente l’analisi può essere rivoltata: chi è che si è insubordinato alle regole democratiche dello Stato? I terroristi o non piuttosto le forze dell’ordine che hanno fatto ricorso alla tortura e ad azioni dubbie quali l’irruzione di via Fracchia? La risposta non può che essere: entrambi; fermo restando il diritto dello Stato ad attuare una legislazione emergenziale in caso di gravi minacce alla stabilità democratica (un orientamento che peraltro nel tempo si è perso, visto che oggi movimenti eversivi concorrono per il governo del Paese).
Per chiudere la stagione degli anni di piombo è necessaria non un’amnistia, ma un’inchiesta sulle violazioni della legalità compiute anche da uomini in divisa. In un Paese in cui non si riesce a imporre il numero identificativo sui caschi è evidente quanto stretta sia questa strada; l’amnistia, però, sarebbe una doppia fuga da responsabilità sanguinarie.
Del resto chi si è sottoposto a processo e in carcere ci è andato ha potuto usufruire di tutti gli istituti di premio previsti dal nostro ordinamento e anche, nel caso di Bompressi, della grazia presidenziale.
Poco è cambiato da quel marzo 2004, cioè da quando la demonizzazione di Cesare Battisti su praticamente tutti i media nazionali, tramite le solite distorsioni e semplificazioni, spinse Wu Ming 1 a scrivere una delle pochissime analisi costruttive e sensate su quella lunga e complessa vicenda (leggi qui). Oggi ci troviamo sempre lì, forse in un baratro storico- morale ancora più profondo, se pensiamo che persino l’Espresso ha recentemente titolato un suo incommentabile articolo: «Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti», da cui emerge sempre il solito vizio di fare di vicende politiche e giudiziarie complesse, della stessa storia italiana, un facile mezzuccio per abbindolare il pubblico al quale si vuole gettare in pasto ogni semplificazione spettacolarizzante possibile.
Come nel 2004, tocca tornare a ribadire che non si tratta di dimostrare se Cesare Battisti sia innocente o meno, ma di sottolineare l’incapacità generalizzata di ripensare a mente fredda e razionale sopra la nostra storia, in quanto italiani. Capire il contesto politico degli Anni di Piombo e del terrorismo rosso significa anche abbandonare i fanatismi. Cosa molto complessa se si continua a definire un uomo, che pur ha commesso i suoi errori, come “mostro”, senza considerare tutte le ambiguità sul suo processo giudiziario e senza nemmeno provare, più in generale, ad inserire la sua vicenda entro una discussione più ampia sui motivi politici e di classe che hanno spinto molti giovani alla lotta armata. Un nazionalismo becero ha sempre reso difficile in Italia l’autocritica storica, il massacro fascista in Jugoslavia rovesciato simbolicamente nella retorica delle foibe, ne è l’esempio più lampante ed è lo stesso che oggi spinge molti nostri cari giornalisti a impartire, persino con un certo disprezzo, lezioni di “smart thinking” a quegli intellettuali che, da García Márquez a Bernard-Henri Lévy, hanno solidarizzato con Battisti, non perché “traviati dal pregiudizio” come ci farebbe comodo pensare, ma perché avevano ben chiaro che la giustizia italiana e le sue leggi antiterrorismo erano (sono) contrarie a ogni minimo standard liberale e che dunque parlare di “giustizia” relativamente al caso Battisti era (è) semplicemente un ossimoro. Come diceva Pennac, anch’egli solidale con Battisti, “l’amnistia è il contrario dell’amnesia”: arriva sempre il momento in cui un popolo è chiamato a “chiudere una porta per permettere agli storici di capire un periodo in maniera meno passionale”. In Italia questo sembra impossibile.
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