Partirei dal dibattito, a cui lei ha partecipato, di apertura di questa festa, che ha avuto per tema una riflessione sull'esperienza del Partito Comunista Italiano ed in particolare sulle segreterie Togliatti e Berlinguer. Lei che ha partecipato a quella vicenda politica sin da giovane può descriverci il clima di quegli anni e cosa portò lei e la parte, probabilmente più viva, di quella generazione ad aderire al PCI e a quel progetto di trasformazione sociale di cui il PCI era portatore?
Personalmente il mio ingresso in politica è avvenuto con il movimento studentesco del sessantotto. Il punto che si pose per molti noi era di come tradurre quelle idealità e quelle spinte del cambiamento che si erano manifestate in quel movimento ed in quegli anni: anni in cui vi era tanto il movimento studentesco, che si caratterizzava soprattutto per una battaglia di rinnovamento culturale ed anti-autoritaria, quanto il forte movimento operaio del cosiddetto autunno caldo. Ritenevamo il Partito Comunista Italiano il luogo nel quale far vivere quelle idee e cercare di realizzarle.
In particolare quella che ricordo più direttamente è la segreteria di Berlinguer che ha avuto una grande importanza. Quando morì Berlinguer ci fu in tutta Italia, non soltanto tra i comunisti, una reazione di commozione perché si vedeva in quell'uomo l'espressione di idealità, serietà, onestà.
La forza del Partito Comunista stava nell'idea che una società ingiusta andasse cambiata profondamente anche attraverso battaglie molto concrete innanzitutto a difesa del mondo del lavoro.
Credo quella idea di trasformazione, almeno per la mia generazione, sia stata la ragione della adesione al Partito Comunista Italiano e sicuramente Togliatti e Berlinguer sono state due figure di riferimento importanti.
Un elemento che mi pare sia importante porre riguarda lo scioglimento del PCI, che è avvenuto sull'idea base di costruire (rimuovendo o comunque trasformando i cardini ideologici sui quali si fondava quel partito) una sinistra più grande e finalmente proiettata al governo del Paese. Alle luce delle vicende vissute dalla sinistra negli ultimi vent'anni cosa salva e cosa rigetta di quel grande processo di trasformazione avvenuto nel 1991?
A mio avviso un cambiamento era necessario. Non si può immaginare una storia diversa da quella che è stata, in particolare per i legami molti solidi che il PCI aveva con l'Unione Sovietica ed i Paesi socialisti dell'Est. Questo cambiamento fu però fatto male e gestito peggio.
La parola scioglimento, introdotta da Occhetto ferì molti: c'era da innovare, non da sciogliere.
Inoltre molto presto, dopo la sconfitta elettorale subita da Occhetto, il gruppo dirigente che gli subentrò seguì le politiche – profondamente subalterne al neoliberismo – che in quegli anni erano portate avanti, purtroppo, da tutta la sinistra europea, a partire da Schröder e Blair: probabilmente all'epoca ciò si capiva meno, oggi vi è un quadro storico complessivo. Penso che quella subalternità fosse l'errore fondamentale e la ragione che mi spinse prima all'opposizione nel PDS e poi a non aderire al PD.
Lei citava il blairismo: ormai da molto, ed anche sulla scia di quell'esperienza, vi è una continua discussione riguardante riforme del mercato del lavoro ed una spinta ad ulteriori flessibilizzazioni. In virtù della sua esperienza, anche come ministro del Lavoro nei due governi D'Alema, cosa vede all'orizzonte nel mondo del lavoro e quale sfida va lanciata – da sinistra – a questa trasformazione del mondo del lavoro?
Oggi è discussione una vecchia partita: quella riguardante l'articolo 18, che la sinistra ha sempre difeso e la destra - insieme a Confindustria - ha sempre avversato, fin dalla sua introduzione. Ci sono stati, anche nel periodo in cui ero ministro, ripetuti tentativi ed io assunsi la sola posizione che mi sembrava giusta: bisogna dire semplicemente no, non va cambiato ed è giusto che rimanga.
Sono molto perplesso rispetto ad una logica emendatoria che c'è anche in alcuni esponenti della sinistra del PD. Sono questioni di principio, la norma è chiara: o il reintegro c'è oppure non c'è. Credo che nessuna tra le ragioni che sono state addotte sia valida per abolire o modificare quella norma.
C'è un punto, che a mio avviso si trascura nel dibattito, di dignità e di potere del lavoratore. Con il reintegro si è più liberi di protestare, di scioperare o di andare alle assemblee. Se c'è la minaccia di perdere il posto di lavoro si è più deboli ed è questo lo scopo finale: sferrare un ulteriore colpo al potere dei lavoratori nei luoghi di lavoro.
Ritornando alla sinistra politica ed al suo futuro, tema dei dibatti di questi giorni: la sinistra sembra essersi persa tra abiure e liberismo da un lato e derive settarie e minoritarie dall'altro. Cosa vede e cosa spera all'orizzonte?
Bisogna ricominciare a unire invece che a dividere. Unire per avere un partito della sinistra che abbia due cardini fondamentali che sono tra loro strettamente legati: lavoro e democrazia. Vanno messi da parte settarismi e personalismi. In realtà quello che divide è molto meno di ciò che unisce. C'è la speranza quindi che si affermi una sinistra, certamente moderna e con un linguaggio nuovo, ma che faccia valere i propri valori senza cedere al pensiero dominante.
foto Salvatore Contino